Ieri, 19 settembre, si spegneva il
filosofo Gianteresio (detto Gianni) Vattimo, teorizzatore del c.d. pensiero
debole, corrente filosofica postmoderna. Sebbene, almeno formalmente, lo stesso si definisse "cattolico" e fosse stato, negli anni Cinquanta, con Umberto Eco e Furio Colombo, a guida dell'Azione Cattolica giovanile torinese, il suo pensiero era assolutamente
lontano da quello cristiano, fondato sull’idea del c.d. indebolimento di Dio,
rifiutando l’idea di Dio quale essere razionale (v. qui il ricordo di Francesco Agnoli). Con tale rigetto, ovviamente, ha
rifiutato anche i precipitati etici collegati all’esistenza di Dio personale.
Ora, che è passato da questa vita all’altra,
sicuramente si sarà reso conto degli errori compiuti e delle aberrazioni
filosofiche (e non solo) cui era pervenuto. Che Dio abbia misericordia della
sua anima!
Tuttavia, un merito gli va ascritto:
quello di aver saputo rimproverare, con lucidità ed obiettività, il cattolicesimo
contemporaneo dall’essersi messo all’inseguimento del mondo e della mondanità,
perdendo così la propria identità e la sua forza. L'aforisma che segue è riportato dal card. Robert Sarah, nel suo libretto Vorrei aiutare gli altri a vedere con occhi nuovi, Marcianum Press, 2020, sebbene lo faccia risalire al 2010 ad una conversazione su Radio Vaticana. In realtà, l'aforisma che segue - più volte riusato nel corso degli anni (v. qui e qui) - è più risalente e rimonta ai primi anni '90 del secolo scorso, ad una conversazione con lo scrittore cattolico Vittorio Messori ed al suo Pensare la storia (cfr. Antonio Socci, Quando Vattimo disse a Messori ..., inLo Straniero, 23.9.2023):
Il 20 agosto
non è solo la data del pio transito del papa San Pio X, morto nel 1914. In
verità, in quello stesso giorno, ma novantuno anni prima ed esattamente 200
anni fa, moriva, a Roma, un altro papa che portava quel nome: il servo di Dio
papa Pio VII Chiaramonti: il pontefice che fu eletto in circostanze difficili,
a Venezia, e che affrontò Napoleone. L’anniversario della morte del papa
cesenate, in verità, è passato quasi in sordina sui maggiori mass media e non
ci pare di aver sentito particolari celebrazioni in merito. In realtà, su
alcune testate l’anniversario non è passato sotto silenzio. Si segnalano Filippo Rizzi, I duecento anni
di Pio VII, il papa che affrontò i “tempi nuovi”, in Avvenire, 19.8.2023; Bernard Ardura, Pio VII,
“Vicario del Dio della pace”, in Vatican News, 19.8.2023; Giovanni Maria Vian, Pio VII
tenne testa a Napoleone e affrontò per primo i tempi nuovi, in Domani, 21.8.2023; Antonio Tarallo, Papa Pio VII e
Napoleone Bonaparte, in Acistampa, 20.8.2023; Fabrizio Foschi, Pio VII, il
papa prigioniero che difese la Chiesa (da Napoleone), in Il sussidiario, 14.8.2023.
In
questa sede, rilanciamo un articolo de La nuova bussola quotidiana
sulla figura di questo venerato Pontefice, nei cui confronti è stato avviato il
processo di beatificazione. Significativamente va detto che sebbene il nulla
osta della Santa Sede fosse concesso sin dal 2007 al vescovo di Savona-Noli
mons. Domenico Calcagno (futuro cardinale), tuttavia solo domenica 31ottobre
2021 è iniziata ufficialmente la fase istruttoria della causa di beatificazione
presso la diocesi savonese (v. qui e qui).
Il suo processo di beatificazione avrebbe dovuto, secondo le normative
canoniche, essere avviato dalla diocesi di Roma, città in cui il pontefice
morì, ma la Curia romana si convinse ad affidare questo iter alla diocesi di
Savona-Noli.
Noi ricordiamo quest'insigne Pontefice con le sue stesse parole tratte dal Breve Etsi longissimo del 30 gennaio 1816: «[…] Noi siamo rappresentanti di Colui che è il Dio della pace e che, nascendo per redimere il genere umano dalla tirannide del demonio, volle annunciare la pace agli uomini attraverso i suoi angeli, abbiamo creduto sia proprio di quella funzione apostolica che, sebbene senza merito, esercitiamo […]».
Raffaele Castellini, Ritratto di papa Pio VII, XIX sec., collezione privata
Pio
VII, il Papa mite perseguitato da Napoleone
di
Massim Scapin
Domenica
20 agosto ricorrono i duecento anni dalla morte di Pio VII, il Papa, oggi Servo
di Dio, deportato in Francia da Napoleone. E che, alla morte di Bonaparte, ne
trattò la famiglia da vero cristiano.
Il 20 agosto di 200 anni fa, moriva il papa che si trovò nella
tempesta dei giorni napoleonici: Pio VII, al secolo Barnaba Chiaramonti
(1742-1823), dal 2007 Servo di Dio.
Monaco
benedettino, priore dell’Abbazia di San Paolo a Roma (1775), vescovo di
Tivoli (1782), cardinale e vescovo di Imola (1785), era nato 81 anni prima, a
Cesena come il suo predecessore, papa Pio VI († 1799): «entrambi strappati con
violenza alla loro sede episcopale e trascinati in esilio» (BENEDETTO XVI, Discorso, 4 ottobre 2008).
Dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro il 14 marzo 1800, a conclusione
del laborioso «conclave dell’esilio» durato più di tre mesi nel monastero
veneziano di San Giorgio Maggiore, «in momenti quanto mai difficili per la
Chiesa seppe dare esempio ai principi e ai popoli di fede inconcussa, di
magnifica generosità di animo, e soprattutto di grande fortezza nel difendere,
davanti all’irresistibile invadenza napoleonica, i diritti inviolabili della
Chiesa Cattolica», come scrisse l’allora segretario di Stato di Pio XI, il
cardinale Pietro Gasparri († 1934), nella Lettera del 3 giugno 1923 al vescovo
di Cesena (in Rivista Storica Benedettina, XIV, Santa Maria
Nuova, Roma 1923, p. 206).
Ai cardinali
riuniti il 29 ottobre 1804, Pio VII ricorda con soddisfazione il
ristabilimento del cattolicesimo in Francia, grazie al Concordato del 1801, e
comunica che, aderendo alla richiesta di Napoleone Bonaparte († 1821), si
recherà a Parigi per incoronarlo imperatore. In realtà Napoleone assumerà da sé
la corona. Purtroppo, i buoni rapporti con l’imperatore francese durano poco, e
nel 1808 Napoleone incorpora all’Impero lo Stato Pontificio. Nel 1809 papa
Chiaramonti, dopo aver scomunicato il Bonaparte, è deportato in Francia:
Grenoble, Savona e Fontainebleau sono le sue residenze coatte. Rientrato a Roma
nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, ristabilisce la Compagnia di Gesù e
imprime un decisivo impulso all’opera missionaria.
La mitezza di
Pio VII e la superbia di Bonaparte sono conservate ne L’incoronazione di Napoleone I,
la tela molto «ritoccata», ora esposta al Louvre, di Jacques-Louis David (†
1825), il pittore della Rivoluzione francese e di Napoleone. Che giornata,
quella del 2 dicembre 1804! Tutti nella chiesa-madre di Parigi, la cattedrale
di Notre-Dame, invece che in quella solita di Reims. Quanti i disagi, anche
fisici, sopportati angelicamente dal Papa! Per la gioia di re Enrico IV (†
1106) e degli imperatori Federico Barbarossa († 1190), Federico II († 1250) e
Ludovico il Bavaro († 1347), Napoleone si mette in capo la corona di imperatore
dei Francesi da solo. Non era andato a Roma ai piedi di Sua Santità; ma con
moine e minacce era riuscito a convincere il povero Pio VII a mettersi in
viaggio, in pieno inverno, da Roma a Parigi, per consacrare quel Carlo Magno a
rovescio.
Ci piace
pensare che la «colonna sonora» di quella giornata, interpretata
da 500 musicisti e cantanti, abbia consolato almeno in parte l’animo del Papa.
Gran parte della musica fu composta da uno dei grandi maestri della scuola
napoletana, il tarantino Giovanni Paisiello († 1816), per cui il Bonaparte
andava pazzo. Alludiamo alla Messe du Sacre,per
3 voci soliste (ma i cantanti impegnati nelle varie parti furono 9), 2 cori e 2
orchestre, e al Te Deum in si bemolle
maggiore per soli, doppio coro e doppia orchestra, che il compositore aveva
scritto ma non diresse quella domenica di dicembre: a fine agosto era ripartito
per Napoli, lasciando come suo successore Jean-François Lesueur († 1837), il
maestro di composizione di Hector Berlioz († 1869).
Molto bella
è la Messa, di cui riferirono: «Scelta e numerosa
l’orchestra, cantanti di prim’ordine, le ispirazioni seguivano il maestro
italiano. La Messa fu un capolavoro, che la più severa critica non avrebbe
saputo menomamente attaccare (…). Paisiello nella indicata circostanza provò
più che mai quanto fosse valente nelle sacre composizioni, con quanta filosofia
sapesse esprimere le tante, sì variate e sì sublimi situazioni, che l’incruento
sagrifizio presentano, e ben meritati applausi riportò da una folla immensa di
popolo che ad uno spettacolo quasi più teatrale, che ecclesiastico, assisteva»
(F. SCHIZZI, Della vita e degli studi di Giovanni Paisiello,
Volume 73, Milano 1833, pp. 46-47).
Il Te
Deum, eseguito alla fine, fu riciclato per l’occasione con disinvoltura. Fu composto
da Paisiello a Napoli nel 1791 «per il ritorno delle Loro Maestà [Ferdinando e
Carolina] da Germania, eseguitosi nella Chiesa di Belvedere sopra Caserta» (La
rassegna musicale, Einaudi, 1930, p. 130). Parigi lo aveva sentito
il 18 aprile 1802, giorno di Pasqua, quando fu proclamato in Francia il
Concordato: i musici della cappella consolare e del Teatro della Repubblica e
delle Arti si riunirono per cantarlo, insieme ad altre composizioni di
Paisiello.
Questa
partitura presenta particolare importanza, dal momento
che Paisiello, pur essendo nato nel 1740, tra l’Opera comica e il patetico di
quella «materia buffa […] bene intrecciata colla seria» (C. Goldoni, La Scuola Moderna, All’amico
lettore), qui sa intuire lo stile Impero in musica. Sì, quella
versione ornamentale di neoclassicismo con cui tutti gli artisti italiani e
francesi si mettono in sintonia durante l’impero napoleonico; uno stile che
sarà pienamente incarnato da Luigi Cherubini († 1842). Il Te
Deum di Paisiello è tutto animato di spirito marziale: desta
grande meraviglia il Te ergo quæsumus, in cui
l’orchestra dialoga con la fanfara della Guarda Nazionale collocata nella
navata. Ma vi si trovano pure tanti momenti delicati, quasi intimi (cfr. P.
ISOTTA, Per
un bicentenario: Paisiello e il mito di Fedra, Arte’m, Napoli 2016).
Un interrogativo che sorge, in questo
giorno dell’Assunzione di Maria, è: abbiamo conferme celesti di questo dogma
proclamato dal Venerabile Pio XII durante l’anno santo del 1950?
La domanda sorge spontanea se pensiamo
che tutti i dogmi proclamati dalla Chiesa han trovato conferma e ratifica,
diciamo così, in Cielo. Segnatamente i dogmi mariani.
Così, per es., il dogma della Theotokos,
della divina maternità di Maria, proclamato dal Concilio di Efeso nel 431 d.C.,
da parte la circostanza che il titolo lo si trovava già nel Vangelo di Luca (S.
Elisabetta, rispondendo al saluto di Maria, le disse: «a che devo che la madre
del mio Signore venga a me?»: Lc 1, 43), ebbe conferma dalla viva voce della
Vergine apparendo alle soglie dell’anno mille (1001 per l’esattezza) ad un conte di Ariano e ad
un contadino, nel bosco del Cervaro, a sud di Foggia, in quello che è oggi è il
Borgo Incoronata, una frazione della città di Foggia. Qui la Vergine Maria si
presentò esplicitamente con le parole al conte: «Non temere, io sono la Gran
Madre di Dio, voglio che mi sia eretta qui una cappella per essere venerata dai
fedeli […]» (v. qui).
In modo non dissimile, fu confermato –
sempre riguardo a Maria – il dogma del suo immacolato concepimento proclamato
dal beato papa Pio IX nel 1854. Addirittura, qui il dogma fu proclamato dalla
stessa Vergine prima della proclamazione formale della Chiesa. A Rue du Bac, a
Parigi, nel novembre 1830 (quattordici anni prima del dogma), infatti, nell’apparizione
della Medaglia miracolosa a S. Caterina Labouré, poteva leggersi nell’ovale
della medaglia vista dalla santa «O Maria concepita senza peccato, prega per
noi che a Te ricorriamo». Non solo. Ma a Lourdes, nel 1858, la Vergine,
apparendo all’ignorante pastorella S. Bernadette, ebbe modo di presentarsi con
l’appellativo – incomprensibile per la ragazza - «Io sono l’Immacolata
Concezione». Come a voler dire alla Chiesa: già ve l’ho detto, ma se non lo
comprendete, ve lo ribadisco e confermo!
Bene. E riguardo all’Assunzione cosa
possiamo dire?
Innanzitutto, abbiamo delle prove
materiali di quest’evento. Sì, non abbiamo testimonianze evangeliche, ma prove
materiali che ci riportano direttamente a quell’evento e la cui attendibilità è
fondata su testimonianze storiche e sulla traditio plurisecolare, per
non dire bimillenaria, dei fedeli. Ci riferiamo innanzitutto alla c.d. tomba
della Vergine, a Gerusalemme, presso il torrente Cedron; luogo veneratissimo
sin dall’antichità più remota dalla comunità cristiana gerosolomitana. Nessuno
si sognerebbe mai di costruire una chiesa su un wadi (letto di un corso d’acqua)
del torrente Cedron, se non ci fosse stata una tradizione assai risalente circa
l’esistenza di tale tomba.
Abbiamo la testimonianza, anche questa
assai risalente, intorno alla reliquia della c.d. Sacra Cintola, conservata nel
duomo di Prato. Si tratta di una striscia in lana di capra, broccata in filo d’oro.
Secondo la Tradizione, questa cintola sarebbe stata consegnata dalla Vergine, a
prova della sua Assunzione, a S. Tommaso apostolo, il quale prima di partire
per le Indie l’avrebbe affidata ad un sacerdote cristiano, e, quindi, di mano
in mano, sarebbe giunta nelle mani del mercante pratese Michele da Prato, il
quale, trovandosi a Gerusalemme nel 1141, la ebbe in dote per il matrimonio
della figlia Maria dalla famiglia del sacerdote che la ebbe, per secoli, in
custodia e che era stata consegnata da S. Tommaso. E dalle mani di questo
mercante, alla fine, sarebbe giunta a Prato.
Ludovico Buti, Madonna dà la Cintola a san Tommaso, 1588-90, Museo di Palazzo Pretorio, Prato
Ma abbiamo conferme del dogma da parte di
Maria?
La risposta è affermativa. Anzi, qui la
conferma precedette la proclamazione del dogma e rafforzò l’intento del
pontefice del tempio, il venerabile Pio XII, nell’affermazione solenne di
questa verità.
Ci riferiamo alle apparizioni – sebbene
non formalmente riconosciute dalla Chiesa – della Madonna all’ex
evangelico Bruno Cornacchiola, insieme ai suoi tre figlioli, alle Tre Fontane,
a Roma. Nella prima apparizione, quella del 12 aprile 1947, la Madonna,
presentandosi a Bruno come la “Vergine della Rivelazione”, gli attestò «[…] Il
mio Corpo non marcì, né poteva marcire, Mio Figlio e gli Angeli mi vennero a
prendere al momento del mio trapasso […]». In un interrogatorio da parte del
tribunale ecclesiastico del Vicariato, il piccolo Gianfranco, uno dei figli del
Cornacchiola, – all’epoca di appena quattro anni – così si esprimeva, come
ricorda un giudice di quel collegio: «“Di’ un po’: ma com’era quella statua là?”.
Dice: “Ma, no, macché! Era de ciccia!”. Un’ espressione così meravigliosa per
dire: “Ma che statua! Era proprio di carne ed ossa!”. Questa definizione vuol
dire che è autentica apparizione» (v. qui). In un certo qual modo, con quelle parole Pio XII vide
confermata dal Cielo la sua richiesta, rivolta all’intero episcopato, del
maggio 1946, con la lettera enciclica Deiparae Virginis Mariae, di sapere cosa ne pensasse della
proclamazione del IV dogma mariano (per l’esattezza se ritenessero tale verità
definibile e se, col loro clero e popolo, ne desideravano la definizione), che
comunque ebbe risposta positiva dal 98% dell’episcopato mondiale (soltanto 22
vescovi espressero perplessità sull’opportunità di siffatta definizione e solo
6 vescovi manifestarono dubbi circa la possibilità della definizione come
verità rivelata).
Come se non bastasse, papa Pacelli, alla
vigilia della proclamazione dogmatica, fu confortato dal c.d. miracolo del
sole, del quale già abbiamo parlato in anni precedenti (v. qui).
Per cui, anche per il dogma dell’Assunzione
abbiamo la conferma dal Cielo, così com’è stato per le altre verità mariane.
Augustinus
Risplende la Regina in ori di Ofir .... Madonna Assunta, Vorno, Capannori (LU)
"I Sommi
Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di
Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, “a lode e gloria del Suo
nome” ed “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Inizia
così la lettera apostolica di Papa Benedetto XVI, pubblicata
in forma di motu proprio il 7 luglio 2007 denominata Summorum
Pontificum
E’ costituito da dodici articoli nei quali si offre una serie di norme circa
la possibilità di celebrazione dell’Eucaristia con il rito precedente alla
riforma del Vaticano II, cioè il Messale di Pio V nell’edizione pubblicata da
Giovanni XXIII nel 1962. Summorum Pontificum afferma che il Messale di Paolo VI «è
l’espressione ordinaria della lex orandi », mentre il Messale di Pio V ed. 1962
«deve venir considerato come espressione extraordinaria della stessa lex
orandi. Secondo SP Il Messale di Pio V e quello di Paolo VI sono quindi «due
usi del medesimo rito»
Papa Francesco il 16 luglio 2021 pubblica la "Traditionis
Custodes" lettera apostolica sotto forma di motu proprio
per «ristabilire in tutta la Chiesa di Rito romano una
sola e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici
promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni
Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II e in linea con
la tradizione della Chiesa» di fatto, però, apportando
restrizioni alle norme del Summorum Pontificum,ma, sia chiaro a tutti, a noi principalmente che,
nonostante le limitazioni IL SUMMORUM NON È MAI STATO ABROGATO! Né può esserlo,
essendo un atto magistrale! Ed è proprio la Traditionis Custodes, che dichiarando di
voler «abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le
consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri
liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in
conformità ai decreti del Concilio
Vaticano II, come l'unica espressione della lex orandi del
Rito romano» di fatto non smentisce,
semmai avalla quanto affermato nel
Summorum Pontificum: che il Messale del 1962 mai venne abrogato.
Oggi è anche una data micaelica, ricorre infatti anche
l'apparizione dell'Arcangelo Michele alla Serva di Dio Francesca Lancellotti,
amica e confidente del Card. Oddi, primo Presidente della Pontificia
Commissione Ecclesia Dei. Se volete sapere qualcosa di più su Francesca
Lancellotti potete collegarvi al sito
Nella Vigilia
della Santa Festa di Pentecoste, rilanciamo questo contributo di riflessione e
meditazione sulla presenza di Maria nella Chiesa nascente.
Madre tra i
primi cristiani
di Paolo Risso
Gesù
ha affidato la Chiesa nascente alla sua divina Madre. Da allora Ella è sempre
presente in essa, come Madre e Maestra, e, come fece con gli Apostoli, ci
forma, ci sostiene e ci guida a Gesù.
La sera del Venerdì Santo (7 aprile
dell’anno 30, questa è la data più sicura, secondo gli esegeti), dopo che Gesù
morente aveva affidato Maria, sua Madre, al discepolo prediletto, Giovanni, e
questi a Maria come Madre, «Giovanni la prese con sé» (Gv 19,27)
e la trattò come Madre sua, come Madre dei suoi confratelli, gli Apostoli di
Gesù.
Fu Maria Santissima a radunare
Pietro e gli altri, che erano fuggiti per la paura di fare la stessa fine di
Gesù sul Calvario, prima attorno alla memoria vivente del Maestro, e, dalla
mattina del terzo giorno, attorno a Lui in persona, risorto, vivo, il Vivente
in eterno. Quando Gesù la sera di Pasqua si mostrò vivo ai suoi amici,
realizzando la promessa inaudita: «Il terzo giorno risorgerò» (Lc 18,33),
Maria certamente era con loro.
Quando, quaranta giorni dopo, Gesù
salì al Cielo e si sottrasse ai loro occhi, essi tornarono a Gerusalemme e si
radunarono insieme, i Dodici e centoventi persone credenti nel Figlio di Dio,
l’uomo-Dio, già crocifisso e ora glorificato dal Padre, in attesa dello Spirito
Santo che li avrebbe condotti alla verità tutta intera e li avrebbe resi
annunciatori del Risorto sino agli estremi confini della terra.
«Tutti – scrive san
Luca negli Atti del Apostoli – erano perseveranti e concordi nella preghiera
insieme ad alcune donne e a Maria la Madre di Gesù» (At 1,14).
Il cinquantesimo giorno, la solennità di Pentecoste, quando scese su di loro la
“cascata di luce e di fuoco” dello Spirito Santo, si spalancarono le
porte e Pietro, il primo degli Apostoli, uscì dal luogo dove stavano al riparo,
e intraprese l’annuncio del Cristo (cf At 2,1-15).
Madre e
Maestra
Maria, la Madre di Gesù, era
presente, con il cuore in festa, e al termine di quel giorno, Pietro le portò i
primi tremila convertiti al Figlio suo, i suoi primi tremila amici e fratelli,
che Maria accolse come suoi figli a immagine del Figlio suo. Era nata la
Chiesa, si manifestava la Chiesa. E Lei, la Madre di Gesù, era pure la Madre
della Chiesa.
Pietro e i Dodici e la “gente del
loro giro” avevano conosciuto di persona Gesù, ma quelli che non l’avevano mai
visto di persona, appena seppero che Maria sua Madre era in mezzo a loro,
vollero conoscerla e parlarle e domandarle: “Parlarci di Gesù, raccontaci
Gesù! Chi lo fa meglio di te?”. E Maria, per tutti gli anni che rimase
ancora sulla terra (circa una dozzina, dice un’antica tradizione), raccontò
agli Apostoli del Figlio suo e a quelli, sempre più numerosi, che si
convertivano a Lui, quanto Ella sola sapeva del suo Figlio divino.
I Vangeli non erano ancora stati
scritti (cominceranno a essere scritti 10-15 anni dopo l’Ascensione di Gesù),
ma i primi cristiani di Gerusalemme e della Palestina, di Antiochia, della
Siria, di Cipro... già sapevano dell’annuncio dell’Angelo a Maria, della sua
visita alla cugina Elisabetta, della nascita di Gesù a Betlemme e
dell’adorazione dei pastori e dei Magi, del posto singolare di san Giuseppe
nella famiglia di Gesù, della sua circoncisione e dell’imposizione del suo Nome
(Gesù, Dio che salva!).
Da chi l’avevano appreso? È ovvio:
l’avevano appreso da Maria, la Madre di Gesù, Dio e Signore fatto uomo. Scrive
a proposito il venerabile Fulton Sheen (1895-1979), formidabile evangelizzatore
del mondo d’oggi attraverso la cattedra di docente, i libri e ancor più per mezzo
della radio e della televisione in tutto il mondo: «Ogni membro della Chiesa
primitiva, dopo la Pentecoste e fino a quando furono scritti i Vangeli, già
sapeva del miracolo dei pani e dei pesci (cf Mc 8,1-9), della
Risurrezione (cf Mc 16,9-20), del parto verginale di Maria
(cf Mt 1,18-25)». Così sapeva delle altre verità che facevano
di Maria Santissima la Donna più grande della terra e dell’eternità. Da quanto
leggiamo soprattutto nei Vangeli di Matteo e di Luca, apprendiamo che i primi
cristiani, prima che i Vangeli fossero scritti, veneravano in Maria «la
Piena di grazia» (Lc 1,28), la Vergine tutta santa, la Madre
del Signore (cf Lc 1,39-45), Colei che più di tutti e in modo
unico ha collaborato alla Redenzione operata da Gesù (cf Lc 2,1-20; Gv 19,23-27).
Spiega ancora Fulton Sheen: «Quando
furono scritti, i Vangeli registrarono una Tradizione già presente, non l’hanno
creata. A un certo punto alcuni [gli Evangelisti] decisero di metterla per
iscritto, come Luca inizia il suo Vangelo, “in modo che tu possa renderti
conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1,1-4)».
Tra le fonti da cui san Luca ha attinto informazioni per le pagine su Maria e
il piccolo Gesù, sicuramente c’è Maria stessa, o coloro che avevano attinto da
Lei, gli Apostoli e i loro amici, primi tra tutti Pietro e Giovanni, il quale,
quest’ultimo, “aveva preso Maria con sé” (cf Gv 19,27).
Così «la Chiesa nascente – citiamo
ancora da Fulton Sheen – non credeva al parto verginale di Maria perché lo
dicevano i Vangeli, ma perché la Chiesa già ci credeva e i sacri scrittori lo
fissarono nei Vangeli. Se gli Apostoli, che avevano vissuto con il Signore [e
lo avevano appreso da Maria], non avessero insegnato il parto verginale, nessun
altro lo avrebbe fatto, nessuno lo avrebbe scritto». Luca, che era medico,
quindi un uomo incline allo studio, alla ricerca, al dubbio; non avrebbe
scritto della verginità e delle altre cose singolarissime che erano dette di
Maria Santissima e del Bambino Gesù, se non ne fosse stato più che sicuro.
Ancora una volta, la prima fonte,
il primo testimone e “documento” doveva essere Maria stessa, la quale, fin
dall’inizio, dai cristiani della prima ora, era veneratissima nella Chiesa
nascente come Madre di Gesù, Madre del Signore, Madre di Dio, oso dire come
Corredentrice; e quindi Madre della Chiesa, costituita dai “fratelli” di Gesù,
i nuovi “consanguinei di Gesù”, nella vita della grazia santificante, la sua
stessa vita divina. Madre della Vite e dei suoi tralci. Madre
del Capo e delle sue membra, il Corpo mistico di Cristo.
Presente e
luminosa
Se tutto questo è vero, così come è
vero, con intelletto di fede e di amore, io contemplo Maria che prega con gli
Apostoli e i primi credenti, partecipa all’offerta del Sacrificio di Gesù nella
“frazione del Pane” (cf At 2,46). Io contemplo Maria che, nel
modo unico che è il suo di Madre, sostiene gli Apostoli nella predicazione e li
guida a una comprensione sempre più intima della persona e dell’opera di Gesù,
del suo formidabile e radioso mistero di amore. Ma anche Maria che soffre,
quando apprende che gli Apostoli sono perseguitati e fatti bastonare e
incarcerare dal sinedrio, lo stesso che aveva condannato il suo Gesù, e con
amore materno dolcissimo cura le piaghe sui loro corpi feriti.
Ho sempre avuto la convinzione
profonda che l’evangelista Giovanni, il prediletto di Gesù, abbia scritto il
Vangelo che illumina sull’intimità del divino Maestro e Redentore con una
profondità dovuta alla sua “coabitazione” con Maria Santissima iniziata
la sera del Venerdì Santo. Il Vangelo di Giovanni, che riporta al secondo
capitolo Maria che a Cana santifica con Gesù una famiglia nascente, anticipando
“la sua ora” (cf Gv 2,1-11); il Vangelo che vede Maria,
la Madre, presente all’“ora” del Figlio crocifisso e in Giovanni accoglie in
eredità la sua Chiesa, la sua opera di Redenzione.
Provate, amici, a leggere i primi
capitoli degli Atti degli Apostoli, delle vicende accadute a Gerusalemme, a
Antiochia, in Siria... pensando che Maria era presente e operosa in
quell’ambiente della Chiesa nascente, con tutto il fascino e l’autorevolezza
che Ella aveva: ma lo capite? Lo immaginate? Era la Madre, è la Madre di Gesù,
ed Ella accompagnava la nascita e la crescita del “Cristo mistico” che era la
Chiesa!
Una con Gesù
Ma possiamo dire con brevi dense
parole ciò che Maria faceva? Penso che nessuno lo abbia detto meglio della
Beata Maria di Gesù Deluil-Martiny (1841-1884), vergine e martire. Sentite: «La
Madonna Santissima ha trasmesso a noi in modo particolarissimo gli ultimi anni
della sua vita, che vanno dalla Passione-Risurrezione di Gesù al suo beato
trapasso. Ce li ha lasciati affinché li onoriamo di un culto, di un omaggio
particolare, soprattutto di un’imitazione più fedele. Ora che cosa occupò
l’anima e la vita di Maria in questi anni pieni di misteri troppo poco
meditati? L’Eucaristia, il Calvario e la Chiesa.
L’Eucaristia, ove Ella ritrovava il suo Gesù,
lo possedeva come noi lo possediamo, lo amava, lo adorava, lo serviva e lo
offriva per le mani del sacerdote, come, purtroppo, noi non sappiamo e spesso
non vogliamo amarlo, servirlo e offrirlo.
Il Calvario, i cui sanguinosi ricordi
riempivano la sua anima, dove, dopo aver visto morire Gesù, straziante dolore
sempre vivo nel suo cuore di Madre, andava ancora a raccogliere il Sangue e i
meriti del suo divin Figlio per offrirli al Padre celeste. Il Calvario, dove la
sua anima santa si offriva sacrificata e immolata con Gesù.
E la Chiesa. La Chiesa e gli Apostoli che Ella
aiutava, sosteneva, formava con le sue incessanti preghiere e una prodigiosa,
nascosta immolazione; e questo con un amore e uno zelo attinti al divino
braciere del Cuore di Nostro Signore».
Non ha poteri di “ordine sacro” né
poteri gerarchici; quelli li hanno gli Apostoli, quali Pietro, Giovanni,
Giacomo... e coloro ai quali essi hanno imposto le mani, ovviamente tutti
uomini, come ha stabilito il Signore Gesù (e nessuno può cambiare questa norma
divina). Maria però è la Madre, l’Orante, la Corredentrice, la Donna
eucaristica, il cui Cuore, uno con il Cuore di Gesù-Ostia, è traboccante di
Lui, che irradia in modo unico tra i credenti della prima ora e tra noi, i
credenti di questa nostra terribile ora. C’erano e ci sono tenebre dense, ma la
Madre ci porta la Luce eterna. Nolite timere!
Alle sei e quindici del pomeriggio
del 22 maggio 1873, moriva nella sua casa di Milano all’età di 88 anni,
Alessandro Manzoni. Questi, a parte i disturbi nervosi di cui era affetto
(«Strano, tortuoso, complesso», lo definì Natalia Ginzburg nella famosa
biografia familiare. Carattere impossibile, nevrotico, paranoico: Manzoni aveva
il terrore della folla, era vittima di crisi di panico e di vertigini, il
«balbettamento organico e nervoso» gli impediva di parlare in pubblico. A
Brusuglio passava il suo tempo coltivando e camminando per ore, ma non
sopportava la terra bagnata e il cinguettìo degli uccelli), il 6 gennaio era
caduto, battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele
di Milano, dove si recava quotidianamente per la Santa Messa, procurandosi un
trauma cranico. Si era accorto, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà
intellettive cominciavano lentamente a declinare, fino a cadere in uno stato di
catatonia a partire dal mese di marzo. Le sofferenze furono acuite dalla morte
del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, quasi un mese prima
della morte dello scrittore, che spirò per una meningite contratta a seguito
del trauma. Il corpo fu imbalsamato da sette medici incaricati del processo da
parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio ed esposto a Palazzo
Marino con onori sovrani. Ai solenni funerali del Senatore (Manzoni era stato
nominato senatore nel febbraio 1860 per meriti verso la patria), celebrati in
duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro
re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le
rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del
Regno. Il giorno stesso della sua morte il Comune di Milano decretò di
intitolare allo scrittore scomparso la via del Giardino, nei pressi della quale
lo scrittore viveva dal 1814. Alla mattina del 23 maggio erano già murate le
targhe di marmo con la nuova intitolazione “Via Alessandro Manzoni” in
sostituzione delle precedenti. Nel 1874, nel primo anniversario della morte,
Giuseppe Verdi dirigerà personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la
Messa di requiem, composta per onorarne la memoria. A fronte delle solenni
commemorazioni istituzionali dell’Italia sabauda, il mondo cattolico espresse,
in morte del Manzoni, alcuni dubbi e alcune critiche che, sebbene in modo
sotterraneo, arriveranno al primo Dopoguerra, nonostante l’indubbio favore per
la di lui grandissima opera e la sua progressiva istituzionalizzazione culturale,
voluta dal Fascismo in continuità con l’Italia liberale di fine Ottocento. I
gesuiti de La Civiltà Cattolica, ad esempio, che avevano preso le
distanze dal Manzoni soltanto dopo che questi ricevette in casa sua con grande
affabilità Giuseppe Garibaldi, massone, anticlericale e anticristiano, nel
1862, passarono sotto silenzio la morte del senatore, per poi esprimere
critiche alla sua opera, nell’articolo del 26 giugno 1873 e in qualche altro
intervento negli anni successivi, sull’onda delle ragionate riserve filosofiche
e letterarie espresse fino alla morte (avvenuta nel settembre 1862) dal p.
Luigi Taparelli d’Azeglio (peraltro figlio di Cesare, destinatario della
celeberrima lettera manzoniana sul Romanticismo). Nel dissidio tra
le due anime del cattolicesimo italiano dell’epoca, Manzoni era ritenuto (non
senza una dose di giusta ragione) il “cavallo di Troia” tramite cui i liberali
avevano potuto attuare la loro politica laicista e l’abbattimento del potere
temporale dei papi. A tal proposito don Davide Albertario, molto critico della
religiosità manzoniana e fervida penna del giornalismo lombardo, scrisse:
«Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l’inganno che la rivoluzione
nascondeva alle promesse di unità italiana [...] Egli pertanto non si unì ai
difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e
fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo,
ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso ....» e
tuttavia, dalle colonne de L’Osservatore cattolico don
Albertario con innegabile pietà cristiana, ricordava il defunto «come uomo
buono, anche pio, e nei suoi traviamenti più illuso che colpevole». La mattina
del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di
Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la
salma di Manzoni fu tolta dal colombario e posta nel famedio del cimitero
monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo
nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di
Francesco Barzaghi. Il decennale della morte segnerà una sorta di difesa
postuma di Manzoni da parte de La Civiltà Cattolica innanzi al
progressivo e pervicace disegno del liberalismo politico e culturale italiano
di appropriarsi totalmente dell’opera manzoniana, negandone la radice
cattolica, in grazia de Le Osservazioni sulla Morale cattolica -
scritte in risposta alle accuse di oscurantismo avanzate alla religione
cattolica dal ginevrino Simonde de Sismond nel 1826 - in cui gli stessi gesuiti
riconobbero un Manzoni apologeta «.....non solo difesa della sua religione, ma
della sua patria, perché tutta la nazione italiana, che si gloria di essere
cattolica, restava denigrata dalle calunnie dello storico calvinista». Il clima
di transigentismo sortito dopo la Prima Guerra mondiale (esito anche dell’idea
sartiana del precedente decennio di deporre definitivamente qualsiasi
anacronistica doglianza per la “debellatio” dello Stato Pontificio dalle
colonne del quindicinale gesuitico), porterà anche la Chiesa istituzionale a un
equo giudizio sull’opera del grande milanese, tanto che nell’Enciclica “Divini
Illius Magistri” con cui si chiude il 1929, anno dei Patti Lateranensi,
papa Pio XI definirà il conterraneo Manzoni «mirabile scrittore quanto profondo
e coscienzioso pensatore». Ancora dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il
liberale Benedetto Croce nel 1941, scrivendo per la Rivista di
Letteratura, Storia e Filosofia di Napoli, ricorderà le eccezioni mosse
al Manzoni ancora negli anni Venti da un intellettuale cattolico di grande
fama, ovvero Giovanni Papini il quale – sulla scorta di critiche mosse
all’opera manzoniana, personalmente da Don Bosco nel 1885 – individuava la
radice dell’opera manzoniana più nell’illuminismo che nel cattolicesimo,
ridotto nella concezione manzoniana ad «un umanitarismo sociale con dei riti da
godere più che da approfondire». L’impressione che si ricava dalla foto che
ritrae il vecchio don Lisander sul letto di morte, però è la stessa che il
Poeta aveva descritto in morte di Napoleone nella celebre ode: il Dio - Signore
della storia il quale, sempre e comunque e quali che siano i mezzi che
liberamente sceglie per l’unico obiettivo che è la salvezza dell’uomo, come
affermato dall’Autore ne I promessi sposi – che atterra e
rialza, che dà dolori e consola, si era posto accanto a lui, per consolarlo nel
momento solitario del passaggio all’altra riva. Lasciando ai posteri l’ardua
sentenza (Fonte:Facebook, 22.5.2023,
con lievi modifiche ed adattamenti).
In
ricordo del centenario manzoniano, rilanciamo questo contributo.
Alessandro Manzoni sul letto di morte
Manzoni antirivoluzionario
di Riccardo Pedrizzi
A
150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, vogliamo ricordare questo “grande
italiano” riproponendo alle nuove generazioni un saggio poco noto scritto
dall’Autore, che ci offre efficaci spunti di riflessione.
Ricorre
quest’anno il centocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro
Manzoni. Era nato infatti il 7 marzo 1785 e morto il 22 maggio 1873. Non
sappiamo ancora se in questo clima di cancel culture ci
saranno celebrazioni adeguate per ricordare questo grande italiano. Anche
perché c’è stato addirittura chi ha chiesto di eliminare il suo studio dalle
scuole secondarie superiori. Certamente, però, non ci capiterà di veder
ricordato o solo menzionato, nemmeno dai suoi estimatori, tra le varie opere
dello scrittore milanese da salvaguardare e da proporre alle nuove generazioni,
il saggio, invero assai poco noto, La Rivoluzione francese del 1789 e
la rivoluzione italiana del 1859.
Del
resto lo stesso autore dei Promessi sposi, che per il più
conosciuto e apprezzato romanzo storico si era rivolto, in questo caso forse
scaramanticamente o per ostentare modestia, agli ormai famosi “venticinque
lettori”, prevedendo l’insuccesso di questa sua ulteriore fatica, nella quale
sosteneva, anche per i suoi tempi, delle tesi controcorrente, si augurava di
toccare il cielo con un dito, se fosse riuscito «d’attirare un piccolo numero
di lettori, non già ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in
esame».
C’è
da scommettere, però, che nemmeno ai nostri giorni ciò sia possibile, dal momento
che una vera e propria congiura del silenzio è scesa su quest’opera manzoniana.
In verità, fin dall’inizio il progetto di mettere a confronto, evidenziandone
le differenze, le due rivoluzioni, quella francese e quella italiana, nacque
sotto una cattiva stella, tanto da rimanere incompiuto.
Alessandro
Manzoni iniziò a scrivere questo saggio quando ormai era già un grande vecchio,
circondato dall’ammirazione generale, e subito, perciò, si rese conto che non
sarebbe riuscito a portarlo a termine, tanto che acconsentì alle insistenze
dell’amico Stefano Stampa di scrivere la prefazione al libro anche prima di
completarlo con la seconda parte, relativa alla rivoluzione italiana e ai suoi
moti del 1859 [1].
«È
necessario, necessarissimo – continuerà a ripetergli Stampa – che prima di
andare avanti ancora, tu scriva subito una prefazione che spieghi lo scopo del
tuo lavoro». Lo scrittore della Storia della colonna infame la
prepara una prima volta, ma ne resta insoddisfatto, poi una seconda, infine una
terza. A questo punto cade definitivamente la mano sui fogli e l’intera opera
resta incompiuta e vedrà la luce, monca, nel 1889, nel primo centenario del
moto rivoluzionario francese, postuma.
Questa
cattiva sorte continua ancora oggi ad accompagnare il volume, se si pensa che
anche nel mare di pubblicazioni e di libri che apparvero in occasione del
Bicentenario della Rivoluzione francese, è mancata proprio quest’opera.
Oggi
sulla Rivoluzione francese si è scritto e si trova di tutto: da testi ormai
superati a volumi che in altri paesi sono già caduti nel dimenticatoio, da
ricerche rimasticate presentate come nuove, a presunte “rivelazioni” su fatti
insignificanti ed ininfluenti, da “intuizioni” spacciate come originali ad
interpretazioni datate di avvenimenti e personaggi; eppure solo in qualche
occasione è capitato di leggere il titolo del libro manzoniano e men che meno
di sentir riecheggiare in convegni o tavole rotonde il suo contenuto e le sue
tesi. Per questo non sembra esagerato affermare che, se la lacuna non fosse
stata colmata solo un decennio fa dalla casa editrice “Costa & Nolan” di
Genova, “il piccolo numero di lettori”, a cui si rivolse il Manzoni, sarebbe
stato ancora più esiguo.
Non
molti, infatti, sanno che il poeta degli Inni sacri aveva
anche scritto questo saggio; solamente alcuni, poi, ne conoscono per sommi capi
il succo; pochissimi, infine, hanno letto l’intero volume e tra questi
sicuramente il professor Rosario Ameno ed il professor Augusto Del Noce, con i
quali ne parlai nel corso di due interviste che mi rilasciarono alcuni anni fa.
Entrambi convennero sull’importanza del libro e sulla necessità di farlo
conoscere.
Il
fatto è che al potere culturale, editoriale e politico non è mai piaciuto dover
ammettere, e quindi far sapere al grande pubblico, che uno scrittore del
calibro del Manzoni, studiato da tutte le ultime generazioni di studenti, amato
da molti di essi, abbia potuto scrivere un’opera nella quale ha documentato e
dimostrato, senza mai cadere in un ottuso reazionarismo, che la Rivoluzione
francese non era affatto inevitabile; che, invece, sono stati gli uomini, certi
uomini, ad inventare “l’inevitabile” (come successivamente affermò, dimostrandone
mirabilmente i meccanismi e le tecniche, lo storico e sociologo francese
Augustin Cochin); che Luigi XVI non era per niente un re assolutista contrario
alle riforme, riforme che anzi aveva proposto alla vigilia della convocazione
degli Stati Generali; che il sistema dell’Ancien Régime poteva essere reso più
giusto senza provocare il male e i disastri che afflissero la Francia e
l’Europa; che la rivoluzione è stata un tutt’uno di illegalità e di terrore e
che non può essere suddivisa, come ha tentato di fare qualcuno in malafede, «in
due tempi affatto diversi: il primo, di intenti benevoli e sapienti e di sforzi
generosi; il secondo di deliri e scellerataggini»; che insomma, l’Ottantanove
portò il terrore e «l’oppressione del paese, sotto nome di libertà».
Manzoni,
dunque, contro la Rivoluzione, che ha dato i natali al mondo moderno; Manzoni,
come qualcuno ha scritto, contro la storia; Manzoni antirivoluzionario: è un
vero e proprio scacco per la cultura ufficiale! Per questo è calata su
quest’opera una vera e propria coltre di silenzio.
A
questa operazione di occultamento e di rimozione dalla memoria si sono prestati
anche molti cattolici. Sia quelli di orientamento liberal-democratico, che
avendo da sempre tentato di giustificare e di far apparire compatibile la
Rivoluzione e le sue “verità impazzite” con il messaggio evangelico, hanno
operato un vero e proprio ostracismo per tutti quegli autori e quei testi che
non risultassero funzionali alla strategia di “accomodamento” della dottrina
della Chiesa ai valori comuni del mondo. Sia quelli di sponda
controrivoluzionaria, che non hanno ancora rimosso o attenuato il vecchio,
ottocentesco rancore verso le aperture liberali e le simpatie unitarie del
vecchio scrittore. L’operazione, però, che è stata portata a termine intorno a
quest’opera, con la congiura di un silenzio così ermetico, avrebbe dovuto far
sorgere qualche sospetto o, quantomeno, un minimo di curiosità: invece si va
avanti su questa strada e ci si priva, così di tesi e di argomentazioni che
potrebbero essere utili per ristabilire finalmente la verità su di una tragedia
che continua ad essere avvolta dai “miti” e dalle “leggende” fatte fiorire ad
arte da storici e politici di parte.
Scritto
con la maestria letteraria che tutti abbiamo avuto modo di apprezzare
attraverso le opere più note, il saggio, sostenuto da una documentazione
originale e rigorosa, si snoda con la forza appassionata di un romanzo, nel
quale si muovono i personaggi, che furono i protagonisti della Rivoluzione, con
le loro passioni, i loro pregi e i loro difetti. Anche le similitudini
utilizzate dall’Autore risultano, come del resto ciascuno ha potuto
sperimentare leggendo le sue opere più note, efficacissime e suggestive come
quella, ad esempio, che si riferisce appunto, alla Rivoluzione e che viene
ripresa dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica.
«Una
rivoluzione... nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle
condizioni del potere, o chi ne deve essere investito, ma sia messo in
questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che
s’intraprende, credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci
si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve,
col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù,
si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un
pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non
s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e... e a caposcala, al luogo dove si
starà di casa, quando s’arriva? Quando, voglio dire, comincia uno stato di
cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli
casi... fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo
può dire ognuno».
L’approfondita
indagine psicologica, poi, delle folle e dei singoli personaggi, la colorita
descrizione degli scenari ambientali e sociali, il preciso raffronto tra la
Rivoluzione americana e quella francese, che non hanno nulla di analogo (come
già dimostrò Edmund Bruke), i toni pacati delle argomentazioni, la difesa
equilibrata dello stato monarchico e del re di Francia, la partecipazione
emotiva ai singoli avvenimenti, la sua rigorosa scelta di campo contro ogni
sopraffazione e ogni sopruso, sono, tra gli altri, requisiti che difficilmente
si possono trovare in altri testi e che dovrebbero indurre almeno i cattolici a
fare di tutto per rompere il muro di omertà e di silenzio che circonda questa
“Rivoluzione” di Alessandro Manzoni.
Nota
Cf
R. Pedrizzi, Rivoluzione e dintorni. Dalle prime reazioni
all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica, c. XVII: Il
Manzoni “antirivoluzionario”, Editoriale Pantheon.