Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 24 giugno 2019

S. Francesco ed il Sultano d'Egitto. Un'interpretazione storica da rivedere

Rilanciamo volentieri, in occasione dell’VIII centenario dell’incontro di S. Francesco con il Sultano d’Egitto (avvenuto il 24 giugno 1219), questo contributo di Mons. Nicola Bux e dell’Avv. Francesco Patruno.



S. FRANCESCO ED IL SULTANO D’EGITTO. UN’INTERPRETAZIONE STORICA DA RIVEDERE.

Di 

Mons. Nicola Bux e Avv. Francesco Patruno


Terrasanta, periodico della Custodia Francescana, ospitava dieci anni fa un dossier di padre Gwenolé Jeusset, ofm, San Francesco in Terra Santa (nuova serie, anno IV, n. 5, 2009, pp. 27-42). Gli articoli ruotavano intorno all’episodio dell’incontro col sultano, a Damietta, contrapponendolo al martirio dei primi frati, inviati in Marocco, dallo stesso Santo di Assisi «per ispirazione divina» (come si legge nella Cronaca dei Ministri Generali dell’Ordine dei Frati Minori, in Analecta Franciscana, 111, p. 15).
Oggi, a distanza di dieci anni, il numero di marzo-aprile 2019 della stessa rivista, dedicava un nuovo dossier a quell’incontro, per celebrarne l’VIII centenario (1219-2019). Anche questa volta non poteva mancare un nuovo articolo di padre Jeusset, dal titolo Le ragioni di un viaggio, in cui l’Autore riprende un po’, in maniera più marcata, ciò che il medesimo diceva dieci anni addietro. Con una particolarità. Viviamo, nella Chiesa attuale, ahimé, lo spirito della Dichiarazione sulla “Fratellanza Umana” di Abu Dhabi dello scorso febbraio, che ha visto il vescovo di Roma, “novello san Francesco”, incontrarsi con il Grande Imam di Al-Azhar, erede spirituale – diciamo così – e rappresentante islamico oggi di quello che fu il sultano d’Egitto, di origine curda, al-Malik al-Kamil, nipote del celebre Saladino, che il Santo d’Assisi ebbe modo di incrociare nella propria esistenza.
Tornando all’articolo di dieci anni fa di padre Jeusset, va posto in luce che, per lui, tale incontro addirittura rappresenterebbe una «svolta dell’evangelizzazione» (Gwenolé Jeusset, San Francesco in Terra Santa, cit.). Si esaltava l’ideale di fraternità universale presentandola come altra cosa rispetto alla Chiesa “delle crociate”, che aveva «i paraocchi». L’Autore giungeva ad affermare che Francesco usciva dal «ghetto» cristiano per entrare, si può supporre, nello spazio interreligioso di ampio respiro! Insomma, si anticipavano dieci anni fa quelli che sarebbero stati, in fondo, i temi, culturale ed ideologico, in cui sarebbe maturata la ricordata dichiarazione del febbraio 2019.
Ci sia permessa una chiosa: curioso che questa “svolta dell’evangelizzazione” non sia stata percepita come tale dai figli dello stesso S. Francesco per oltre 750 anni, i quali l’abbiamo, invece, “scoperta” soltanto oggi. È curioso ricordare che, non a caso, i maggiori Santi francescani furono degli strenui difensori, promotori quando non veri e propri protagonisti sui campi di battaglia del modello oggi contestato. Basti ricordare S. Bernardino da Siena, S. Giacomo della Marca, S. Giovanni da Capistrano, S. Luigi IX, beato Marco d’Aviano, tanto per citare alcuni nomi. Forse questi Santi e Beati, le cui virtù la Chiesa ha riconosciuto solennemente, erano dei traditori delle direttive ispiratrici del loro Serafico Padre?
La verità è che siamo di fronte ad una ideologia già nota, quella del Francesco ambientalista e pacifista, quasi socio ante litteram del WWF ed attivista delle “marce per la pace”, in contrasto a dir poco con quanto le fonti francescane comparate e gli studi più seri ci riferiscono, soprattutto in merito al celebrato e mitizzato incontro di Francesco col sultano. Basta ricorrere, tra tanti, allo studio, davvero pregevole, dello storico Franco Cardini (Francesco d’Assisi, Milano, 1990, II ed.), che tiene conto adeguatamente delle fonti e della loro ricezione critica, sebbene, ad onor del vero, lo stesso Autore abbia, in seguito, rivisto le posizioni assunte nel suo libro, non sulla base di nuovi studi o scoperte, ma probabilmente per una rivisitazione di quell’episodio alla luce dell’odierno spirito dei tempi. Ci riferiamo, a quest’ultimo riguardo, alla raccolta di saggi, Nella presenza del soldan superba. Saggi francescani, Spoleto, 2009.
Ad ogni modo, tornando a quello studio sulla vita del Poverello d’Assisi, il noto storico fiorentino, che peraltro conosce bene l’Oriente, ricordava che le prime iniziative dell’Ordine francescano in Francia, Germania e Marocco volte all’evangelizzazione registrarono un fallimento, non per cattiva volontà dei frati, ma perché intraprese forse in fretta sull’onda dell’entusiasmo; a provocarle era stato lo stesso Francesco al di là delle intenzioni. Di certo, a questi non interessavano le visioni palingenetiche della società – vedi la fraternità universale, come dice Gwenolet Jeusset – né tantomeno pensava che costituissero lo scopo del suo movimento mendicante ma «egli voleva mantener fermo il suo proposito di vita, la sequela Christi, l’imitazione del modello evangelico attraverso la penitenza e la povertà» (Cardini, Francesco d’Assisi, cit., p. 183). Certo «dalla visita di Francesco in Oriente […] data il decollo di quel missionarismo francescano che ha mutato radicalmente le prospettive dell’approccio cristiano agli infedeli» (ibidem, p. 184). Invece, si è valutata la sua posizione di fronte alla crociata, affermando che non poteva non essere contro e via dicendo: «Francesco – si è concluso alla fine di questa galleria di sciocchezze – ha dimostrato incontrando il sultano di voler convertire gli infedeli con l’amore, non con la spada» (ibidem, p. 185).
Cardini sosteneva, in effetti, che tali argomenti non meritassero d’essere confutati, tuttavia li affrontava egualmente, esordendo col lamentare «una grossolana ignoranza di quel che significasse la crociata nel contesto spirituale, disciplinare ed ecclesiale del tempo; e di come in quel contesto si situasse la proposta di Francesco» (ibidem): essa era un «pellegrinaggio armato» e non «una guerra missionaria, alla quale ci si potesse ragionevolmente opporre nel nome di un concetto pacifico di missione. In secondo luogo Francesco – che era senza dubbio uomo di pace, e che alle armi aveva rinunziato come ad ogni altra cosa che riguardasse il saeculum, il mondo – non avrebbe comunque mai potuto contestare la crociata per due motivi: uno esterno e disciplinare, che potrebbe sembrar definitivo e mettere a tacere ogni polemica; uno invece intimo, spirituale,connaturato ai tempi e a lui stesso, che potrebbe sfuggire a qualcuno e merita quindi di venir sottolineato» (ibidem, p. 186). La crociata era stata voluta dalla Chiesa di Roma come sforzo corale della cristianità per liberare i luoghi santi. Coloro che predicavano contro la crociata erano innanzitutto gli eretici (ad es. Arnaldo da Brescia e Valdo di Lione: cfr. C. Papini, Valdo di Lione e i “poveri nello spirito”. Il primo secolo del movimento valdese (1170-1270), Torino, ed. Claudiana, 2001, passim), e Francesco «non poteva non distinguersi da loro attraverso un solo ma inequivocabile tipo di scelta: la disciplina nei confronti della Chiesa, l’obbedienza» (F. Cardini, op. ult. cit., p. 186). Per questo, nelle fonti non si trova una sola parola di Francesco contro la crociata, come contro nessun altro. Sebbene tale silenzio non equivalga ad approvazione né, sotto altro verso, a riprovazione. Come afferma lo storico Benjamin Z. Kedar, docente emerito di storia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, in un saggio recente, Crociata e missione. L’Europa incontro a l’Islam, Roma 1999 (riedito nel 2015), «nessuna delle fonti attribuisce a Francesco parole che possano essere interpretate come critica delle crociate» (ivi, p. 166).
L’argumentum e silentio, di per sé, dunque, non può essere sostenuto come prova della contrarietà del Santo alle crociate, sebbene – può ipotizzarsi – possa essere rimasto scandalizzato dal comportamento dei crociati, che bestemmiavano ed andavano con prostitute.
Né può trarsi un argomento di contrarietà dalla circostanza che il Santo di Assisi decidesse di varcare le linee nemiche (peraltro non senza il permesso del legato papale e guida religiosa della V crociata, l’intransigente card. Pelagio Galvani d’Albano!), entrando in campo islamico, del tutto disarmato. Ciò era, del resto, perfettamente giustificabile se si considera che egli era stato aggregato al clero fin dalla prim’ora, su ordine del papa e per la mediazione del Cardinale di San Paolo, Giovanni Colonna, tanto da ricevere la tonsura clericale (cfr. Fonti Francescane, nn. 1460, 1461, 1528) e venendo, in seguito, rivestito del diaconato. Non è, anzi, improbabile che, per facilitare il compito della predicazione di Francesco e dei suoi frati nelle chiese, fosse stato lo stesso vescovo di Assisi, o addirittura il Papa, ad averlo ordinato diacono. Scrive infatti il Celano nella sua Vita Prima a proposito del Natale del 1223 di Greccio: «Induitur sanctus Dei leviticis ornamentis, quia levita erat, et voce sonora sanctum Evangelium cantat …» (ibidem, n. 470). Perciò, quando, nel 1219, si recò in Egitto, era già diacono, poiché non portò con sé armi, stante il generale divieto canonico – almeno dal Concilio provinciale di Poitiers del 1079 («clerici arma portantes et usurarii excommunicentur»), in seguito ripreso da altri sinodi e nelle raccolte delle decretali – per i sacri ministri di indossare, salvo particolari eccezioni, armi di sorta. Addirittura, era vietata, per questo motivo, persino la caccia, come stabiliva il can. 15 del Concilio Lateranense IV del 1215! Ecco spiegato il motivo per il quale S. Francesco andò disarmato.
Franco Cardini osservava quindi che «[b]isogna forse avere il coraggio di disincantare la realtà storica di un Francesco troppo spesso ricostruito secondo i gusti e le tendenze morali odierne, e guardare alla concreta realtà storica del XIII secolo» (F. Cardini, Francesco d’Assisi, cit., p. 187). Per l’uomo di quell’epoca e per Francesco, che aveva scelto Cristo a modello di vita, la crociata era anzitutto il pellegrinaggio, la visita ai luoghi del Salvatore, la cui conoscenza e venerazione bisognava portare in Occidente; questo superava le violenze e le infamie in essa perpetrate, perché su queste trionfa la Croce. «E qui subentra il secondo, non sottovalutabile aspetto della questione. Francesco vedeva nella crociata anzitutto l’occasione del martirio; e nel martirio la forma più alta e più pura della testimonianza cristiana. Dire che l’ha cercato equivale a non valutare correttamente il peso che, nella sua vocazione, aveva l’umiltà. Certo però egli si è posto, anche in questo, a disposizione della Provvidenza» (ibidem, p. 188).
Nella regola del 1221 (la c.d. Regula non bullata) il Poverello riassumeva, come è noto, l’esperienza del viaggio in Oriente, invitando i frati ad andare tra gli infedeli (De euntibus inter saracenos et alios infideles) in due modi: il primo, senza liti né dispute, ma sottomettendosi e confessando d’essere cristiani; l’altro modo era di valutare i segni del Signore circa il momento opportuno per annunziare il suo vangelo ai «saraceni o altri infedeli», battezzarli e farli cristiani «perché chiunque non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non potrà entrare nel regno dei cieli» (ibidem) («Fratres vero, qui vadunt, duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari. Unus modus est, quod non faciant lites neque contentiones, sed sint subditi omni humanae creaturae propter Deum (1 Petr 2,13) et confiteantur se esse christianos. Alius modus est, quod, cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei, ut credant Deum omnipotentem Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium, redemptorem et salvatorem Filium, et ut baptizentur et efficiantur christiani, quia quis renatus non fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest intrare in regnum Dei»). Le due modalità non erano contrapposte: anche la prima, per la verità, serviva a scrutare il momento per costruire la Chiesa, senza della quale non sarebbe possibile «la costruzione di un nuovo mondo, un programma di fraternità universale», tanto auspicata da p. Jeusset (San Francesco in Terra Santa, cit., p. 39). Senza la Chiesa non c’è salvezza (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 846), perciò l’Assisiate avvertiva come suo imprescindibile compito l’evangelizzazione di tutti gli uomini. Altrimenti perché mai Cristo sarebbe venuto al mondo e l’avrebbe fondata?
Dimenticarlo, significa credere che l’uomo si salvi comunque ed a prescindere da Cristo, perché, come pensava Rousseau, esso sarebbe naturalmente buono.
Francesco andò dal sultano nella consapevolezza di tutto ciò.
Ora, contrapporre i protomartiri del Marocco (canonizzati dal Pontefice Sisto IV il 7 agosto 1481, con la bolla Cum alias, e riconosciuti dallo stesso S. Francesco come suoi veri Frati e da S. Antonio da Padova come suoi modelli ispiratori) e la «Chiesa delle crociate», come fa p. Jeusset, al comportamento del Santo a Damietta, significa assumere un atteggiamento ideologico, come si evince dalla seguente affermazione: «Serviranno più di settecento anni allo Spirito Santo […] per farci capire che l’incontro vissuto da Francesco d’Assisi era importante tanto quanto il martirio in generale, ed era il contrappunto del martirio di Marrakesh» e dalla conclusione chiastica che «Damietta è l’incontro senza martirio; Marrakesh è il martirio senza incontro. Damietta è l’incontro tra due credenti; Marrakesh è lo scontro di due sistemi e di due mentalità opposte, Marrakesh è il vicolo cieco. Damietta al contrario è la strada che apre nuovi orizzonti» (Gwenolé Jeusset, op. ult. cit., p. 32).
In realtà, è il rapporto di Francesco con i musulmani, impostato sull’umiltà d’essere “minore”, a suscitare ammirazione in Oriente. Non a caso Dante lo descrive umile «alla presenza del soldan superbo» (Par. XI, 101). È proprio l’umiltà ad essere “pericolosa”: il sultano era – secondo l’Historia Occidentalis di Jacques de Vitry, vescovo di S. Giovanni d’Acri e cardinale - «preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall’efficacia delle sue parole» (Cardini, op. ult. cit., p. 193) («[…] Tandem vero, metuens ne aliqui de exercitu suo, verborum eius efficacia ad Dominum conversi, ad christianorum exercitum pertransirent […]»). Ipotizzando che Francesco avesse profittato della tregua sotto l’assediata Damietta per cercare d’incontrare il sultano, si può dedurre – facendo la media delle cronache di Giacomo, di Ernoul, di Tommaso da Celano e di Bonaventura – che l’avesse fatto, secondo Cardini, perché «voleva solo testimoniare: non era sua intenzione convertire nessuno» (op. cit., p. 199). A lui stava a cuore solo Cristo, non i valori, come si dice oggi, fosse pure la pace.
A nostro sommesso avviso, comunque, non poteva dirsi estranea al Poverello l’annuncio della fede tra gli infedeli e la ricerca, se necessario, della corona del martirio: «per la sete del martiro», diceva Dante (Par. XI, 100)!
Al contrario, l’idea-madre di P. Gwenolé Jeusset è la fraternità universale: «Francesco voleva andare tra i musulmani per dir loro che Gesù, sulla croce, ci aveva resi fratelli» (op. cit., p. 28; cfr. anche ibidem, p. 34). Può esser vero se si aggiunge a questa verità l’altra: bisogna riconoscere la Croce e chi vi è stato crocifisso, per tirarne come conseguenza la fraternità. È noto, invece, che proprio ciò scandalizza i musulmani, i quali ritengono fratelli solo i correligionari, mentre tutti gli altri sono sottomessi o infedeli.
Per riconoscere la fraternità, bisogna convertirsi alla paternità di Dio, ma questo solo Gesù l’ha rivelato: perciò ci si deve convertire a Lui. Forse che Cristo non voleva la fraternità universale? Proprio per questo ha fondato la Chiesa! Oggi, piuttosto, ci si imbatte persino in chi, ecclesiastico, vorrebbe raggiungere tale risultato a prescindere non solo dalla conversione, ma anche dalla stessa Chiesa. I muri che dividono, sono già caduti col sangue di Cristo, ma lo possono riconoscere solo coloro che si convertono a Lui. La fraternità non ha frontiere sulla terra solo se ci si converte a Cristo, come affermava, d’altronde, anche S. Paolo, il quale esclamava non a caso nell’Epistola ai Galati: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal. 3, 26-29). Ed ancora nell’Epistola agli Efesini: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef. 2, 13-14).
Solo in Cristo, riconoscendoLo, vi può essere la fraternità universale.
Diversamente, si coltiva un’utopia: quella che porta, il p. Jeusset a vedere in Damietta addirittura «una svolta dell’evangelizzazione» (op. cit., p. 36), il passaggio dalla mentalità della conquista alla mentalità dell’incontro (ibidem, p. 37), dallo spirito delle crociate allo spirito della fraternità, al punto da avanzare la certezza che «[s]e Francesco non conseguì il martirio a Damietta, ricevette però la grazia di un incontro spirituale al di là dei paraocchi della Chiesa delle crociate» (ibidem, p. 37). Jeusset approda alla visione di un Santo che «abbandona il suo io ecclesiale. Esce dal “ghetto” cristiano e raggiunge il lebbroso spirituale, cioè il musulmano, andando ben oltre, al di là del mare …» (ibidem, p. 41). Egli giunge persino ad affermare che il Poverello «non era andato a liberare una tomba vuota a Gerusalemme, ma aveva scoperto che Gesù, uscito vivo dalla tomba, era presente col suo Spirito in coloro che lui, il pellegrino Francesco, incontrava sull’altra sponda» (ibidem, p. 38). Si può essere sicuri che costoro siano i musulmani! Ma…non ha detto Gesù che i veri adoratori avrebbero adorato il Padre in spirito e verità (cfr. Gv. 4, 24)? Siccome per arrivare al Padre bisogna passare per mezzo di Lui, per caso i musulmani sono già tali? Dunque, non travisiamo la storia e tanto meno la fede cattolica.
Frattanto, la summenzionata rivista, come detto all’inizio, è tornata sul tema di san Francesco e il Sultano, in occasione dell’VIII centenario del fatto avvenuto il 24 giugno 1219, pubblicando in copertina e all’interno le foto di nuove icone ad hoc, che canonizzano quest’ultimo con il nimbo dell’aureola e lo immaginano, fantascientificamente quanto storicamente inattendibile, abbracciato dal Santo d’Assisi!
Due chiose finali ci siano permesse.
La prima, se è questa l’idea di fondo oggi imperante nel mondo francescano, si abbia almeno la coerenza logica e l’onestà intellettuale di “de-canonizzare” e “de-beatificare” i Santi francescani che, in un modo o nell’altro, hanno rappresentato, in contrario, ciò che oggi viene contestato, giacché la loro testimonianza stride in maniera sin troppo evidente con quanto oggi viene ideologicamente proposto.
La seconda – come ci ricorda anche un recente articolo de La Verità (Fabrizio Cannone, San Francesco non costruì dei ponti. Convertì gli islamici, in La Verità, 20.6.2019, p. 19) è un ammonimento del Pontefice Pio XI, nel 1926, nell’enciclica Rite Expiatis, nel VII Centenario della morte di S. Francesco. Papa Ratti, scagliandosi contro i primi adulatori e contraffattori della vita del Santo, osservava: «Non cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco, così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa». Citando le parole del Breviario romano, quindi, ammoniva: «A chi piace il merito del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita» (§ 11).

giovedì 20 giugno 2019

domenica 16 giugno 2019

Oltre la linea ci salva la Verità

Nell’odierna festa della SS. Trinità rilanciamo questo contributo di riflessione di Alessandro Gnocchi.




















Oltre la linea ci salva la Verità





Non so se vi sia più arroganza e compiacimento del potere sotto i girocollo blu e le croci a Tau dei preti postcristiani o sotto le grisaglie e i pantaloncini a tubo dei finanzieri postcapitalisti. Gli uni e gli altri spietatamente postmisercordiosi, a seconda dell’ufficio proprio, nel negare la comunione a chi si inginocchia davanti a divino sacramento oppure il mutuo a chi crede ancora nell’avvenire dei figli. Gli uni e gli altri uniti dalla medesima incomprensione per gli elementi minimi di umanità. Il potere comanda e loro eseguono.
Per descrivere questi miserevoli funzionari del Nulla non c’è di meglio che il passo di Arcipelago Gulag in cui Aleksàndr Solženicyn descrive i giudici istruttori che mandavano al macello i dissidenti sovietici: «Il loro mestiere non esige che siano persone istruite, di cultura e vedute larghe, e tali non sono. Il loro mestiere non esige che pensino logicamente, e non lo fanno. Il loro mestiere esige unicamente una precisa esecuzione delle direttive e che siano insensibili verso le sofferenze altrui: e questo sì, lo fanno. Noi che siamo passati attraverso le loro mani li sentiamo, con un senso di soffocamento, come blocco di esseri totalmente privo di concetti umani. (…) Capivano che le accuse erano fasulle eppure lavoravano anno dopo anno. Come mai? O si costringevano a non pensare (e questa è la distruzione dell’uomo) o, semplicemente, si dicevano: così deve essere. Chi scrive le direttive non può sbagliare».

La banalità del male, alla quale si può opporre solo l’evidenza del vero, l’unica arma che neanche il funzionario più solerte può sequestrare. Alla lunga, il potere iniquo può solo essere eroso dalla resistenza condotta nella verità. È ancora Arcipelago Gulag il luogo in cui si mostra cosa accade quando un uomo oppresso dice a se stesso: «Rimangono importanti e a me cari soltanto il mio spirito e la mia coscienza». Allora, «davanti a un simile detenuto vacillerà l’istruttoria. Vincerà solo chi avrà rinunziato a tutto. (…) al momento del processo, sono riusciti a trasformare in marionette la cerchia di Berdjaev, ma non lui medesimo. Lo volevano processare, fu arrestato due volte, lo portarono a un interrogatorio notturno da Dzeržinskij, dove c’era anche Kamenev. Ma Berdjaev non si umiliò, non si profuse in suppliche: espose con fermezza i principi religiosi e morali in virtù dei quali non accettava il potere che si era instaurato in Russia, e non solo fu riconosciuto inutile processarlo, ma lo liberarono. L’uomo aveva un punto di vista proprio!

«N. Stoljarova ricorda una sua vicina nella prigione di Butyrki nel 1937, una vecchina. La interrogavano ogni notte. Due anni prima un metropolita fuggito dalla deportazione, di passaggio a Mosca, aveva pernottato da lei. “Mica un ex metropolita, macché, uno vero! Sì, avete ragione, ho avuto l’onore di ospitarlo”. “Bene e da chi andò poi, partendo da Mosca?”. “Lo so. Ma non lo dirò”. (Il metropolita era fuggito in Finlandia con l’aiuto di una catena di fedeli). I giudici istruttori si alternavano, si riunivano a gruppi, minacciavano la vecchina coi pugni, e lei: “È inutile, non mi farete dire nulla, anche se mi faceste a pezzi. Voi avete paura della autorità, avete paura l’uno dell’altro, avete perfino paura di ammazzare me [avrebbero perduto la “catena”]. Io invece non ho paura di nulla. Sono pronta a presentarmi davanti al Signore anche subito!”».

In questo consiste il «Non abbiate paura». Con il leviatano anticristico, in girocollo blu o in grisaglia, non è possibile collaborare. Non si mediterà mai abbastanza sull’ammonimento di Hanna Arendt: «Abbiamo la responsabilità della nostra obbedienza». Siamo chiamati a scegliere, ma questo non è solo un dovere di nostri giorni, l’uomo lo deve fare sempre. Oggi è più urgente, più drammatico e più doloroso poiché il terreno su cui ci si illude di trovare una mediazione onorevole si va sgretolando ed esaurendo. Cosicché, paradossalmente, la scelta, mostrandosi inevitabile, diventa più facile.

Ernst Jünger, nel Trattato del Ribelle, definisce la decisione di opporsi radicalmente alla tirannia della modernità con l’evocativa immagine del «passaggio al bosco». L’immagine del bosco dà forma al concetto di libertà intimamente radicato nell’essere e, dice Jünger, «è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. (…) Qui sono a disposizione mezzi diversi oltre al semplice “no” da scrivere in una in una determinata casella. (…) Si può anche dire che nel bosco l’uomo dorme. Non appena aprendo gli occhi riconosce il proprio potere, l’ordine è ristabilito. (…) catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i fondali di una immaginazione gregaria».

L’uomo non è un granello di sabbia, appartiene, meglio apparteneva, a un “popolo”. Ma il “popolo” è un’entità che non va più di moda: avvolto in malinconiche bandiere rosse è stato seppellito assieme alla suo passato e al suo futuro, la sua Tradizione. Si sono inventati il popolo-di-Dio e l’hanno presto trasformato in popolo-del-dio-Danaro, l’uno e l’altro odiato e vessato dai kommissari postcristiani e postcapitalisti perché il “popolo”, persino quello artificiale, mette a disagio il potere. Raramente si percepisce tanto disprezzo nei suoi confronti come nelle liturgie che vanno in scena nelle chiese postcristiane o nelle banche postcapitaliste. Non c’è nulla di buono in quei templi e in quelle religioni, rispetto ai quali siamo chiamati a essere profani. Lo dice ancora Jünger quando parla del «nichilismo cristiano che si rende il compito un po’ troppo facile. Non posiamo limitarci a immaginare il vero e il buono ai piani nobili, mentre in cantina stanno scorticando vivi i nostri confratelli. Non sarebbe lecito neanche se ci trovassimo, spiritualmente intendo, in una posizione non soltanto più sicura ma addirittura superiore – poiché la sofferenza inaudita di milioni di schiavi grida comunque vendetta al cospetto del cielo. Le esalazioni che emanano dagli scorticatoi continuano ad appestarci. Non sono situazioni che si possono aggirare con qualche mezzuccio».

Ma il “bosco”, se vogliamo mantenere questo nome per il luogo in cui esercitare fino al fondo la grazia della fede e la virtù del vivere civile, non è fatto per ospitare i grandi agglomerati. Non può ospitare movimenti, partiti e manifestazioni di massa, piccoli o grandi che siano, neanche quando sono frutto di buone intenzioni. Un amico mi ha rammentato alcuni passi una splendida opera di Simone Weil che si intitola Manifesto per la soppressione dei partiti politici. Sono tragicamente inoppugnabili: «Quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un partito e stare al gioco. (…) I partiti sono un meraviglioso meccanismo in virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la giustizia, la verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise ed intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non si saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso».

E poi ancora: «È desiderando la verità a mente sgombra e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto che si riceve la luce. A questo si riduce l’intero meccanismo dell’attenzione. È impossibile esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica prestando attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la giustizia e il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si conviene a un membro di un certo raggruppamento. La facoltà d’attenzione umana non è capace di rispondere simultaneamente a queste due preoccupazioni. In effetti, chiunque si dedichi a una di esse, abbandona l’altra. Ma nessuna sofferenza attende chi si abbandona alla giustizia e alla verità, mentre il sistema dei partiti comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi tutto: carriera, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla perfezione».

Ma Simone Weil non fece in tempo a vedere la chiesa postcristiana e la finanza postcapitalista, che hanno saputo fare di più e meglio rispetto all’orrore comunista. Quello si spingeva sino alla distruzione dei corpi, ma poteva lasciare intatte le anime. Qui e ora, invece, è in gioco molto più che la salvezza terrena, poiché si decide di quella eterna. 

Come ieri non era possibile salvare l’integrità del proprio corpo e del proprio pensiero entrando anche con riserva mentale nel meccanismo comunista, così oggi non è possibile salvare l’integrità della propria fede e della propria anima esercitando tale riserva per entrare nella pancia del leviatano postmoderno. Tutti coloro che ci hanno provato, pensando di “fare almeno un po’ di bene”, si sono persi. Quando ci si costringe all’ossequio per l’autorità iniqua nell’illusione di rivolgersi solo alla piccola porzione di buono che nonostante tutto permane, si compie un gesto naturale che perverte quello spirituale creando abitudine al male.

Nella sua parte del saggio Oltre la linea, firmato con Heidegger, Jünger descrive nel 1949 la capacità di contagio del Nulla in pagine che paiono il ritratto della chiesa e del mondo di oggi: «Il nichilismo può effettivamente armonizzarsi con sistemi d’ordine di estese dimensioni, e (…) per diventare attivo su larga scala, deve addirittura ricorrere a essi. Il caos diventa visibile solo nel momento in cui il nichilismo comincia a venire meno in una delle sue combinazioni. È istruttivo vedere che perfino nelle catastrofi le componenti d’ordine sono presenti, addirittura sino alla fine o quasi. È chiaro perciò che l’ordine non solo è ben accetto al nichilismo, ma fa parte del suo stile. (…) Perfino nei luoghi nei quali il nichilismo mostra i suoi tratti più inquietanti, come nei grandi luoghi di sterminio fisico, regnano sovrani la sobrietà, l’igiene, l’ordine rigoroso».

Un’analisi inquietante che mostra come, nella sua componente umana, la Mater et Magistra possa insegnare istituzionalmente e magistralmente ai suoi figli le vie della perdizione. E spiega anche perché, nella corsa verso il Nulla, con la sua formalistica difesa dell’ordine, sia in grado di sedurre i cristiani dediti alla conservazione intesa come metodo, sganciata dal contenuto. Per il fariseo, non vi è niente di più irresistibile di una forma riempita di nulla. 

Si potrà anche gridare all’ossimoro, ma, ai tempi della svolta linguistica nichilista, questa è triste realtà. E così «Nascono religioni sostitutive in numero incalcolabile. Si può anzi dire che con lo spodestamento dei valori supremi qualsiasi cosa può acquisire un’illuminazione e un significato liturgici. Non solo le scienze della natura assumono questo ruolo; prosperano le visioni del mondo e le sette; è un’epoca di apostoli senza missione. (…) Ciò genera l’impressione di un eremo disseminato di mulini deputati alla preghiera e che ruota sotto il cielo stellato. Ininterrottamente, diventa più importante la quantificabilità di tutti i rapporti. Si continua a consacrare, benché non si creda più nell’eucarestia. Allora, per renderla più comprensibile, la si interpreta diversamente».

Rimane la preghiera, e non è poco. È tutto. Hugo Ball, in Cristianesimo bizantino, nella capitolo dedicato a San Giovanni Climaco scrive: «La preghiera è aristocrazia della povertà. In essa si tocca tutto ciò che è esclusivo nel cielo e nella terra. Solo colui che qui è emarginato è là benvenuto e solo colui che qui è imprigionato là si libera. Nessun intelletto penetra con uno scopo o un tornaconto in questo luogo santo. La meditazione può infiammare, ma solo la preghiera illumina. Essere assorti nel proprio cuore è già molto. Ma cosa ben diversa è “che lo spirito visiti il cuore come un principe vescovo e intanto offra ostie a Cristo, suo ospite”. Allora più nessuna immagine tocca i sensi. Una ‘pia tirannia di Dio’ prende possesso. La preghiera e il pensiero della morte si fondono. Lo scioglimento del dubbio, la rivelazione certa di ciò che è incerto è per Giovanni il segno che siamo esauditi».

domenica 9 giugno 2019

Domenica di Pentecoste, Domenica delle Rose

Oggi, Domenica di Pentecoste, un tempo era preceduta da una vigilia di digiuno e di preparazione alla festa, con un’apposita messa, dotata com’era del suo carattere battesimale. Odiernamente, a seguito della riforma liturgica di Paolo VI, anticipata da quella della Settimana Santa del Ven. Pio XII, queste caratteristiche della vigilia si sono perse (sul punto, cfr. Abbé Jean-Pierre Herman, La Pentecôte – Fête élaguée ou restaurée ? La suppression de l’antique vigile baptismale de la Pentecôte, in Schola Sainte Cécile, 2 juin 2014).
Un’altra caratteristica legata a questa festa era l’usanza di spargere una pioggia di rose sui fedeli, al termine dell’omelia papale, nella Basilica romana di S. Maria ad Martyres (Pantheon). Proprio in relazione a quest’uso, rilanciamo questo contributo di un nostro amico.






La Domenica delle Rose

a cura di Giuliano Zoroddu


Negli Ordini Romani, per la domenica dopo l’Ascensione – l’ottava è d’origine posteriore – si prescrive una solenne stazione ed una festa di rose assai caratteristica, e che può lontanamente far ricordare altre simili infiorate pagane. La sinassi si celebrava nel vecchio Pantheon d’Agrippa, ed il Papa che vi prendeva parte ed offriva il divin Sacrificio, era solito di recitarvi anche un’omilia, in cui annunziava al popolo siccome ormai prossima la venuta dello Spirito Santo.
A dare perciò una forma più sensibile al suo annunzio e a questa celeste discesa dell’igneo Paraclito, mentre il Pontefice declamava sull’ambone, dall’alto dell’occhio centrale della Rotonda si faceva cadere sui fedeli una pioggia di rose in figura eiusdem Spiritus Sancti, come nota l’undecimo Ordine Romano; cosi che il nome di Pasqua Rosa a Roma divenne sempre più popolare, e servì a designare la festa di Pentecoste [1].
La messa stazionale ad Sanctam Mariam Rotundam, com’è appunto chiamata nei documenti medievali la Rotonda Agrippina, è tutta in attesa della venuta dello Spirito Santo; tanto che, attribuita nel secolo XV un’ottava anche all’Ascensione, si sentì il bisogno di aggiungerne la colletta commemorativa a questa liturgia eucaristica celebrata nel Pantheon, in attesa della venuta del Paracleto.

(Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster osb, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano. Vol. IV. Il Battesimo nello Spirito e nel fuoco (La Sacra Liturgìa durante il ciclo Pasquale), Torino-Roma, 1930, p. 25)

[1]  N.d.R. In Sardegna ancora oggi la Pentecoste viene chiamata “Pasca ‘e flores” (Pasqua dei fiori).