Sante Messe in rito antico in Puglia

mercoledì 20 settembre 2023

Un lucido aforisma del filosofo Gianni Vattimo, esponente del c.d. pensiero debole, sul cattolicesimo contemporaneo

Ieri, 19 settembre, si spegneva il filosofo Gianteresio (detto Gianni) Vattimo, teorizzatore del c.d. pensiero debole, corrente filosofica postmoderna. Sebbene, almeno formalmente, lo stesso si definisse "cattolico" e fosse stato, negli anni Cinquanta, con Umberto Eco e Furio Colombo, a guida dell'Azione Cattolica giovanile torinese, il suo pensiero era assolutamente lontano da quello cristiano, fondato sull’idea del c.d. indebolimento di Dio, rifiutando l’idea di Dio quale essere razionale (v. qui il ricordo di Francesco Agnoli). Con tale rigetto, ovviamente, ha rifiutato anche i precipitati etici collegati all’esistenza di Dio personale.

Ora, che è passato da questa vita all’altra, sicuramente si sarà reso conto degli errori compiuti e delle aberrazioni filosofiche (e non solo) cui era pervenuto. Che Dio abbia misericordia della sua anima!

Tuttavia, un merito gli va ascritto: quello di aver saputo rimproverare, con lucidità ed obiettività, il cattolicesimo contemporaneo dall’essersi messo all’inseguimento del mondo e della mondanità, perdendo così la propria identità e la sua forza. L'aforisma che segue è riportato dal card. Robert Sarah, nel suo libretto Vorrei aiutare gli altri a vedere con occhi nuovi, Marcianum Press, 2020, sebbene lo faccia risalire al 2010 ad una conversazione su Radio Vaticana. In realtà, l'aforisma che segue - più volte riusato nel corso degli anni (v. qui e qui) - è più risalente e rimonta ai primi anni '90 del secolo scorso, ad una conversazione con lo scrittore cattolico Vittorio Messori ed al suo Pensare la storia (cfr. Antonio Socci, Quando Vattimo disse a Messori ..., in Lo Straniero, 23.9.2023):

domenica 20 agosto 2023

Pio VII, il Papa mite perseguitato da Napoleone. A duecento anni dalla morte: 20 agosto 1823-2023

Il 20 agosto non è solo la data del pio transito del papa San Pio X, morto nel 1914. In verità, in quello stesso giorno, ma novantuno anni prima ed esattamente 200 anni fa, moriva, a Roma, un altro papa che portava quel nome: il servo di Dio papa Pio VII Chiaramonti: il pontefice che fu eletto in circostanze difficili, a Venezia, e che affrontò Napoleone. L’anniversario della morte del papa cesenate, in verità, è passato quasi in sordina sui maggiori mass media e non ci pare di aver sentito particolari celebrazioni in merito. In realtà, su alcune testate l’anniversario non è passato sotto silenzio. Si segnalano Filippo RizziI duecento anni di Pio VII, il papa che affrontò i “tempi nuovi”, in Avvenire, 19.8.2023Bernard ArduraPio VII, “Vicario del Dio della pace”, in Vatican News, 19.8.2023Giovanni Maria VianPio VII tenne testa a Napoleone e affrontò per primo i tempi nuovi, in Domani, 21.8.2023Antonio TaralloPapa Pio VII e Napoleone Bonaparte, in Acistampa, 20.8.2023Fabrizio FoschiPio VII, il papa prigioniero che difese la Chiesa (da Napoleone), in Il sussidiario, 14.8.2023.

In questa sede, rilanciamo un articolo de La nuova bussola quotidiana sulla figura di questo venerato Pontefice, nei cui confronti è stato avviato il processo di beatificazione. Significativamente va detto che sebbene il nulla osta della Santa Sede fosse concesso sin dal 2007 al vescovo di Savona-Noli mons. Domenico Calcagno (futuro cardinale), tuttavia solo domenica 31ottobre 2021 è iniziata ufficialmente la fase istruttoria della causa di beatificazione presso la diocesi savonese (vqui e qui). Il suo processo di beatificazione avrebbe dovuto, secondo le normative canoniche, essere avviato dalla diocesi di Roma, città in cui il pontefice morì, ma la Curia romana si convinse ad affidare questo iter alla diocesi di Savona-Noli.

Noi ricordiamo quest'insigne Pontefice con le sue stesse parole tratte dal Breve Etsi longissimo del 30 gennaio 1816: «[…] Noi siamo rappresentanti di Colui che è il Dio della pace e che, nascendo per redimere il genere umano dalla tirannide del demonio, volle annunciare la pace agli uomini attraverso i suoi angeli, abbiamo creduto sia proprio di quella funzione apostolica che, sebbene senza merito, esercitiamo […]».

Raffaele Castellini, Ritratto di papa Pio VII, XIX sec., collezione privata

Pio VII, il Papa mite perseguitato da Napoleone

di Massim Scapin

Domenica 20 agosto ricorrono i duecento anni dalla morte di Pio VII, il Papa, oggi Servo di Dio, deportato in Francia da Napoleone. E che, alla morte di Bonaparte, ne trattò la famiglia da vero cristiano.

Il 20 agosto di 200 anni fa, moriva il papa che si trovò nella tempesta dei giorni napoleonici: Pio VII, al secolo Barnaba Chiaramonti (1742-1823), dal 2007 Servo di Dio.


Monaco benedettino, priore dell’Abbazia di San Paolo a Roma (1775), vescovo di Tivoli (1782), cardinale e vescovo di Imola (1785), era nato 81 anni prima, a Cesena come il suo predecessore, papa Pio VI († 1799): «entrambi strappati con violenza alla loro sede episcopale e trascinati in esilio» (BENEDETTO XVI, Discorso, 4 ottobre 2008). Dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro il 14 marzo 1800, a conclusione del laborioso «conclave dell’esilio» durato più di tre mesi nel monastero veneziano di San Giorgio Maggiore, «in momenti quanto mai difficili per la Chiesa seppe dare esempio ai principi e ai popoli di fede inconcussa, di magnifica generosità di animo, e soprattutto di grande fortezza nel difendere, davanti all’irresistibile invadenza napoleonica, i diritti inviolabili della Chiesa Cattolica», come scrisse l’allora segretario di Stato di Pio XI, il cardinale Pietro Gasparri († 1934), nella Lettera del 3 giugno 1923 al vescovo di Cesena (in Rivista Storica Benedettina, XIV, Santa Maria Nuova, Roma 1923, p. 206).


Ai cardinali riuniti il 29 ottobre 1804, Pio VII ricorda con soddisfazione il ristabilimento del cattolicesimo in Francia, grazie al Concordato del 1801, e comunica che, aderendo alla richiesta di Napoleone Bonaparte († 1821), si recherà a Parigi per incoronarlo imperatore. In realtà Napoleone assumerà da sé la corona. Purtroppo, i buoni rapporti con l’imperatore francese durano poco, e nel 1808 Napoleone incorpora all’Impero lo Stato Pontificio. Nel 1809 papa Chiaramonti, dopo aver scomunicato il Bonaparte, è deportato in Francia: Grenoble, Savona e Fontainebleau sono le sue residenze coatte. Rientrato a Roma nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, ristabilisce la Compagnia di Gesù e imprime un decisivo impulso all’opera missionaria.


La mitezza di Pio VII e la superbia di Bonaparte sono conservate ne L’incoronazione di Napoleone I, la tela molto «ritoccata», ora esposta al Louvre, di Jacques-Louis David († 1825), il pittore della Rivoluzione francese e di Napoleone. Che giornata, quella del 2 dicembre 1804! Tutti nella chiesa-madre di Parigi, la cattedrale di Notre-Dame, invece che in quella solita di Reims. Quanti i disagi, anche fisici, sopportati angelicamente dal Papa! Per la gioia di re Enrico IV († 1106) e degli imperatori Federico Barbarossa († 1190), Federico II († 1250) e Ludovico il Bavaro († 1347), Napoleone si mette in capo la corona di imperatore dei Francesi da solo. Non era andato a Roma ai piedi di Sua Santità; ma con moine e minacce era riuscito a convincere il povero Pio VII a mettersi in viaggio, in pieno inverno, da Roma a Parigi, per consacrare quel Carlo Magno a rovescio.


Ci piace pensare che la «colonna sonora» di quella giornata, interpretata da 500 musicisti e cantanti, abbia consolato almeno in parte l’animo del Papa. Gran parte della musica fu composta da uno dei grandi maestri della scuola napoletana, il tarantino Giovanni Paisiello († 1816), per cui il Bonaparte andava pazzo. Alludiamo alla Messe du Sacre, per 3 voci soliste (ma i cantanti impegnati nelle varie parti furono 9), 2 cori e 2 orchestre, e al Te Deum in si bemolle maggiore per soli, doppio coro e doppia orchestra, che il compositore aveva scritto ma non diresse quella domenica di dicembre: a fine agosto era ripartito per Napoli, lasciando come suo successore Jean-François Lesueur († 1837), il maestro di composizione di Hector Berlioz († 1869).


Molto bella è la Messa, di cui riferirono: «Scelta e numerosa l’orchestra, cantanti di prim’ordine, le ispirazioni seguivano il maestro italiano. La Messa fu un capolavoro, che la più severa critica non avrebbe saputo menomamente attaccare (…). Paisiello nella indicata circostanza provò più che mai quanto fosse valente nelle sacre composizioni, con quanta filosofia sapesse esprimere le tante, sì variate e sì sublimi situazioni, che l’incruento sagrifizio presentano, e ben meritati applausi riportò da una folla immensa di popolo che ad uno spettacolo quasi più teatrale, che ecclesiastico, assisteva» (F. SCHIZZI, Della vita e degli studi di Giovanni Paisiello, Volume 73, Milano 1833, pp. 46-47).


Il Te Deum, eseguito alla fine, fu riciclato per l’occasione con disinvoltura. Fu composto da Paisiello a Napoli nel 1791 «per il ritorno delle Loro Maestà [Ferdinando e Carolina] da Germania, eseguitosi nella Chiesa di Belvedere sopra Caserta» (La rassegna musicale, Einaudi, 1930, p. 130). Parigi lo aveva sentito il 18 aprile 1802, giorno di Pasqua, quando fu proclamato in Francia il Concordato: i musici della cappella consolare e del Teatro della Repubblica e delle Arti si riunirono per cantarlo, insieme ad altre composizioni di Paisiello.


Questa partitura presenta particolare importanza, dal momento che Paisiello, pur essendo nato nel 1740, tra l’Opera comica e il patetico di quella «materia buffa […] bene intrecciata colla seria» (C. Goldoni, La Scuola Moderna, All’amico lettore), qui sa intuire lo stile Impero in musica. Sì, quella versione ornamentale di neoclassicismo con cui tutti gli artisti italiani e francesi si mettono in sintonia durante l’impero napoleonico; uno stile che sarà pienamente incarnato da Luigi Cherubini († 1842). Il Te Deum di Paisiello è tutto animato di spirito marziale: desta grande meraviglia il Te ergo quæsumus, in cui l’orchestra dialoga con la fanfara della Guarda Nazionale collocata nella navata. Ma vi si trovano pure tanti momenti delicati, quasi intimi (cfr. P. ISOTTA, Per un bicentenario: Paisiello e il mito di Fedra, Arte’m, Napoli 2016).


Fonte: La nuova bussola quotidiana, 19.8.2023

martedì 15 agosto 2023

EXALTATA SUPER COROS ANGELORUM - Assunzione della Beata Vergine Maria in anima e corpo


Un interrogativo che sorge, in questo giorno dell’Assunzione di Maria, è: abbiamo conferme celesti di questo dogma proclamato dal Venerabile Pio XII durante l’anno santo del 1950?

La domanda sorge spontanea se pensiamo che tutti i dogmi proclamati dalla Chiesa han trovato conferma e ratifica, diciamo così, in Cielo. Segnatamente i dogmi mariani.

Così, per es., il dogma della Theotokos, della divina maternità di Maria, proclamato dal Concilio di Efeso nel 431 d.C., da parte la circostanza che il titolo lo si trovava già nel Vangelo di Luca (S. Elisabetta, rispondendo al saluto di Maria, le disse: «a che devo che la madre del mio Signore venga a me?»: Lc 1, 43), ebbe conferma dalla viva voce della Vergine apparendo alle soglie dell’anno mille (1001 per l’esattezza) ad un conte di Ariano e ad un contadino, nel bosco del Cervaro, a sud di Foggia, in quello che è oggi è il Borgo Incoronata, una frazione della città di Foggia. Qui la Vergine Maria si presentò esplicitamente con le parole al conte: «Non temere, io sono la Gran Madre di Dio, voglio che mi sia eretta qui una cappella per essere venerata dai fedeli […]» (v. qui).

In modo non dissimile, fu confermato – sempre riguardo a Maria – il dogma del suo immacolato concepimento proclamato dal beato papa Pio IX nel 1854. Addirittura, qui il dogma fu proclamato dalla stessa Vergine prima della proclamazione formale della Chiesa. A Rue du Bac, a Parigi, nel novembre 1830 (quattordici anni prima del dogma), infatti, nell’apparizione della Medaglia miracolosa a S. Caterina Labouré, poteva leggersi nell’ovale della medaglia vista dalla santa «O Maria concepita senza peccato, prega per noi che a Te ricorriamo». Non solo. Ma a Lourdes, nel 1858, la Vergine, apparendo all’ignorante pastorella S. Bernadette, ebbe modo di presentarsi con l’appellativo – incomprensibile per la ragazza - «Io sono l’Immacolata Concezione». Come a voler dire alla Chiesa: già ve l’ho detto, ma se non lo comprendete, ve lo ribadisco e confermo!

Bene. E riguardo all’Assunzione cosa possiamo dire?


Innanzitutto, abbiamo delle prove materiali di quest’evento. Sì, non abbiamo testimonianze evangeliche, ma prove materiali che ci riportano direttamente a quell’evento e la cui attendibilità è fondata su testimonianze storiche e sulla traditio plurisecolare, per non dire bimillenaria, dei fedeli. Ci riferiamo innanzitutto alla c.d. tomba della Vergine, a Gerusalemme, presso il torrente Cedron; luogo veneratissimo sin dall’antichità più remota dalla comunità cristiana gerosolomitana. Nessuno si sognerebbe mai di costruire una chiesa su un wadi (letto di un corso d’acqua) del torrente Cedron, se non ci fosse stata una tradizione assai risalente circa l’esistenza di tale tomba.

Abbiamo la testimonianza, anche questa assai risalente, intorno alla reliquia della c.d. Sacra Cintola, conservata nel duomo di Prato. Si tratta di una striscia in lana di capra, broccata in filo d’oro. Secondo la Tradizione, questa cintola sarebbe stata consegnata dalla Vergine, a prova della sua Assunzione, a S. Tommaso apostolo, il quale prima di partire per le Indie l’avrebbe affidata ad un sacerdote cristiano, e, quindi, di mano in mano, sarebbe giunta nelle mani del mercante pratese Michele da Prato, il quale, trovandosi a Gerusalemme nel 1141, la ebbe in dote per il matrimonio della figlia Maria dalla famiglia del sacerdote che la ebbe, per secoli, in custodia e che era stata consegnata da S. Tommaso. E dalle mani di questo mercante, alla fine, sarebbe giunta a Prato.

Ludovico Buti,
Madonna dà la Cintola a san Tommaso,
1588-90, Museo di Palazzo Pretorio, Prato
Ma abbiamo conferme del dogma da parte di Maria?

La risposta è affermativa. Anzi, qui la conferma precedette la proclamazione del dogma e rafforzò l’intento del pontefice del tempio, il venerabile Pio XII, nell’affermazione solenne di questa verità.

Ci riferiamo alle apparizioni – sebbene non formalmente riconosciute dalla Chiesa – della Madonna all’ex evangelico Bruno Cornacchiola, insieme ai suoi tre figlioli, alle Tre Fontane, a Roma. Nella prima apparizione, quella del 12 aprile 1947, la Madonna, presentandosi a Bruno come la “Vergine della Rivelazione”, gli attestò «[…] Il mio Corpo non marcì, né poteva marcire, Mio Figlio e gli Angeli mi vennero a prendere al momento del mio trapasso […]». In un interrogatorio da parte del tribunale ecclesiastico del Vicariato, il piccolo Gianfranco, uno dei figli del Cornacchiola, – all’epoca di appena quattro anni – così si esprimeva, come ricorda un giudice di quel collegio: «“Di’ un po’: ma com’era quella statua là?”. Dice: “Ma, no, macché! Era de ciccia!”. Un’ espressione così meravigliosa per dire: “Ma che statua! Era proprio di carne ed ossa!”. Questa definizione vuol dire che è autentica apparizione» (v. qui). In un certo qual modo, con quelle parole Pio XII vide confermata dal Cielo la sua richiesta, rivolta all’intero episcopato, del maggio 1946, con la lettera enciclica Deiparae Virginis Mariae, di sapere cosa ne pensasse della proclamazione del IV dogma mariano (per l’esattezza se ritenessero tale verità definibile e se, col loro clero e popolo, ne desideravano la definizione), che comunque ebbe risposta positiva dal 98% dell’episcopato mondiale (soltanto 22 vescovi espressero perplessità sull’opportunità di siffatta definizione e solo 6 vescovi manifestarono dubbi circa la possibilità della definizione come verità rivelata).

Come se non bastasse, papa Pacelli, alla vigilia della proclamazione dogmatica, fu confortato dal c.d. miracolo del sole, del quale già abbiamo parlato in anni precedenti (v. qui).

Per cui, anche per il dogma dell’Assunzione abbiamo la conferma dal Cielo, così com’è stato per le altre verità mariane.


Augustinus


Risplende la Regina in ori di Ofir ....
Madonna Assunta, Vorno, Capannori (LU)

venerdì 7 luglio 2023

7 Luglio 2007 SUMMORUM PONTIFICUM


"I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” ed “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Inizia così  la  lettera apostolica di Papa Benedetto XVI, pubblicata in forma di motu proprio il 7 luglio 2007 denominata  Summorum Pontificum

https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20070707_summorum-pontificum.html


E’ costituito da dodici articoli nei quali si offre una serie di norme circa la possibilità di celebrazione dell’Eucaristia con il rito precedente alla riforma del Vaticano II, cioè il Messale di Pio V nell’edizione pubblicata da Giovanni XXIII nel 1962. Summorum Pontificum afferma che il Messale di Paolo VI «è l’espressione ordinaria della lex orandi », mentre il Messale di Pio V ed. 1962 «deve venir considerato come espressione extraordinaria della stessa lex orandi. Secondo SP Il Messale di Pio V e quello di Paolo VI sono quindi «due usi del medesimo rito»

Papa Francesco  il 16 luglio 2021 pubblica la "Traditionis Custodes"  lettera apostolica  sotto forma di motu proprio  per «ristabilire in tutta la Chiesa di Rito romano una sola e identica preghiera che esprima la sua unità, secondo i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II e in linea con la tradizione della Chiesa» di fatto, però, apportando restrizioni alle norme del Summorum Pontificum, ma, sia chiaro a tutti, a noi principalmente che, nonostante le limitazioni IL SUMMORUM NON È MAI STATO ABROGATO! Né può esserlo, essendo un atto magistrale! Ed è proprio la Traditionis Custodes, che dichiarando di  voler «abrogare tutte le norme, le istruzioni, le concessioni e le consuetudini precedenti al presente Motu Proprio, e di ritenere i libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, come l'unica espressione della lex orandi del Rito romano» di  fatto non smentisce, semmai  avalla quanto affermato nel Summorum Pontificum: che il Messale del 1962 mai venne abrogato.


Oggi è anche una data micaelica, ricorre infatti anche l'apparizione dell'Arcangelo Michele alla Serva di Dio Francesca Lancellotti, amica e confidente del Card. Oddi, primo Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei. Se volete sapere qualcosa di più su Francesca Lancellotti potete collegarvi al sito 

http://www.francescalancellotti.it/

Deodata Cofano

sabato 27 maggio 2023

Madre tra i primi cristiani: la presenza di Maria nella Chiesa nascente

Nella Vigilia della Santa Festa di Pentecoste, rilanciamo questo contributo di riflessione e meditazione sulla presenza di Maria nella Chiesa nascente.

Madre tra i primi cristiani

di Paolo Risso

Gesù ha affidato la Chiesa nascente alla sua divina Madre. Da allora Ella è sempre presente in essa, come Madre e Maestra, e, come fece con gli Apostoli, ci forma, ci sostiene e ci guida a Gesù.

La sera del Venerdì Santo (7 aprile dell’anno 30, questa è la data più sicura, secondo gli esegeti), dopo che Gesù morente aveva affidato Maria, sua Madre, al discepolo prediletto, Giovanni, e questi a Maria come Madre, «Giovanni la prese con sé» (Gv 19,27) e la trattò come Madre sua, come Madre dei suoi confratelli, gli Apostoli di Gesù. 

Fu Maria Santissima a radunare Pietro e gli altri, che erano fuggiti per la paura di fare la stessa fine di Gesù sul Calvario, prima attorno alla memoria vivente del Maestro, e, dalla mattina del terzo giorno, attorno a Lui in persona, risorto, vivo, il Vivente in eterno. Quando Gesù la sera di Pasqua si mostrò vivo ai suoi amici, realizzando la promessa inaudita: «Il terzo giorno risorgerò» (Lc 18,33), Maria certamente era con loro. 

Quando, quaranta giorni dopo, Gesù salì al Cielo e si sottrasse ai loro occhi, essi tornarono a Gerusalemme e si radunarono insieme, i Dodici e centoventi persone credenti nel Figlio di Dio, l’uomo-Dio, già crocifisso e ora glorificato dal Padre, in attesa dello Spirito Santo che li avrebbe condotti alla verità tutta intera e li avrebbe resi annunciatori del Risorto sino agli estremi confini della terra. 

«Tutti – scrive san Luca negli Atti del Apostoli – erano perseveranti e concordi nella preghiera insieme ad alcune donne e a Maria la Madre di Gesù» (At 1,14). Il cinquantesimo giorno, la solennità di Pentecoste, quando scese su di loro la “cascata di luce e di fuoco” dello Spirito Santo, si spalancarono le porte e Pietro, il primo degli Apostoli, uscì dal luogo dove stavano al riparo, e intraprese l’annuncio del Cristo (cf At 2,1-15). 

Madre e Maestra

Maria, la Madre di Gesù, era presente, con il cuore in festa, e al termine di quel giorno, Pietro le portò i primi tremila convertiti al Figlio suo, i suoi primi tremila amici e fratelli, che Maria accolse come suoi figli a immagine del Figlio suo. Era nata la Chiesa, si manifestava la Chiesa. E Lei, la Madre di Gesù, era pure la Madre della Chiesa. 

Pietro e i Dodici e la “gente del loro giro” avevano conosciuto di persona Gesù, ma quelli che non l’avevano mai visto di persona, appena seppero che Maria sua Madre era in mezzo a loro, vollero conoscerla e parlarle e domandarle: “Parlarci di Gesù, raccontaci Gesù! Chi lo fa meglio di te?”. E Maria, per tutti gli anni che rimase ancora sulla terra (circa una dozzina, dice un’antica tradizione), raccontò agli Apostoli del Figlio suo e a quelli, sempre più numerosi, che si convertivano a Lui, quanto Ella sola sapeva del suo Figlio divino. 

I Vangeli non erano ancora stati scritti (cominceranno a essere scritti 10-15 anni dopo l’Ascensione di Gesù), ma i primi cristiani di Gerusalemme e della Palestina, di Antiochia, della Siria, di Cipro... già sapevano dell’annuncio dell’Angelo a Maria, della sua visita alla cugina Elisabetta, della nascita di Gesù a Betlemme e dell’adorazione dei pastori e dei Magi, del posto singolare di san Giuseppe nella famiglia di Gesù, della sua circoncisione e dell’imposizione del suo Nome (Gesù, Dio che salva!). 

Da chi l’avevano appreso? È ovvio: l’avevano appreso da Maria, la Madre di Gesù, Dio e Signore fatto uomo. Scrive a proposito il venerabile Fulton Sheen (1895-1979), formidabile evangelizzatore del mondo d’oggi attraverso la cattedra di docente, i libri e ancor più per mezzo della radio e della televisione in tutto il mondo: «Ogni membro della Chiesa primitiva, dopo la Pentecoste e fino a quando furono scritti i Vangeli, già sapeva del miracolo dei pani e dei pesci (cf Mc 8,1-9), della Risurrezione (cf Mc 16,9-20), del parto verginale di Maria (cf Mt 1,18-25)». Così sapeva delle altre verità che facevano di Maria Santissima la Donna più grande della terra e dell’eternità. Da quanto leggiamo soprattutto nei Vangeli di Matteo e di Luca, apprendiamo che i primi cristiani, prima che i Vangeli fossero scritti, veneravano in Maria «la Piena di grazia» (Lc 1,28), la Vergine tutta santa, la Madre del Signore (cf Lc 1,39-45), Colei che più di tutti e in modo unico ha collaborato alla Redenzione operata da Gesù (cf Lc 2,1-20; Gv 19,23-27). 

Spiega ancora Fulton Sheen: «Quando furono scritti, i Vangeli registrarono una Tradizione già presente, non l’hanno creata. A un certo punto alcuni [gli Evangelisti] decisero di metterla per iscritto, come Luca inizia il suo Vangelo, “in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto” (Lc 1,1-4)». Tra le fonti da cui san Luca ha attinto informazioni per le pagine su Maria e il piccolo Gesù, sicuramente c’è Maria stessa, o coloro che avevano attinto da Lei, gli Apostoli e i loro amici, primi tra tutti Pietro e Giovanni, il quale, quest’ultimo, “aveva preso Maria con sé” (cf Gv 19,27). 

Così «la Chiesa nascente – citiamo ancora da Fulton Sheen – non credeva al parto verginale di Maria perché lo dicevano i Vangeli, ma perché la Chiesa già ci credeva e i sacri scrittori lo fissarono nei Vangeli. Se gli Apostoli, che avevano vissuto con il Signore [e lo avevano appreso da Maria], non avessero insegnato il parto verginale, nessun altro lo avrebbe fatto, nessuno lo avrebbe scritto». Luca, che era medico, quindi un uomo incline allo studio, alla ricerca, al dubbio; non avrebbe scritto della verginità e delle altre cose singolarissime che erano dette di Maria Santissima e del Bambino Gesù, se non ne fosse stato più che sicuro. 

Ancora una volta, la prima fonte, il primo testimone e “documento” doveva essere Maria stessa, la quale, fin dall’inizio, dai cristiani della prima ora, era veneratissima nella Chiesa nascente come Madre di Gesù, Madre del Signore, Madre di Dio, oso dire come Corredentrice; e quindi Madre della Chiesa, costituita dai “fratelli” di Gesù, i nuovi “consanguinei di Gesù”, nella vita della grazia santificante, la sua stessa vita divina. Madre della Vite e dei suoi tralciMadre del Capo e delle sue membra, il Corpo mistico di Cristo. 

Presente e luminosa

Se tutto questo è vero, così come è vero, con intelletto di fede e di amore, io contemplo Maria che prega con gli Apostoli e i primi credenti, partecipa all’offerta del Sacrificio di Gesù nella “frazione del Pane” (cf At 2,46). Io contemplo Maria che, nel modo unico che è il suo di Madre, sostiene gli Apostoli nella predicazione e li guida a una comprensione sempre più intima della persona e dell’opera di Gesù, del suo formidabile e radioso mistero di amore. Ma anche Maria che soffre, quando apprende che gli Apostoli sono perseguitati e fatti bastonare e incarcerare dal sinedrio, lo stesso che aveva condannato il suo Gesù, e con amore materno dolcissimo cura le piaghe sui loro corpi feriti. 

Ho sempre avuto la convinzione profonda che l’evangelista Giovanni, il prediletto di Gesù, abbia scritto il Vangelo che illumina sull’intimità del divino Maestro e Redentore con una profondità dovuta alla sua “coabitazione” con Maria Santissima iniziata la sera del Venerdì Santo. Il Vangelo di Giovanni, che riporta al secondo capitolo Maria che a Cana santifica con Gesù una famiglia nascente, anticipando “la sua ora” (cf Gv 2,1-11); il Vangelo che vede Maria, la Madre, presente all’“ora” del Figlio crocifisso e in Giovanni accoglie in eredità la sua Chiesa, la sua opera di Redenzione. 

Provate, amici, a leggere i primi capitoli degli Atti degli Apostoli, delle vicende accadute a Gerusalemme, a Antiochia, in Siria... pensando che Maria era presente e operosa in quell’ambiente della Chiesa nascente, con tutto il fascino e l’autorevolezza che Ella aveva: ma lo capite? Lo immaginate? Era la Madre, è la Madre di Gesù, ed Ella accompagnava la nascita e la crescita del “Cristo mistico” che era la Chiesa!

Una con Gesù

Ma possiamo dire con brevi dense parole ciò che Maria faceva? Penso che nessuno lo abbia detto meglio della Beata Maria di Gesù Deluil-Martiny (1841-1884), vergine e martire. Sentite: «La Madonna Santissima ha trasmesso a noi in modo particolarissimo gli ultimi anni della sua vita, che vanno dalla Passione-Risurrezione di Gesù al suo beato trapasso. Ce li ha lasciati affinché li onoriamo di un culto, di un omaggio particolare, soprattutto di un’imitazione più fedele. Ora che cosa occupò l’anima e la vita di Maria in questi anni pieni di misteri troppo poco meditati? L’Eucaristia, il Calvario e la Chiesa. 

L’Eucaristia, ove Ella ritrovava il suo Gesù, lo possedeva come noi lo possediamo, lo amava, lo adorava, lo serviva e lo offriva per le mani del sacerdote, come, purtroppo, noi non sappiamo e spesso non vogliamo amarlo, servirlo e offrirlo. 

Il Calvario, i cui sanguinosi ricordi riempivano la sua anima, dove, dopo aver visto morire Gesù, straziante dolore sempre vivo nel suo cuore di Madre, andava ancora a raccogliere il Sangue e i meriti del suo divin Figlio per offrirli al Padre celeste. Il Calvario, dove la sua anima santa si offriva sacrificata e immolata con Gesù. 

E la Chiesa. La Chiesa e gli Apostoli che Ella aiutava, sosteneva, formava con le sue incessanti preghiere e una prodigiosa, nascosta immolazione; e questo con un amore e uno zelo attinti al divino braciere del Cuore di Nostro Signore». 

Non ha poteri di “ordine sacro” né poteri gerarchici; quelli li hanno gli Apostoli, quali Pietro, Giovanni, Giacomo... e coloro ai quali essi hanno imposto le mani, ovviamente tutti uomini, come ha stabilito il Signore Gesù (e nessuno può cambiare questa norma divina). Maria però è la Madre, l’Orante, la Corredentrice, la Donna eucaristica, il cui Cuore, uno con il Cuore di Gesù-Ostia, è traboccante di Lui, che irradia in modo unico tra i credenti della prima ora e tra noi, i credenti di questa nostra terribile ora. C’erano e ci sono tenebre dense, ma la Madre ci porta la Luce eterna. Nolite timere! 

Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, fasc. n. 19, 14.5.2023

lunedì 22 maggio 2023

Nel 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni

Alle sei e quindici del pomeriggio del 22 maggio 1873, moriva nella sua casa di Milano all’età di 88 anni, Alessandro Manzoni. Questi, a parte i disturbi nervosi di cui era affetto («Strano, tortuoso, complesso», lo definì Natalia Ginzburg nella famosa biografia familiare. Carattere impossibile, nevrotico, paranoico: Manzoni aveva il terrore della folla, era vittima di crisi di panico e di vertigini, il «balbettamento organico e nervoso» gli impediva di parlare in pubblico. A Brusuglio passava il suo tempo coltivando e camminando per ore, ma non sopportava la terra bagnata e il cinguettìo degli uccelli), il 6 gennaio era caduto, battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, dove si recava quotidianamente per la Santa Messa, procurandosi un trauma cranico. Si era accorto, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a declinare, fino a cadere in uno stato di catatonia a partire dal mese di marzo. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, quasi un mese prima della morte dello scrittore, che spirò per una meningite contratta a seguito del trauma. Il corpo fu imbalsamato da sette medici incaricati del processo da parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio ed esposto a Palazzo Marino con onori sovrani. Ai solenni funerali del Senatore (Manzoni era stato nominato senatore nel febbraio 1860 per meriti verso la patria), celebrati in duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del Regno. Il giorno stesso della sua morte il Comune di Milano decretò di intitolare allo scrittore scomparso la via del Giardino, nei pressi della quale lo scrittore viveva dal 1814. Alla mattina del 23 maggio erano già murate le targhe di marmo con la nuova intitolazione “Via Alessandro Manzoni” in sostituzione delle precedenti. Nel 1874, nel primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi dirigerà personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la Messa di requiem, composta per onorarne la memoria. A fronte delle solenni commemorazioni istituzionali dell’Italia sabauda, il mondo cattolico espresse, in morte del Manzoni, alcuni dubbi e alcune critiche che, sebbene in modo sotterraneo, arriveranno al primo Dopoguerra, nonostante l’indubbio favore per la di lui grandissima opera e la sua progressiva istituzionalizzazione culturale, voluta dal Fascismo in continuità con l’Italia liberale di fine Ottocento. I gesuiti de La Civiltà Cattolica, ad esempio, che avevano preso le distanze dal Manzoni soltanto dopo che questi ricevette in casa sua con grande affabilità Giuseppe Garibaldi, massone, anticlericale e anticristiano, nel 1862, passarono sotto silenzio la morte del senatore, per poi esprimere critiche alla sua opera, nell’articolo del 26 giugno 1873 e in qualche altro intervento negli anni successivi, sull’onda delle ragionate riserve filosofiche e letterarie espresse fino alla morte (avvenuta nel settembre 1862) dal p. Luigi Taparelli d’Azeglio (peraltro figlio di Cesare, destinatario della celeberrima lettera manzoniana sul Romanticismo). Nel dissidio tra le due anime del cattolicesimo italiano dell’epoca, Manzoni era ritenuto (non senza una dose di giusta ragione) il “cavallo di Troia” tramite cui i liberali avevano potuto attuare la loro politica laicista e l’abbattimento del potere temporale dei papi. A tal proposito don Davide Albertario, molto critico della religiosità manzoniana e fervida penna del giornalismo lombardo, scrisse: «Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l’inganno che la rivoluzione nascondeva alle promesse di unità italiana [...] Egli pertanto non si unì ai difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo, ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso ....» e tuttavia, dalle colonne de L’Osservatore cattolico don Albertario con innegabile pietà cristiana, ricordava il defunto «come uomo buono, anche pio, e nei suoi traviamenti più illuso che colpevole». La mattina del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la salma di Manzoni fu tolta dal colombario e posta nel famedio del cimitero monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di Francesco Barzaghi. Il decennale della morte segnerà una sorta di difesa postuma di Manzoni da parte de La Civiltà Cattolica innanzi al progressivo e pervicace disegno del liberalismo politico e culturale italiano di appropriarsi totalmente dell’opera manzoniana, negandone la radice cattolica, in grazia de Le Osservazioni sulla Morale cattolica - scritte in risposta alle accuse di oscurantismo avanzate alla religione cattolica dal ginevrino Simonde de Sismond nel 1826 - in cui gli stessi gesuiti riconobbero un Manzoni apologeta «.....non solo difesa della sua religione, ma della sua patria, perché tutta la nazione italiana, che si gloria di essere cattolica, restava denigrata dalle calunnie dello storico calvinista». Il clima di transigentismo sortito dopo la Prima Guerra mondiale (esito anche dell’idea sartiana del precedente decennio di deporre definitivamente qualsiasi anacronistica doglianza per la “debellatio” dello Stato Pontificio dalle colonne del quindicinale gesuitico), porterà anche la Chiesa istituzionale a un equo giudizio sull’opera del grande milanese, tanto che nell’Enciclica “Divini Illius Magistri” con cui si chiude il 1929, anno dei Patti Lateranensi, papa Pio XI definirà il conterraneo Manzoni «mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore». Ancora dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il liberale Benedetto Croce nel 1941, scrivendo per la Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia di Napoli, ricorderà le eccezioni mosse al Manzoni ancora negli anni Venti da un intellettuale cattolico di grande fama, ovvero Giovanni Papini il quale – sulla scorta di critiche mosse all’opera manzoniana, personalmente da Don Bosco nel 1885 – individuava la radice dell’opera manzoniana più nell’illuminismo che nel cattolicesimo, ridotto nella concezione manzoniana ad «un umanitarismo sociale con dei riti da godere più che da approfondire». L’impressione che si ricava dalla foto che ritrae il vecchio don Lisander sul letto di morte, però è la stessa che il Poeta aveva descritto in morte di Napoleone nella celebre ode: il Dio - Signore della storia il quale, sempre e comunque e quali che siano i mezzi che liberamente sceglie per l’unico obiettivo che è la salvezza dell’uomo, come affermato dall’Autore ne I promessi sposi – che atterra e rialza, che dà dolori e consola, si era posto accanto a lui, per consolarlo nel momento solitario del passaggio all’altra riva. Lasciando ai posteri l’ardua sentenza (Fonte: Facebook, 22.5.2023, con lievi modifiche ed adattamenti). 

In ricordo del centenario manzoniano, rilanciamo questo contributo.

Alessandro Manzoni sul letto di morte

Manzoni antirivoluzionario

di Riccardo Pedrizzi

A 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, vogliamo ricordare questo “grande italiano” riproponendo alle nuove generazioni un saggio poco noto scritto dall’Autore, che ci offre efficaci spunti di riflessione. 

Ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Era nato infatti il 7 marzo 1785 e morto il 22 maggio 1873. Non sappiamo ancora se in questo clima di cancel culture ci saranno celebrazioni adeguate per ricordare questo grande italiano. Anche perché c’è stato addirittura chi ha chiesto di eliminare il suo studio dalle scuole secondarie superiori. Certamente, però, non ci capiterà di veder ricordato o solo menzionato, nemmeno dai suoi estimatori, tra le varie opere dello scrittore milanese da salvaguardare e da proporre alle nuove generazioni, il saggio, invero assai poco noto, La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859

Del resto lo stesso autore dei Promessi sposi, che per il più conosciuto e apprezzato romanzo storico si era rivolto, in questo caso forse scaramanticamente o per ostentare modestia, agli ormai famosi “venticinque lettori”, prevedendo l’insuccesso di questa sua ulteriore fatica, nella quale sosteneva, anche per i suoi tempi, delle tesi controcorrente, si augurava di toccare il cielo con un dito, se fosse riuscito «d’attirare un piccolo numero di lettori, non già ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in esame». 

C’è da scommettere, però, che nemmeno ai nostri giorni ciò sia possibile, dal momento che una vera e propria congiura del silenzio è scesa su quest’opera manzoniana. In verità, fin dall’inizio il progetto di mettere a confronto, evidenziandone le differenze, le due rivoluzioni, quella francese e quella italiana, nacque sotto una cattiva stella, tanto da rimanere incompiuto.

Alessandro Manzoni iniziò a scrivere questo saggio quando ormai era già un grande vecchio, circondato dall’ammirazione generale, e subito, perciò, si rese conto che non sarebbe riuscito a portarlo a termine, tanto che acconsentì alle insistenze dell’amico Stefano Stampa di scrivere la prefazione al libro anche prima di completarlo con la seconda parte, relativa alla rivoluzione italiana e ai suoi moti del 1859 [1].

«È necessario, necessarissimo – continuerà a ripetergli Stampa – che prima di andare avanti ancora, tu scriva subito una prefazione che spieghi lo scopo del tuo lavoro». Lo scrittore della Storia della colonna infame la prepara una prima volta, ma ne resta insoddisfatto, poi una seconda, infine una terza. A questo punto cade definitivamente la mano sui fogli e l’intera opera resta incompiuta e vedrà la luce, monca, nel 1889, nel primo centenario del moto rivoluzionario francese, postuma. 

Questa cattiva sorte continua ancora oggi ad accompagnare il volume, se si pensa che anche nel mare di pubblicazioni e di libri che apparvero in occasione del Bicentenario della Rivoluzione francese, è mancata proprio quest’opera.

Oggi sulla Rivoluzione francese si è scritto e si trova di tutto: da testi ormai superati a volumi che in altri paesi sono già caduti nel dimenticatoio, da ricerche rimasticate presentate come nuove, a presunte “rivelazioni” su fatti insignificanti ed ininfluenti, da “intuizioni” spacciate come originali ad interpretazioni datate di avvenimenti e personaggi; eppure solo in qualche occasione è capitato di leggere il titolo del libro manzoniano e men che meno di sentir riecheggiare in convegni o tavole rotonde il suo contenuto e le sue tesi. Per questo non sembra esagerato affermare che, se la lacuna non fosse stata colmata solo un decennio fa dalla casa editrice “Costa & Nolan” di Genova, “il piccolo numero di lettori”, a cui si rivolse il Manzoni, sarebbe stato ancora più esiguo.

Non molti, infatti, sanno che il poeta degli Inni sacri aveva anche scritto questo saggio; solamente alcuni, poi, ne conoscono per sommi capi il succo; pochissimi, infine, hanno letto l’intero volume e tra questi sicuramente il professor Rosario Ameno ed il professor Augusto Del Noce, con i quali ne parlai nel corso di due interviste che mi rilasciarono alcuni anni fa. Entrambi convennero sull’importanza del libro e sulla necessità di farlo conoscere.

Il fatto è che al potere culturale, editoriale e politico non è mai piaciuto dover ammettere, e quindi far sapere al grande pubblico, che uno scrittore del calibro del Manzoni, studiato da tutte le ultime generazioni di studenti, amato da molti di essi, abbia potuto scrivere un’opera nella quale ha documentato e dimostrato, senza mai cadere in un ottuso reazionarismo, che la Rivoluzione francese non era affatto inevitabile; che, invece, sono stati gli uomini, certi uomini, ad inventare “l’inevitabile” (come successivamente affermò, dimostrandone mirabilmente i meccanismi e le tecniche, lo storico e sociologo francese Augustin Cochin); che Luigi XVI non era per niente un re assolutista contrario alle riforme, riforme che anzi aveva proposto alla vigilia della convocazione degli Stati Generali; che il sistema dell’Ancien Régime poteva essere reso più giusto senza provocare il male e i disastri che afflissero la Francia e l’Europa; che la rivoluzione è stata un tutt’uno di illegalità e di terrore e che non può essere suddivisa, come ha tentato di fare qualcuno in malafede, «in due tempi affatto diversi: il primo, di intenti benevoli e sapienti e di sforzi generosi; il secondo di deliri e scellerataggini»; che insomma, l’Ottantanove portò il terrore e «l’oppressione del paese, sotto nome di libertà». 

Manzoni, dunque, contro la Rivoluzione, che ha dato i natali al mondo moderno; Manzoni, come qualcuno ha scritto, contro la storia; Manzoni antirivoluzionario: è un vero e proprio scacco per la cultura ufficiale! Per questo è calata su quest’opera una vera e propria coltre di silenzio.

A questa operazione di occultamento e di rimozione dalla memoria si sono prestati anche molti cattolici. Sia quelli di orientamento liberal-democratico, che avendo da sempre tentato di giustificare e di far apparire compatibile la Rivoluzione e le sue “verità impazzite” con il messaggio evangelico, hanno operato un vero e proprio ostracismo per tutti quegli autori e quei testi che non risultassero funzionali alla strategia di “accomodamento” della dottrina della Chiesa ai valori comuni del mondo. Sia quelli di sponda controrivoluzionaria, che non hanno ancora rimosso o attenuato il vecchio, ottocentesco rancore verso le aperture liberali e le simpatie unitarie del vecchio scrittore. L’operazione, però, che è stata portata a termine intorno a quest’opera, con la congiura di un silenzio così ermetico, avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto o, quantomeno, un minimo di curiosità: invece si va avanti su questa strada e ci si priva, così di tesi e di argomentazioni che potrebbero essere utili per ristabilire finalmente la verità su di una tragedia che continua ad essere avvolta dai “miti” e dalle “leggende” fatte fiorire ad arte da storici e politici di parte.

Scritto con la maestria letteraria che tutti abbiamo avuto modo di apprezzare attraverso le opere più note, il saggio, sostenuto da una documentazione originale e rigorosa, si snoda con la forza appassionata di un romanzo, nel quale si muovono i personaggi, che furono i protagonisti della Rivoluzione, con le loro passioni, i loro pregi e i loro difetti. Anche le similitudini utilizzate dall’Autore risultano, come del resto ciascuno ha potuto sperimentare leggendo le sue opere più note, efficacissime e suggestive come quella, ad esempio, che si riferisce appunto, alla Rivoluzione e che viene ripresa dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica.

«Una rivoluzione... nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle condizioni del potere, o chi ne deve essere investito, ma sia messo in questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che s’intraprende, credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve, col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù, si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e... e a caposcala, al luogo dove si starà di casa, quando s’arriva? Quando, voglio dire, comincia uno stato di cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli casi... fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo può dire ognuno».

L’approfondita indagine psicologica, poi, delle folle e dei singoli personaggi, la colorita descrizione degli scenari ambientali e sociali, il preciso raffronto tra la Rivoluzione americana e quella francese, che non hanno nulla di analogo (come già dimostrò Edmund Bruke), i toni pacati delle argomentazioni, la difesa equilibrata dello stato monarchico e del re di Francia, la partecipazione emotiva ai singoli avvenimenti, la sua rigorosa scelta di campo contro ogni sopraffazione e ogni sopruso, sono, tra gli altri, requisiti che difficilmente si possono trovare in altri testi e che dovrebbero indurre almeno i cattolici a fare di tutto per rompere il muro di omertà e di silenzio che circonda questa “Rivoluzione” di Alessandro Manzoni. 

Nota

Cf R. Pedrizzi, Rivoluzione e dintorni. Dalle prime reazioni all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica, c. XVII: Il Manzoni “antirivoluzionario”, Editoriale Pantheon.

Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, fasc. n. 19, 14.5.2023