Sante Messe in rito antico in Puglia

venerdì 31 luglio 2015

Per recuperare lo spirito combattivo di Ignazio di Loyola oggi dimenticato .....

Per recuperare lo spirito combattivo e di miles Jesu, è utile recuperare questa canzoncina, nota per essere cantata durante il film di Luigi Magni “State buoni se potete”; versione più allegra e ritmata della più austera e severa invocazione delle litanie dei Santi: Ut inimícos Sanctæ Ecclésiæ humiliáre dignéris, te rogámus, áudi nos! Altro che ecumenismo ciarliero e buonista!





Capitan Gesù

Capitan Gesù, non stà lassù,
stà quaggiù con la bandiera in mano.
Sempre quaggiù, con la bandiera in mano,
Gesù, mio capitano!
Comanda Santi e fanti
e coglie tutti quanti
gli diavoli in flagrante,
Gesù, mio comandante!

Capitan Gesù, non stà lassù,
ma stà quaggiù a battagliar col male.
Sempre quaggiù a battagliar col male,
Gesù, mio generale!

Lui caccia dalla tana
la feccia luterana
e il popolo giudìo
Gesù è il maresciallo mio!

Capitan Gesù, non stà lassù,
stà quaggiù con la bandiera in mano.
Sempre quaggiù, con la bandiera in mano,
Gesù, mio capitano!
Comanda Santi e fanti
e coglie tutti quanti
gli diavoli in flagrante,
Gesù, mio comandante!

Capitan Gesù, non stà lassù,
ma stà quaggiù a battagliar col male.
Sempre quaggiù a battagliar col male,
Gesù, mio generale!

Lui caccia dalla tana
la feccia luterana
e il popolo giudìo
Gesù è il maresciallo mio!

“Ipse autem, misso ad prædicándum Indis Evangélium sancto Francísco Xavério, aliísque in alias mundi plagas ad religiónem propagándam disseminátis, éthnicæ superstitióni hæresíque bellum indíxit; eo succéssu continuátum, ut constans fúerit ómnium sensus, étiam pontifício confirmátus oráculo, Deum, sicut álios áliis tempóribus sanctos viros, ita Luthéro ejusdémque témporis hæréticis Ignátium et institútam ab eo societátem objecísse” (Lect. V – II Noct.) - SANCTI IGNATII LOYOLAENSIS (DE LOYOLA), CONFESSORIS, ET SOCIETATIS JESU FUNDATORIS




Parlare velocemente dei meriti verso il cattolicesimo di Iñigo López Oñaz de Recalde y Loyola, che prese il nome semplicemente di Ignazio dopo la sua conversione, e che morì a Roma il 31 luglio 1556, è impossibile. Il solo suo nome riassume difatti tutto l’immenso lavoro intrapreso dalla Chiesa nel XVI sec., per opporre alla riforma luterana una vera riforma cattolica, così che la liturgia stessa afferma, a lode di Ignazio, che la Provvidenza lo mandò per opporlo a Lutero.
Anche oggi, il nome del Loyola e della Compagnia, fondata da lui ed un tempo tanto gloriosa, sono sinonimi di vita e di azione cattolica nel senso più elevato del termine; in modo che gli avversari, pur fingendo della tolleranza verso altre congregazioni religiose, nutrono un odio irriducibile contro l’istituto di Ignazio, nel quale riconoscono maggiormente a buon diritto l’esercito agguerrito e più invulnerabile che la Provvidenza abbia posto sotto il comando immediato del Vicario di Gesù Cristo. Si può dire della Compagnia di Gesù ciò che il Vangelo dice del Divin Salvatore; perseguitata fin dalla sua nascita, soppressa e poi ristabilita, oggetto di un odio infinito per gli uni e di fiducia illimitata per gli altri, pertransiit benefaciendo et sanando; «… passò facendo il bene e guarendo» (At. 10, 38). Così era è stato tre cinque secoli fa. Quale paradosso vedere, invece, che l’Ordine stabilito da Dio per abbattere l’eresia riformata ed i suoi servi sia oggi tra i più feroci nella distruzione della santa Chiesa, nell’annientamento della fede, che professava sant’Ignazio! Davvero una punizione divina!
Il corpo di sant’Ignazio si conserva a Roma nel magnifico tempio farnesiano della prima casa professa, presso al titulus Marci, dedicata al Nome di Gesù (Cfr. Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 463-465). Nella Città eterna molti altri santuari ricordano tuttavia lo zelo del Santo, a cominciare dalla Basilica di San Paolo, dove egli ed i suoi primi compagni emisero la solenne professione religiosa. Il ricordo di sant’Ignazio si è custodito anche nella chiesa di Sant’Apollinare presso la quale fondò il Collegio germanico (ibidem, pp. 345-347); in quella di Santa Marta, dove raccolse le povere donne sventurate che volevano fare penitenza (ibidem, p. 471); in quella di Santa Caterina dei funari o della rosa, dove istituì un convitto per le ragazze povere (ibidem, p. 567); ed infine al Collegio romano, seminario di tutte le nazioni, come lo chiamò Gregorio XIII, ove si erge la Chiesa di Sant’Ignazio in Campo Marzio (ibidem, pp. 481-482).
Il nostro Santo fu canonizzato nel 1622 da papa Gregorio XV ed inscritto nel calendario nel 1644 da papa Innocenzo X con rito semidoppio. Elevato al rito doppio nel 1667 da Clemente IX ed al doppio maggiore da Pio XI nel 1923.
L’antifona di introito per il Fondatore della Compagnia di Gesù può essere che quella del 1° gennaio, in cui l’Apostolo esalta il potere del Nome santissimo del Salvatore.
Per rimunerare Gesù delle ignominie della Passione, il Padre eterno ha conferito al glorioso Redentore un Nome che è al di sopra di ogni altro nome. Coloro che hanno parte alle pene ed all’ubbidienza di Gesù partecipano anche alla gloria di questo Nome nel quale sono ricompensati largamente delle perdite temporali della loro fortuna, della loro reputazione e della loro vita stessa, perdite che talvolta subiscono per la causa di Dio.
La preghiera colletta evoca il programma di Ignazio: Ad majorem Dei gloriam, che si ricollega, nella tradizione dell’ascesi cattolica, a quello che fu dato un tempo dal Patriarca del monachesimo occidentale ai suoi figli: Ut in omnibus glorificetur Deus, «Perché Dio sia glorificato in tutte le cose», che si ispira a quanto detto dall’Apostolo Pietro (1 Pt 4, 11).
Conosciamo le relazioni di sant’Ignazio coi Benedettini di Montserrat, dove si ritirò immediatamente dopo la sua conversione; coi monaci di Montecassino, dove rimase qualche tempo nella solitudine, e coi cenobiti di San Paolo a Roma dove era stato canonicamente eletto primo Preposito Generale (Præpositus generalis) della novella Compagnia (8 aprile 1541) e dove emise i suoi voti (22 aprile 1541). Non è tuttavia possibile dimostrare che il motto di sant’Ignazio derivi da quello dei monaci benedettini. Un medesimo spirito, quello dei santi, ha adoperato, per esprimersi, delle parole analoghe; e ciò vale parimenti a proposito dei rapporti che esistono tra il piccolo Libro degli Esercizi spirituali e l’Exercitatorium spirituale dell’abate Garcia di Cisneros, il quale fu abate di Montserrat dal 1493 al 1510 (ed era nipote del celebre e più noto cardinale Ximenes de Cisneros, arcivescovo di Toledo dal 1495 al 1517) e di cui il Santo avrebbe avuto conoscenza, si dice, a Montserrat.
Nella prima lettura, l’Apostolo ricorda la sua predicazione ortodossa, le numerose persecuzioni di cui fu l’oggetto, e, da ultimo, le sue catene. Agli occhi dei suoi avversari, passa quasi male operans, e si è voluto anche incatenarlo. Ebbene, osserva san Paolo: il corpo sarà trattenuto dalle manette e dalle catene, ma niente potrà legare la parola di Dio che, simile all’aria ed alla luce, è destinata a spargersi nel mondo ed a trionfare.
La lettura evangelica per la festa del padre di un sì grande numero di apostoli e di missionari, al quale san Francesco Saverio scriveva, dal Giappone, in ginocchio, non può essere altra che quella del 3 dicembre.
La preghiera sulle oblazioni sembra riferirsi ad uno degli aspetti più importanti dell’opera riformatrice di sant’Ignazio. Nel XVI sec., in molti luoghi, il culto cattolico languiva miserabilmente. In Italia, non si trattava solamente di preti grossolani ed ignoranti, che non comprendevano talvolta anche il canone della messa, ma il popolo stesso aveva perso quasi l’abitudine dei sacramenti, così che molte chiese erano lasciate nella sporcizia e nell’abbandono. Ignazio ed i suoi compagni cominciarono dunque la loro riforma liturgica soprattutto con la predicazione e l’insegnamento del catechismo. Mentre, per mezzo degli Esercizi spirituali cercavano di elevare il clero ad una coscienza più alta della sua dignità e della sua missione, riportavano nelle chiese la pulizia, la dignità e la ricchezza. Attirati da queste forme esterne, i fedeli si portavano più facilmente a frequentare la Mensa eucaristica e le cerimonie.
La preghiera dopo la Comunione evidenzia come la divina Eucarestia sia sacrificium laudis, perché Gesù volle che fosse un inno continuo di lode e di azione di grazie alla bontà del Padre. È per questo che, nell’ultima Cena, l’istituì durante il canto di un inno pasquale di azione di grazie, il grande hallel, ragion per cui gli Apostoli la chiamarono Eucharistia, cioè azione di grazie.
Con S. Ignazio, ripetiamo la nostra preghiera di offerta, che egli faceva al Signore: "Prendete Signore, e ricevete tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà, tutto ciò che ho e possiedo; Voi me lo avete dato, a Voi, Signore, lo ridono; tutto è Vostro, di tutto disponete secondo la Vostra volontà: datemi solo il Vostro amore e la Vostra grazia; e questo mi basta".


Autore lombardo-piemontese, S. Ignazio, XVII sec., museo diocesano, Novara

Anonimo di Scuola francese, Ritratto di S. Ignazio in abiti militari, XVII sec., castello di Versailles e di Trianon, Versailles


Anonimo, Papa Paolo III approva oralmente la regola di S. Ignazio il 3 settembre 1539, Chiesa del Gesù, Roma




Pieter Pauwel Rubens, S. Ignazio di Loyola, 1620-22, Norton Simon Museum, Pasadena

Ambito di Francesco de Rosa (Pacecco de Rosa), Madonna col Bambino in gloria tra i SS. Ignazio e Francesco Saverio, XVII sec. 

Miguel Cabrera, La conversione di S. Ignazio, XVII-XVIII sec., Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico

Miguel Cabrera, S. Ignazio di Loyola trionfa sull'eresia, XVII-XVIII sec., Museo Nacional de Arte (MUNAL), Città del Messico

Scuola italiana o del Rubens, S. Ignazio, XVII sec., collezione Rochdale Arts & Heritage Service

Claudio Coello, S. Ignazio, XVII sec.

Domenichino, Visione di S. Ignazio a La Storta, 1620, Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles

J.P. Koch, S. Ignazio in gloria, 1780, Galleria Trncia, Stampe Antiche, Roma

Nicola Malinconico, Madonna col Bambino tra i SS. Anna ed Ignazio, 1707, Abazia di S.Maria Maddalena in Armillis, Sant'Egidio del Monte Albino

Francisco Jover y Casanova, S. Ignazio, XIX sec., museo del Prado, Madrid

giovedì 30 luglio 2015

Lo sdegno di chi non ha vergogna

Con due distinte sentenze, depositate l’8 luglio scorso, nn. 14225 e 14226, la V sezione civile della Suprema Corte di Cassazione italiana ha di fatto ribaltato quanto stabilito nei primi due precedenti gradi di giudizio, sentenziando che, poiché gli utenti di una scuola paritaria di Livorno pagano un corrispettivo per la frequenza, tale attività sarebbe da qualificarsi come di carattere commerciale, senza che a ciò osti la gestione in perdita. Ciò fa sì che, secondo la Suprema Corte, sia legittima la richiesta dell’Ici (poi diventata parte integrante dell’Imu dal 2011) avanzata nel 2010 dal Comune di Livorno agli istituti scolastici del territorio gestiti da enti religiosi.
Nel proprio iter argomentativo, il giudice di legittimità ha precisato che, ai fini in esame, è giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, risultando sufficiente l’idoneità tendenziale dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio. E cioè, il conseguimento di ricavi sarebbe di per sé indice sufficiente del carattere commerciale dell’attività svolta.
Non si è fatta attendere la presa di posizione, inusitatamente dura, della CEI, a nome del suo segretario, Mons. Galantino, che non ha esitato a parlare a tal riguardo di pronunce ideologiche (v. qui, qui, qui, qui e qui). Non sono mancate le prese di posizione anche politiche (v. qui). Questa dura contestazione da parte della CEI ha indotto il governo precipitosamente ad avviare un tavolo di "chiarimento" (v. qui e qui).
Se, però tali prese di posizione, altrettanto forti e veementi, la CEI le avesse prese per temi forse più eticamente sensibili che non quelli riguardanti comunque il denaro e le casse della Chiesa italica …., come ad es. il c.d. d.d.l. Cirinnà in discussione al Parlamento o la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dei giorni scorsi sui c.d. matrimoni omosessuali o la decisione, sempre della Corte di Cassazione, sul riconoscimento del mutamento di sesso anche in assenza di interventi chirurgici …. forse sarebbe apparsa molto più credibile agli occhi dei fedeli. Ma tant’è …

Lo sdegno di chi non ha vergogna

di Massimo Viglione

Abbiamo appena assistito alla ferma e immediata contrapposizione pubblica della Conferenza Episcopale  Italiana, per voce del suo segretario mons. Galantino, celebre per le sue posizioni aperte a ogni dialogo con il mondo laicista, contro il progetto del governo italiano di imporre l’ICI alle scuole cattoliche.
Fermo rimanendo ovviamente che tutti sappiamo bene che questa è solo l’ennesima trovata per finire di distruggere ogni traccia di libertà educativa in Italia e portare a compimento il piano Gramsci di conquista totale dei cervelli degli italiani (sia chiaro: non che nelle scuole cattoliche italiane si operi in senso contrario, ovvero si insegni la sana dottrina e il senso cattolico della società; ma è ovvio che per i nemici della Chiesa anche solo il principio dell’esistenza di una scuola cattolica, non statale, per quanto prona in ogni modo al laicismo imperante, è cosa intollerabile in sé);
fermo rimanendo che tale volontà laica è oggi rafforzata dall’esigenza di imporre a tambur battente e senza ostacolo alcuno l’omosessualismo e il genderismo di massa nelle scuole;
fermo rimanendo che i nostri vescovi – non parlo singolarmente, in quanto lodevoli eccezioni ci sono sempre, ma come vox unica, come CEI – sono i primi responsabili di tutto questo in quanto sono i primi sostenitori di questo governo e dei suoi mandanti come di quelli precedenti;
anticipato tutto questo, sorge spontanea una domanda: ma i nostri amatissimi e stimatissimi vescovi, a tutti noti per il coraggio e l’abnegazione con cui sono pronti a difendere Dio e i suoi diritti contro i soprusi dei potenti, che sono ora balzati dalla sedia, in primis il fenomenale segretario, alla notizia di dover cacciare i soldi abbandonando repentinamente quella onnipresente prudenza politica che li caratterizza e li rende proni a ogni potere, non potrebbero utilizzare un decimo dello stesso zelo per difendere i bambini dagli orchi e l’ordine naturale come Dio lo ha creato? Per combattere l’aborto, il genderismo, l’omosessualizzazione della gioventù e dell’intera società?
Perché non sono balzati dalla sedia alla notizia che il governo vuole liberalizzare la droga? Dove erano solo pochi giorni or sono?
Non potrebbero alzare la voce anche per difendere gli italiani che ogni giorno si suicidano a causa di una crisi economica fomentata da coloro che sono i veri governanti di questa Italia e che tanto vengono rispettati e ubbiditi dagli stessi vescovi? Non potrebbero alzare la voce per smuovere le coscienze in difesa dei nostri fratelli nella fede ammazzati in massa nel mondo islamico? Non potrebbero tornare ad essere i vescovi anche del popolo italiano impedendo l’invasione della nostra terra e il pericolo della definitiva perdita della fede e della libertà di tutti noi?
Non pensano che se agissero in tal maniera sarebbero anche più credibili quando poi si scagliano, lancia in resta, per difendere gli incassi (sebbene leciti e sacrosanti, come in questo caso)? Non viene loro in mente che per quanto questa loro protesta sia giusta, la vita, l’educazione retta e la libertà stessa dei bambini e anche degli adulti sia infinitamente più importante della cassa?
E allora, reverendissime eccellenze, difendete pure la cassa, ma anzitutto siate pronti fino al sangue – come è vostro dovere – per difendere i valori della fede, della carità, dell’ordine naturale e della volontà di Dio, per difendere i nostri figli e il futuro degli italiani e dell’intera umanità dall’assalto ininterrotto delle forze del male.
Urlate il vostro sdegno e incitate e guidate i fedeli alla giusta e sacrosanta resistenza civile e morale! Scendete in piazza con i vostri fedeli, tutti, nessuno escluso, per difendere la libertà e condannare senza timore alcuno chi vuole distruggere ogni limite fra il bene e il male, chi vuole bruciare la fanciullezza, chi vuole imporci il silenzio tramite il terrore giudiziario, chi è pronto a ogni abominio, chi massacra i fratelli nella fede e vuole islamizzare il nostro paese. Chi combatte la Chiesa e la Fede cattoliche ogni giorno, ovvero chi combatte voi, per quanto proni possiate mai essere e diventare.
Magari, così facendo, poi si scopre che la gente torna in chiesa, che i fedeli diventano molto più pronti alla lotta per difendere il Bene sapendo di avere il vostro appoggio spirituale, morale e materiale e che quindi i governi – di cui siete stati, almeno come CEI, finora sgabello – poi la smettono di distruggere la società a loro piacimento, iniziando a incontrare resistenza di popolo.
E così, di conseguenza, poi salvate anche i vostri soldi e le scuole, oltre alla dignità.

martedì 28 luglio 2015

Se Lutero si traveste da santo e dottore ....

Nella memoria liturgica dei SS. Nazario e Celso, martiri, rilancio quest’interessante studio ricevuto:


Se Lutero si traveste da santo e dottore

di Gaetano Masciullo

Il pensiero agostiniano è stato di importanza capitale per lo sviluppo della teologia cristiana nei primi secoli, sia per difendere l’ortodossia dalle numerose e perniciose eresie che volevano introdurre “novità” nel pensiero cristiano (si pensi alle battaglie teologiche che Agostino rivolse contro manichei, pelagiani, donatisti, semipelagiani…), sia per approfondire meglio alcuni dogmi, come quello della Trinità.
Sant’Agostino di Ippona si avvalse ben presto del titolo, riconosciutogli dalla Chiesa, di Dottore, cioè di autorità indiscussa in teologia, e difatti fece scuola per buona parte del medioevo cristiano, fino a quando non prevalsero l’aristotelismo e la scolastica di san Tommaso d’Aquino.
Tuttavia, soprattutto a partire dal XX secolo, è prevalsa in ambito accademico una corrente esegetica del pensiero agostiniano in verità erronea, che non rende giustizia alle originarie intenzioni del santo vescovo di Ippona. In particolare, Odilo Rottmanner (1841-1907) con la sua opera Agostinismo (1892) affermò che il pensiero di sant’Agostino è da ricondurre fondamentalmente alla “dottrina della predestinazione incondizionata e della volontà salvifica particolare che sant’Agostino ha perfezionato di preferenza nell’ultimo periodo della sua vita”, cioè dal 418 in poi. In cosa consisterebbe dunque questa dottrina?  Tutti gli uomini nascerebbero peccatori e meritevoli della dannazione, a causa del peccato originale, ma Dio sceglierebbe per un atto di misericordia proveniente esclusivamente dalla sua volontà (detta per questo volontà salvifica) chi sottrarre a questa inevitabile e giusta condanna. Da parte degli eletti, cioè dei predestinati alla salvezza, non ci sarebbe alcun merito, sia per quanto riguarda la fede (che è dono esclusivo della grazia divina) sia per quanto riguarda le opere, che sono conseguenze della fede. Dio dunque non vorrebbe salvare tutti gli uomini, ma solo pochi eletti: per questo motivo la volontà salvifica di Dio sarebbe particolare, non universale. Lo scandalo del cristianesimo non consiste nel fatto che la maggioranza degli uomini si dannino, ma nel fatto che pochi riescano a salvarsi. La salvezza degli eletti è un dono gratuito di Dio, assolutamente immeritato.
A questo punto ci chiediamo: questa tesi della predestinazione così esposta non ci ricorda forse la tesi di un altro teologo, vissuto molti anni dopo sant’Agostino? Non furono forse Martin Lutero e Calvino ad affermare che Dio salva per sola grazia pochissimi uomini da lui eletti e che l’uomo senza la grazia è inevitabilmente condannato a compiere il male? Non fu forse Giansenio a muovere contro s. Agostino le stesse accuse dei pelagiani, ormai mutate in lodi? Dunque, Lutero non avrebbe “radicalizzato il pensiero agostiniano”, come si è soliti dire, ma al contrario avrebbe semplicemente ribadito quanto s. Agostino insegnò nelle sue opere. Ma allora, ci chiediamo, perché uno è stato proclamato santo e dottore e l’altro condannato come eresiarca e rivoluzionario contro Dio? Evidentemente, i conti non tornano.
Secondo l’esegesi di Rottmanner, per sant’Agostino la libertà dell’uomo non esiste, se non nei limiti della perseveranza che l’uomo adopera per rimanere nella grazia divina e quindi per conservare la fede donatagli. Padre Agostino Trapé (1915-1987), priore generale dell’Ordine agostiniano, difese a spada tratta la corretta esegesi del pensiero del vescovo ipponate dalle strumentalizzazioni moderniste e “protestantizzanti”. Egli, in un articolo pubblicato nel 1963 sulla rivista Divinitas, dal titolo A proposito di predestinazione: S. Agostino e i suoi critici moderni, scrive: “Si sa quali critiche e quali accuse suscitasse a suo tempo questa dottrina da parte dei pelagiani. Possiamo ridurle a quattro capi, tutti e quattro gravissimi. L'agostinismo - dicevano - nega il libero arbitrio, nega che il battesimo rimetta il peccato originale, proclama il fatalismo, e riduce il pensiero cristiano al manicheismo. S. Agostino rispose, dimostrò l'infondatezza, anzi la malafede, di quelle accuse e ribadì, chiarendola, la sua dottrina. L'agostinismo trionfò. La Chiesa riconobbe come valida, nelle linee essenziali, quella difesa e annoverò il vescovo d'Ippona tra i suoi maestri migliori: inter magistros optimos. Le accuse, anche quelle mosse dai semipelagiani, non tardarono a cadere, ed i teologi, da allora in poi, guardarono a S. Agostino come al Dottore della grazia, la cui autorità era venerabile presso tutti. Con il protestantesimo e con il giansenismo quelle accuse si trasformarono in lodi, lodi non vere, che la Chiesa respinse e S. Agostino aveva respinto ante litteram. Oggi, qua e là, si preferisce tornare alle accuse. Di tanto in tanto, infatti, si propongono interpretazioni di S. Agostino che sono molto vicine, quando non siano proprio identiche, a quelle che ne davano i pelagiani; e non solo da parte dei razionalisti, che fanno del vescovo d'Ippona - com'è noto - il creatore dei dommi del peccato originale e della grazia, ma anche - e la cosa riveste un carattere di particolare gravità - da parte di studiosi cattolici”.
Sant’Agostino fu per secoli chiamato Doctor Gratiae et Libertatis. Per il santo vescovo il rapporto tra libertà e grazia non si trasforma in un dilemma, in una scelta esclusiva tra le due, ma in un binomio, una coesistenza. La grazia non annulla la libertà umana, né la libertà umana annulla la libertà divina, che si manifesta appunto nella grazia. San Tommaso d’Aquino bene spiega nell’opera Contra errores graecorum il motivo per il quale alcune opere dei Padri della Chiesa possano sembrare ambigue (come ambiguo potrebbe sembrare, ad una superficiale lettura, il pensiero di s. Agostino sul rapporto tra libertà e grazia): “Ci sono, a mio avviso, due ragioni per cui alcune affermazioni degli antichi Padri Greci risultano ambigue se paragonate alle nostre contemporanee. Primo, perché una volta che gli errori riguardanti la fede si manifestavano, i santi Dottori della Chiesa divenivano più circospetti nel modo di esporre i punti della fede, così da escludere tali errori. È chiaro, per esempio, che i Dottori che sono vissuti prima dell’eresia ariana non parlavano così espressamente dell’unità dell’essenza divina come hanno fatto invece i Dottori successivi. E lo stesso si è verificato nel caso di altri errori. Ciò è abbastanza evidente non solo riguardo ai Dottori in generale, ma anche riguardo ad un Dottore in particolare, Agostino. Nei libri che questi pubblicò dopo l’ascesa dell’eresia pelagiana, si parla molto più cautamente della libertà della volontà umana rispetto a quanto se ne parla nei libri pubblicati prima dell’ascesa di tale eresia. In queste prime opere, mentre Agostino difendeva il concetto di volontà contro i manichei, egli ha adoperato affermazioni che i pelagiani, che rigettavano la grazia divina, hanno poi usato in supporto ai propri errori”.
Qual era dunque il pensiero, pienamente cattolico, di sant’Agostino?
Già i pelagiani accusarono s. Agostino di aver sostenuto che il libero arbitrio è perito nell’uomo con il peccato di Adamo, ma lo stesso s. Agostino risponde: “Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal genere umano il libero arbitrio? Certo per il peccato sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme all'immortalità. Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Contro le due lettere dei pelagiani, I, 2.5). Si va dunque delineando una differenza fondamentale per il pensiero agostiniano tra libertà intesa come libero arbitrio, che è il mezzo della vita umana, e la libertà vera, ossia il fine della vita umana, che è la libertà di aderire pienamente alla verità e di fare il bene. Quest’ultimo tipo di libertà era presente prima del peccato originale (S. Agostino la definisce con la formula posse non peccare, ossia “poter non peccare”) e sarà confermata nell’eternità del paradiso (definita con la formula non posse peccare, ossia “non poter peccare”). La realtà attuale, intermedia, successiva al peccato originale e alla redenzione, ma antecedente al giudizio personale ed universale, non è priva del libero arbitrio, ma della libertà come sopra intesa. Tuttavia, ciò non impedisce all’uomo di cercare la verità ed il bene. Qui interviene la grazia, ossia l’azione gratuita di Dio che sopperisce alle mancanze della “giustizia piena ed immortalità”, presenti nell’eden. Con la grazia l’uomo si santifica (gratia gratum faciens, dirà san Tommaso successivamente), nonostante le imperfezioni psico-fisiche, conseguenze della caduta dei progenitori. Il primo ed importante dono che Dio fa dunque all’uomo è la fede. In seguito, il battesimo e i sacramenti in generale, che sono i mezzi ordinari con cui la grazia divina agisce nell’uomo. “Ripeto che nessuno fu o può essere giusto se non è giustificato dalla grazia di Dio per mezzo di N. S. Gesù Cristo, e questo crocifisso. Difatti la stessa fede, che ha salvato i giusti nell'antichità, salva anche noi, la fede nel Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, la fede nel suo sangue, la fede nella sua croce, la fede nella sua morte, la fede nella sua resurrezione. Avendo dunque lo stesso spirito di fede, anche noi crediamo, ed è per questo che parliamo”, scrive s. Agostino in De natura et gratia, 44,51. 
Ma Dio conosce dall’eternità chi intraprende questo cammino di redenzione e si salva e chi rimane reprobo e si danna (prescienza)? Oppure egli stesso, da sé, decide dall’eternità, senza il consenso dell’uomo, chi salvare, riducendo il numero degli eletti a pochissimi? In quest’ultimo caso, Dio non vorrebbe la salvezza di tutti gli uomini, ma solo di una ristretta èlite.
Per comprendere bene il pensiero agostiniano riguardo al peccato originale e alla giustificazione bisogna metterlo a confronto con quanto sostenevano pelagiani e semipelagiani.
Agostino schiaccia Pelagio,
Katholische Pfarrkirche Maria Rosenkranzkönigin,
Schretzheim
Pelagio affermava che il peccato originale colpì solamente Adamo e che non è trasmesso biologicamente a tutti gli uomini. Pertanto il battesimo non cancella il peccato originale, ma semplicemente ammette nella Chiesa. Da qui la polemica che i pelagiani mossero contro sant’Agostino sulla necessità del battesimo per i bambini e sul destino dei bambini morti senza di esso. Pelagio affermava che i bambini morti senza battesimo si salvano in quanto privi di qualsivoglia peccato, sia originale sia personale, ma sant’Agostino obiettava che i bambini morti senza battesimo non possono salvarsi, in quanto il peccato originale ha definitivamente rotto il legame tra l’uomo e Dio, legame ricostituito dal sacrificio di Cristo, che pertanto è Salvatore dell’umanità, anche dei bambini. “Non può appartenere a Cristo – scrive il santo Dottore – chi non ha bisogno di essere salvato”. L’uomo da sé liberamente decide se credere in Dio e può salvarsi anche fuori dalla Chiesa, compiendo opere buone.
Giovanni Cassiano e i monaci provenzali, iniziatori del semipelagianesimo, per conciliare Agostino e Pelagio, affermavano che l’uomo liberamente sceglie se credere e dunque l’inizio della fede e della giustificazione non esige il dono della grazia, così la perseveranza finale è frutto delle opere dell’uomo. La grazia divina serve a sostenere l’uomo in questo cammino, dal momento in cui l’uomo aderisce alla fede fino a quando muore. Analogamente a quanto sostenuto da Pelagio, il peccato originale colpì solamente Adamo e i bambini morti senza battesimo si salvano egualmente.
Sant’Agostino, Dottore della grazia e della libertà, sosteneva che il peccato originale è trasmesso biologicamente da Adamo a tutti gli uomini. Dunque sono trasmesse sia la colpa sia le conseguenze spirituali (impossibilità di accedere in paradiso dopo la morte) e temporali (mortalità, caducità, propensione al vizio) del peccato originale. Per cancellare la colpa e le conseguenze spirituali del peccato originale è necessario il battesimo, che attua i meriti della redenzione di Cristo salvatore, ma rimangono le conseguenze temporali. L’uomo da sé sceglie con il libero arbitrio se cercare o meno la verità e dunque il bene, ma la fede (ossia l’adesione ai meriti del sacrificio di Cristo che redime) e dunque l’inizio della giustificazione, così come la perseveranza finale, sono doni gratuiti di Dio, che si ottengono con la preghiera propria o altrui. Del resto, lo stesso sant’Agostino diede il merito della propria conversione alle preghiere e alle lacrime della madre, santa Monica. I meriti personali accrescono la grazia. Dio predestina alla salvezza coloro che liberamente aderiscono alla Chiesa, ricevono da Dio la fede e accrescono i meriti per grazia. Dio vuole la salvezza di tutto il genere umano, ma condanna coloro che ostinatamente perseguono il male.
Martin Lutero e Calvino ripresero le accuse di Pelagio e dei semipelagiani, tramutandole in lodi. Vi fu dunque una errata esegesi del pensiero di sant’Agostino, oggi tornato in voga presso alcuni autori. Per costoro, la fede è dono di Dio e i meriti personali non esistono. Senza il battesimo, tutti sono inevitabilmente condannati all’inferno. Dio ha già predestinato dall’eternità il numero di coloro che si salveranno, condannando il resto degli uomini. Il libero arbitrio non esiste, che è servo del peccato originale. Ma già dal V secolo, il prete Lucido della Gallia meridionale, credendo di seguire la dottrina di sant’Agostino, giunge a sostenere che “Cristo, Signore e Salvatore nostro, non è morto per la salvezza di tutti” e che “la prescienza di Dio spinge l’uomo violentemente verso la morte, e chiunque si perde, si perde per volontà di Dio”. Ma questa tesi fu confutata da san Fausto di Riez, discepolo dello stesso Dottore, e condannata dai concili di Arles (473, 574), ricondannata al II concilio di Orange (529) e dal papa Adriano I (785/791).
Gli errori di Pelagio furono condannati da papi e concili (cfr. DS 222, 238, 371, 1520, 2616), gli errori dei semipelagiani dal II concilio di Orange (529), gli errori dei protestanti dal concilio di Trento (1545-1563).

sabato 25 luglio 2015

Sefforis, il paese di origine di Sant'Anna

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Documentario su Sant'Anna (in francese): Sainte Anne




Autore anonimo, S. Anna con la Vergine Bambina, XVII sec., Pinacoteca del Templo de la Profesa, Città del Messico

“Qui odit ánimam suam in hoc mundo, in vitam ætérnam custódit eam” (Johan. 12, 26 – Laud.) - SANCTI CHRISTOPHORI MARTYRIS

Oggi, oltre alla festa di san Giacomo, la Chiesa celebra la gloria del martire Cristoforo.
Questi,  Κυνοκέφαλος, il cinocefalo, cioè l’uomo dalla testa canina, come lo chiamano i Bizantini, è molto venerato in Oriente.
I Bizantini ed i Siriani lo festeggiano il 9 maggio, mentre gli Armeni gli dedicano il giovedì della IV settimana dopo la Trasfigurazione.
Il più antico monumento datato, attestante il culto di san Cristoforo, è un’iscrizione del 22 settembre 452, che menziona la dedicazione della chiesa del martire in Calcedonia, compiuta dal vescovo Eulalio. Il Martirologio Geronimiano fa di Cristoforo un martire della Licia: In Licia, civitate Samo, natale Christophori.
Egli patì sotto Decio, ma i suoi atti non incontrano molto credito. Una piccola chiesa, dedicata a san Cristoforo, esisteva un tempo in Trastevere, presso la basilica di santa Maria. Ciò è bastato affinché questo quasi-domicilio nella Città eterna valesse al Megalomartire l’onore di una commemorazione nel Messale romano.
La messa è dal Comune In virtúte, come per san Valentino, il 14 febbraio; però le collette sulle oblate e per il ringraziamento dopo la Comunione, si prendono dalla messa di sant'Ermenegildo, il 13 aprile.
Nella Roma cristiana esiste una cappella, dedicata al nostro Santo, in via di Villa Spada, nel territorio della Parrocchia dei Santi Innocenzo I papa e Guido vescovo.
Giovanni Battista De Rossi credette di trovare le tracce del culto di cui san Cristoforo sarebbe stato, in antico, oggetto nel Titolo di Anastasia, perché l’epigrafe sepolcrale di una tale Blatta (+ 688), madre del papa Giovanni VII, denominata Epitafio di Platone (fatto eseguire dal figlio e futuro papa, all’epoca «rector Appiæ»), vi fa allusione. Lì sarebbe uno dei più antichi monumenti che attestano il culto del Santo nell’Urbe:

ET • QVIA • MARTYRIBVS • CHRISTI • STVDIOSA • COHÆSIT
CHRISTIGERI • MERVIT • MARTYRIS • ESSE • COMES

Probabilmente la defunta, così come Platone, suo marito ed alto funzionario della corte imperiale di Costantinopoli, fecero restaurare non solo il palazzo imperiale sul Palatino, ma anche la chiesa della Corte, Sant’Anastasia, dove i due sposi eressero forse un oratorio o un altare, dedicati a san Cristoforo.


Tiziano Vecellio, S. Cristoforo, 1524, Palazzo Ducale, Venezia


Lorenzo Lotto, SS. Rocco, Cristoforo e Sebastiano, 1532-33, Museo Antico Tesoro della Santa Casa, Loreto

Lorenzo Lotto, S. Cristoforo, 1531, Staatliche Museen, Berlino

Adam Elsheimer, S. Cristoforo, 1598-99, Hermitage, San Pietroburgo

Pittore veneziano, S. Cristoforo, XVI sec., The Walters Art Museum, Baltimora

Orazio Borgianni, S. Cristoforo, XVII sec.


Pieter Paul Rubens, S. Cristoforo e l'eremita, pannelli di chiusura della pala della Discesa dalla Croce, 1612-14, Cattedrale, Anversa

Jusepe de Ribera. S. Cristoforo, 1637, museo del Prado, Madrid

William Frederick Yeames, S. Cristoforo o Il portatore di Cristo (The Christ-Bearer), 1887, Ferens Art Gallery, Kingston upon Hull