Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 17 marzo 2014

Il dogma della presenza reale nel Concilio di Trento

Canonicus

Sono giunto a conoscenza di recenti (quanto antichi) tentativi di diluire, tramite giri di parole vuote e riferimenti ad una "teologia dei Padri" opportunamente filtrata, il senso del dogma di Fede Cattolica nella presenza reale di Gesù Cristo nelle specie eucaristiche.
L'occasione si è presentata con l'articolo di F.Martignano Il realismo eucaristico al concilio di Trento e al concilio Vaticano II apparso su Rivista di scienze religiose (n.2/2013, Monopoli).

Innanzitutto è bene ricordare che le verità di Fede rimangono realtà non adeguate all'intelletto umano, altrimenti non vi sarebbe bisogno della virtù della Fede per crederle. Non sono realtà irrazionali, anzi se ne può parlare per mezzo di concetti. Noi però non abbiamo il diritto di imporre a Dio i nostri schemi e definire ciò che lui può fare e ciò che non può secondo il metro dell'ordinario raziocinio.
Pensiamo alla realtà della Trinità: tre Persone sono uguali, ma distinte. Il Soggetto, però, è Dio: unico. Nella mente umana però, a persona corrisponde soggetto, poiché la persona è un'entità individuale. Come anche ogni ente è uno. Dio però è in tre Persone, ma Uno. La mente umana non è adeguata a concepire una cosa di questo tipo. Infatti la realtà della Trinità si vive nella Fede ed è sorgente inesauribile di amore. E l'agape che è Dio non è propriamente qualcosa di comprensibile razionalmente e completamente, ma qualcosa che si sperimenta e si vive e soprattutto si contempla.
Dalla conoscenza di un mistero di Fede, quindi, promana l'amore.
Ma adesso veniamo all'argomento principale.


Ecco l'insegnamento del Concilio di Trento: «Non vi è infatti contraddizione tra il fatto che lo stesso nostro Salvatore sieda sempre nei cieli alla destra del Padre, secondo il modo naturale di esistere, e il fatto che, tuttavia, presente sacramentalmente in molti altri luoghi, sia [praesens] presso di noi nella sua sostanza, con quel modo di esistere che, difficile da esprimere a parole, tuttavia possiamo comprendere con la nostra mente illuminata dalla fede, come possibile a Dio e che anzi dobbiamo credere fermissimamente»[1].
Secondo me un qualunque semplice fedele non troverebbe alcuna difficoltà nel capire e assimilare la dottrina contenuta in queste parole. Mentre notiamo che alcuni teologi fanno molta fatica in questo. Questo è un cattivissimo segno.

L'elucubrazione argomenta soprattutto  a partire da una distinzione tra termini[2]. Affrontiamo sintenticamente le difficoltà legate a questa questione, che crediamo siano originate (come già S.S. Pio XI scriveva a riguardo delle cause della diffusione del modernismo) da deboli basi filosofiche. Infatti nelle nostre facoltà teologiche si insegna ormai la filosofia del Novecento (sulla scorta di Karl Rahner) e non quella di san Tommaso, come prescrive la Chiesa.
a) Reale. Non è sinonimo di "vero" e non si oppone a "immaginario" o "falso". Nel linguaggio comune è evidentemente spesso così, ma noi dobbiamo tener presente il linguaggio fortemente univoco della filosofia classica; un linguaggio tanto preciso, e dunque scientifico, che nessun'altra filosofia ha mai elaborato.
"Reale" si oppone dunque a "mentale". Un ente reale è una cosa esistente al di fuori della mente; l'ente mentale è il concetto. Il concetto non è falso o "distante" dalla realtà perché è mentale. Non dobbiamo cadere in opinioni di stampo kantiano e, in genere, moderno che tanto hanno fatto male alla cultura occidentale. Io posso avere il concetto di Gesù Cristo nella mente: ciò significa semplicemente che Gesù Cristo, in quanto reale, sussiste al di fuori della mia mente, ma grazie all'intelligenza, io posso conservare nella mia mente la nozione di Gesù Cristo appresa a partire dall'esperienza sensoriale[3].
Dire dunque che Gesù Cristo è "realmente presente" (nell'Eucaristia) significa esattamente dire che egli, come se fosse una persona che cammina, pensa, agisce, parla, ride, è lì, è presente, proprio in quelle specie. E' presente realmente e quindi non è un concetto. E' presente, cioè è una sostanza.

b) Sostanza. Non facciamoci ingannare dal pensiero moderno e dal linguaggio comune. La sostanza non è il materiale o il composto chimico di cui una cosa è fatta. L'ente reale è una sostanza, cioè è un'unità fondamentale intellegibile e di per sé sussistente in quanto conclusa nella sua natura. In altre parole: è qualcosa che posso distinguere da altro e a cui posso dare un nome, che corrisponde appunto ad un concetto ben determinato. Dire che Gesù Cristo è presente come sostanza nelle specie eucaristiche, significa dire che egli, come ente, come qualsiasi altro ente, quindi come una qualsiasi persona, è lì, Egli è quelle apparenze delle specie che noi vediamo.
Parlare, dunque, di transustanziazione significa dire che ciò che è inzialmente pane e vino diventa qualcosa che non chiamo più "pane" e "vino" (le sostanze del pane e del vino), ma esattamente qualcosa (o meglio Qualcuno) che chiamiamo "Gesù Cristo" e che non è più assolutamente il pane e il vino, nonostante ciò che appare alla vista.
Questa è una verità di Fede. Il nostro intelletto conosce attraverso l'esperienza e da lì elabora il concetto, cioè una nozione vera della realtà. Noi non possiamo ordinariamente pensare che una cosa, ad un'analisi chimica, risulti di frumento, ma non lo sia in realtà. Eppure questo avviene con la consacrazione delle specie eucaristiche durante la Messa. Che ciò piaccia o no, questo insegna il Concilio di Trento.

c) Exhistentia. E' scomponibile in "ek" e "stasis", che vogliono dire "stare fuori". Indica la realtà in quanto contigente, uscita dal nulla e perciò creata. A rigor di termini è sbagliato dire che Dio "esiste", ma bisognerebbe dire che Dio è. Ed infatti così si esprime san Tommaso nella Summa. Quanto a Cristo, il termine è proprio perché Egli è vero uomo. Il fatto che il Concilio di Trento utilizzi questo termine significa semplicemente che si sta riferendo ad un modo di "stare" particolarmente tangibile, o anche, lo stare e basta. E' normale che sia riferito allo stare di Cristo glorificato alla destra del Padre con il suo corpo vero e reale ma anche risorto e immortale. Un modo di essere "collocato", in forza della glorificazione, comunque non identico a quello di cui facciamo esperienza.
d) Praesens. L'autore oppone "presente" a "esistente". Abbiamo chiarito che il termine "esistenza" rende molto plasticamente e "sensorialmente" il fatto di essere presente corporalmente in un luogo. Ed è vero che per la Dottrina cattolica Cristo si rende presente in molteplici azioni della Chiesa, come quelle liturgiche e specialmente nei Sette Sacramenti. Ma... la Dottrina è molto chiara: Cristo vi è presente con la sua virtus: forza, potenza, evidentemente salvifica, si intende: Cristo, glorificato alla destra del Padre, opera continuamente la Redenzione nel mondo attraverso lo Spirito Santo. Nell'Eucaristia, però, Cristo è presente realmente e sostanzialmente. Il Concilio si esprime con le parole "presente con la sua sostanza". Abbiamo già detto cosa significa il termine "sostanza". E' quindi molto chiaro cosa intende il Concilio.
e) Sub specie sacramenti. La disanima dell'autore si sposta sui termini usati nella Summa theologiae. San Tommaso distingue un modo di essere di Cristo in cielo in propria specie e sugli altari sub specie sacramenti[4]. L'autore vuole con questo suffragare l'idea che Cristo sarebbe presente nell'Eucaristia "sacramentalmente" e quindi, implicitamente, come in tutti gli altri Sacramenti. Ma san Tommaso sta dicendo semplicemente ciò che abbiamo spiegato sub c) e d).
f) Celebrazione. Eccoci al perno e alla "causa scatenante" di tutto l'articolo[5]. L'autore interpreta le nozioni di cui sopra a partire da una teologia liturgica determinata, che però non mi sembra ispirarsi esattamente a quanto la Chiesa ci consegna[6]. Il Sacramento, ogni Sacramento, sarebbe, così, niente meno e niente più che una celebrazione[7]. E' vero che il Sacramento dell'Eucaristia è inserito in una celebrazione; è vero che così deve essere, perché la Liturgia Eucaristica perpetua nel tempo l'atto di adorazione di Cristo al Padre sulla terra per mezzo della Chiesa. E' tuttavia gratuito restringere il senso e il valore dell'Eucaristia al momento della Santa Messa. La Chiesa ha sempre consegnato l'Eucaristia come viatico ai malati che non potevano partecipare alla celebrazione, proprio perché potessero essere rafforzati spiritualmente dalla sua consumazione. Ha anche con il tempo incominciato a conservare l'Eucaristia in luoghi adeguati al fine di estendere il momento di adorazione ad essa al di fuori della Messa. Ma una tendenza archeologistica molto forte nella teologia attuale porta a pensare che tutto ciò che è stato introdotto dopo il IV secolo è frutto di decadimento, incrostazione ideologica, collusione tra Chiesa e Stato[8]. Questo atteggiamento porta ad una forte autoreferenzialità, a chiudersi al confronto con la Chiesa.
L'Autore termina proponendo, neanche tanto velatamente, di buttare a mare gran parte della spiritualità degli ultimi dieci secoli[9]: Egli aveva affermato precedentemente – seppur implicitamente – che l'Adorazione del Santissimo Sacramento sarebbe solo una pratica che resiste al venire meno di quella teologia che ne ha dato origine[10]. A parte concepire la teologia con ottica evoluzionistica e non organica (segno che l'autore è condizionato da un approccio discontinuista), tali cose egli crede di poter affermare, nonostante il Magistero ha continuato per tutto il XX secolo e continua ancor oggi a raccomandare l'Esposizione ed Adorazione eucaristica, possibilmente perpetua.
A questo punto il semplice fedele, che segue l'indicazione di Gesù "dai frutti riconoscete l'albero", storce il naso di fronte a manifeste distorsioni e al palesamento della volontà di far evolvere la religione a cui è stato abituato in qualcosa di più "progredito" o semplicemente più "autentico"[11].
Compito della Teologia non è cercare di elaborare complesse discussioni miranti a stabilire sofisticate (o più che altro sofistiche) distinzioni, a spaccare il capello in quattro, pensando, con questo, che la teologia vada "avanti", per poi finire per ripetere vecchi errori. Essa ha il compito di trasmettere intatta e in modo comprensibile e arricchente per tutti la Dottrina di sempre, quella degli Apostoli. Questa non va "interpretata" a partire da concezioni teologiche, ma al massimo a partire dal solo Magistero... o tutt'al più dalle riflessioni dei santi; a scanso di equivoci: quelli canonizzati, si intende...
La presenza reale di Gesù Cristo nell'Eucaristia è il frutto più ragionevole e più misteriosamente grande della logica dell'Incarnazione. Il Signore ha posto la sua tenda tra noi, ha voluto che noi potessimo entrare in comunione totale con Dio, non più apparendo con la sua gloria come faceva nella tenda del convegno o nel tempio, ma presentandosi vivo e vero sotto i veli delle specie del pane e del vino per potersi fare mangiare e diventare nostro, cosicché noi potessimo accogliere integralmente la sua divinità in noi. 
La Chiesa ha sempre creduto questo, ma perché invece alcuni cristiani sentono la necessità di sminuire la portata di questa dinamica divina? Perché non ne avvertono la conformità al disegno della sapienza divina, l'ordine e la ragionevolezza?




[1]    DH 1636
[2]    F.MARTIGNANO, Il realismo eucaristico al concilio di Trento e al concilio Vaticano II, pagg. 446-456, in «Rivista di scienze religiose», n.2/2013, Monopoli
[3]    Dunque parziale e fuorviante appare la disanima di pagg. 457-459 e la sconfessione del Magistero di Paolo VI, il quale avrebbe commesso l'errore di non essersi collocato all'interno di una dottrina definita, molto furbescamente, "misterica", con questo volendo asserire che è quella dei Padri, dunque quella cattolica, al netto delle incrostazioni successive. Paolo VI era cosciente dello slittamento semantico del termine "reale" nelle lingue correnti e perciò ha dovuto spiegare, appunto similmente a come stiamo facendo noi adesso, che un conto sono le vere manifestazioni del Signore nella persona del sacerdote o nelle azioni della Chiesa, altro è la sua presenza sostanziale nell'Eucaristia.
[4]    S. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, III, q.76, a.5, ad.1
[5]    F.MARTIGNANO, cit., pagg. 456-463
[6]    Secondo l'Autore, avremmo noi ormai abbandonato l'impostazione della L. Enciclica di S.S. Pio XII Mediator Dei, la quale «considerava la liturgia nella prospettiva religiosa del culto» (ibidem, pag. 463). Dunque per l'A. il cristiano, mediante la Sacra Liturgia, non rende culto a Dio. Se ne deriva che, sempre secondo Lui, nelle azioni liturgiche, neanche Gesù Cristo rende culto al Padre mediante la Chiesa. E cosa sarebbe l'anamnesi tanto sbandierata dall'A. se non (accanto ad altre cose) la contemplazione, adorazione, lode di Dio da parte del cristiano per i mirabilia che Egli ha operato, cioè l'unico vero atto di culto che un uomo può rendere al vero Dio rivelatosi?
[7]    ibidem, pag. 461: «è l'anamnesi che – per così dire – fa passare la passione-morte di Cristo dall'essere una realtà fisica all'essere una "realtà" misterica. Pertanto il concetto di "presenza reale" di cui parla [la Cost. Dogm.] Sacrosanctum Concilium 7 deve essere letto alla luce di questa prospettiva misterico-anamnetica [...] il mistero di Cristo è una "realtà" complessa non riducibile a categorie metafisiche, poiché la realizzazione di questa salvezza diventa efficace nell'azione rituale-anamnetica». Da notare l'uso delle virgolette quando si parla della realtà sacramentale, che vuole palesemente comunicare l'idea che si sta parlando di realtà in senso soltanto analogico.
[8]    ibidem, pag. 465: «la concezione figurale/tipologica dell'Eucaristia, propria della prima patristica». Se proprio vogliamo esaudire il desiderio dell'A. di tornare ad una concezione "propria della prima patristica", allora sarebbe meglio anche abbandonare i termini di sostanza, processione, Trinità e ritornare alle prime forme del Credo. Evidentemente l'A. non si rende conto che compito fondamentale della Teologia è proprio quello di arrivare ad elaborare concettualizzazioni e terminologie che esprimano più chiaramente il mistero e tengano così i fedeli lontani dagli errori. E' questo ciò che vuole dire il Concilio Vaticano II quando parla di una comprensione della Fede da parte della Chiesa che cresce nel tempo (cfr. Cost. Dogm. Dei Verbum, n.8).
[9]    ibidem, pag. 463: «...ci si è trovati davanti ad un rito – fors'anche sfarzoso e solenne – che appariva come una rappresentazione di qualcosa ormai irrimediabilmente lontana, come una cerimonia solenne ma solo esteriore» (citazione dell'A.). Si insinua forse che la Chiesa abbia per secoli perso la retta Fede nella Sacra Liturgia, recuperandola soltanto grazie a quei teologi che hanno (re)introdotto una prospettiva "misterica"? In ogni caso, non consta il possesso da parte nostra di esami psicanalitici fatti sui cristiani dei secoli precedenti.
[10]  ibidem, pag. 449: «La devozione dunque è sopravvissuta alle cause che l'hanno posta in essere» (citazione dell'A.).
[11]  ibidem, pag. 464. Si ritiene del tutto superato il concetto, centralissimo nella Teol. Sacramentaria cattolica, di ex opere operato, perché esso porterebbe a non valorizzare la "partecipazione attiva" (?) dei fedeli alla Sacra Liturgia. Meglio tacere di altre fuorvianti approssimazioni.

lunedì 10 marzo 2014

Requiem: Mario Palmaro

Mario Palmaro


Dopo lunga malattia, si è spento lo scorso 9 marzo a Monza, all'età di 45 anni, il giornalista e scrittore cattolico, già Docente presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma, Mario Palmaro.