Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 22 febbraio 2016

Un brano evangelico misterioso ed il Nome di Dio celato nel Titulus Crucis

Oggi, lunedì della II settimana di Quaresima, viene letto – nella Messa tradizionale – quale brano evangelico una lezione tratta dal Vangelo di Giovanni, 8, 21-29.
Si tratta di uno strano testo, che riferisce le parole di Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono, γώ εμί» (Gv. 8, 28). Parole misteriose. Molti hanno dato a queste un significato puramente teologico, quasi a voler dire che il Signore, con quelle parole, pur esprimendo la maestà della Divinità e la sua origine ed inseparabilità dal Padre, indicasse che molti sarebbero giunti alla fede mediante la sua passione e morte.
Certo, il testo in questione si muove in un contesto di fede. Ma non ci si è interrogati a sufficienza se quelle parole non siano in realtà una profezia di ciò che sarebbe accaduto.
Che intendiamo dire?
Almeno un decennio fa è stata avanzata l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che il famoso Titulus Crucis, che recava il motivo della condanna a morte di Gesù, nella sua parte ebraica, ישוע הנצרי ומלך היהודים (Jeshu[a’] HaNozri WeMelek HaJehudim), Gesù Nazareno e re dei Giudei (con l’inserimento obbligatorio, per ragioni grammaticali, di una congiunzione e), fosse l’acronimo del nome impronunciabile di Dio, Jahwé (JHWH), il famoso tetragramma (יהוה). Per cui, Pilato, forse inconsapevolmente o meglio guidato ed ispirato da Dio, aveva sancito legalmente, cioè in un titolo legale qual era il titulus, che recava il motivo della condanna, la Divinità di quell’Uomo che era appeso alla Croce. Ciò spiegherebbe la reazione stizzita dei sommi sacerdoti (evidentemente Anna e Caifa), come scrive l’attento Giovanni: «I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei”» (Gv. 19, 21). E non a caso i sommi sacerdoti, in quanto il nome di Dio, all’epoca di Gesù, era noto solo al sommo sacerdote, che, una volta l’anno, nel giorno dell’Espiazione, Yom Kippur o Yom haKippurim, accedeva nel Santo dei Santi del Tempio, pronunciando, lontano da orecchie indiscrete, dieci volte, il nome dell’Eterno (essendo solo a lui note, per rivelazione divina, le vocali), sebbene la Mishna dica enfaticamente che la voce del gran sacerdote risuonasse sino a Gerico quando pronunciava il Nome nel giorno delle Espiazioni. Peraltro, probabilmente, lo pronunciava alzando le mani al di sopra dello ziz, cioè al di sopra del suo diadema, come prescritto dal Levitico (Lv. 9, 22). 
Pilato rimase provvidenzialmente fermo nella sua decisione: Quod scripsi, scripsi (Gv. 19, 22).
Proprio sulla Croce, dunque, abbiamo l’attestazione, il titolo legale della divinità di Cristo, accertata e sancita con i crismi della legge e secondo diritto dall’autorità giudiziaria romana.
Ecco realizzate quelle misteriose parole profetizzate dal Cristo: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono»!
Tralasciando la questione circa l’espressione Nazareno o Nazireo, che è stata approfondita dalla studiosa Maria Luisa Rigato, che, in ogni caso, non sposta molto i termini del tema che stiamo affrontando, e dando per buona la tradizionale espressione di Nazareno, si potrebbe obiettare che il risentimento dei sommi sacerdoti fosse dovuto al fatto che Pilato, che odiava il popolo giudaico, avesse voluto con quella scritta, accostando “Nazareno” ai “giudei”, prendersi gioco ed irridere quegli uomini, che detestavano i galilei perché colpevoli di essersi contaminati con i gentili e ritenuti perciò, dagli abitanti della Giudea, come burini e contadini bifolchi ed ignoranti, che avevano una parlata assai caratteristica e buffa (i galilei si “mangiavano” le vocali, facendo cadere le consonanti ed avevano una pronuncia delle gutturali abbastanza ruvida, non liscia come i giudei) e dalle cui terre provenivano spesso demagoghi e sobillatori (si pensi al caso di Giuda il Galileo, fondatore della setta degli zeloti, a cui accenna Gamaliele: At. 5, 37). Per questo, non potevano accettare che dalla Galilea potesse provenire il Messia: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?», domandava Natanaele/Bartolomeo a Filippo di Betsaida (Gv. 1, 46). Figuriamoci addirittura un Re dei giudei!
Questa spiegazione, tuttavia, sebbene possa apparire credibile guardando con gli occhi di un Pilato, il quale probabilmente approfittò dell’occasione per arrecare uno sfregio ai giudei, tuttavia non appare pienamente soddisfacente se si guarda alla vicenda con gli occhi dell’Evangelista Giovanni. Egli annota che chi chiese a Pilato di modificare la scritta non fu il popolo giudaico, che, in fondo, era abituato a questi tiri del Procuratore («Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; …»: Gv. 19, 20). L’Evangelista, in maniera attenta, non annota particolari reazioni da parte dei lettori giudei appartenenti al popolo. Al contrario, furono i sommi sacerdoti a reagire: non l’intera classe sacerdotale dunque, ma solo i sommi sacerdoti. E ben a ragione, visto che il nome di Dio era noto solo a loro. Del resto, si dimentica talora che la classe sadducea – da cui provenivano i sommi sacerdoti – era sostanzialmente collaborazionista e piuttosto ossequiosa verso il Procuratore. Per cui, non v’era motivo di scomodarlo nuovamente, dopo aver ottenuto la condanna di quel Malfattore, per …. il motivo della condanna. Non v’era ragione se non vi avessero visto nulla che toccasse la loro fede così nel profondo: il Nome di Dio appunto. Per i sommi sacerdoti significava che, alla vigilia della loro Pasqua, era stato crocifisso dall’autorità romana, ma su loro richiesta, un Uomo il cui nome era Yahwé, il loro Dio. Si realizzava così pure la prescrizione di Es. 28, 36-38, dove si dice che il Kohèn Gadòl (Sommo Sacerdote) recava inciso sul diadema d’oro, che portava sulla fronte, detto ziz, il nome di Dio (Qodesh le JHWH, cioè Santo a JHWH), per prendere su di sé le colpe commesse dai figli d’Israele e, per loro, ricevere la grazia, il favore di YHWH. Gesù, dunque, era davvero il nuovo Sommo Sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza (Eb 2,17; 3,1; 4,14.15; 5,1.6; ecc.), che, quale Servo di JHWH, secondo Isaia, doveva portare i peccati di molti (Is. 53, 11-12).
In sintesi:
Gesù il Nazareno Re dei Giudei:
(Latino) - Jesus Nazarenus Rex IudaeorumINRI
(Greco) - Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων -ἸηΝβο (INBI)
(Ebraico) - יהוה - ישוע הנוצרי ומלך היהודים (YHWH)
Per riferimenti, Daniele di Luciano, Sopra la croce di Gesù non era scritto solo INRI. Ecco il vero significato dell’iscrizione ebraica, in Il Timone, 5.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 4.2.2016;
don Curzio Nitoglia, Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ossia JHWH, in blog don Curzio Nitoglia, 25.2.2016, nonché in Radiospada, 7.4.2020;


Ermes Dovico, Non solo INRI. Cosa c’era scritto sulla Croce, in LNBQ, 10.4.2020.



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