Sante Messe in rito antico in Puglia

martedì 21 ottobre 2014

L’eroismo di San Tommaso Moro e la pusillanimità dei teologi politicanti

Sebbene si sia concluso da pochi giorni il Sinodo straordinario dei vescovi sul tema della famiglia, con esiti ambigui, la tematica rimane tuttora viva e degna di attenzione sotto diversi profili: non ultimo quello storico, che va adeguatamente investigato al fine di comprendere oggi che la problematica attualmente dibattuta non sarebbe così nuova e che, contrariamente alla vulgata comune, essa era ampiamente diffusa nei secoli passati, tanto che, nella Roma di epoca imperiale, raccontava lo stesso Seneca, le donne enumeravano gli anni non già col nome e con la successione dei consoli, ma con quella dei loro mariti (De Beneficiis, III, 13) e, come diceva Marziale nei suoi Epigrammi, esse si sposavano per divorziare e divorziavano per sposarsi (Epigr., IX, 79) o anche solo per evitare - come nel caso dell'avara Proculeia - che il loro patrimonio fosse dilapidato da prodighi mariti (ivi, X, 41). L'unica differenza con l'oggi è che la Chiesa, seguendo da vicino l'insegnamento del Divin Maestro e poi quello apostolico, difese strenuamente nei secoli andati la legge naturale a cui il Signore aveva richiamato i giudei del suo tempo, ai quali Dio, tramite Mosé, aveva pur permesso, con una legge divina positiva, di ripudiare le proprie mogli (Mt 19, 8; Mc 10, 4), derogando così alla legge naturale. Gesù, al contrario, intese ripristinare ciò che era in origine - provando così pure la sua Divinità e la sua qualità di Supremo Legislatore, che abrogava una precedente normativa divina positiva.
Quella legge, in deroga al diritto naturale, era stata concessa per evitare - commentano i Padri - che gli ebrei, per liberarsi delle mogli, le uccidessero.
Diversa è, invece, la prospettiva del Nuovo Testamento, nel quale il matrimonio è un sacramento e come tale esso è da usare per la propria salvezza. Esso, perciò, ha per scopo non la felicità della coppia, ma - volendosi utilizzare un'espressione cara alla sensibilità orientale - la cristificazione degli sposi, ovverosia ha una prospettiva di santificazione da cui, per sua natura, non può essere esclusa la croce, la reciproca sofferenza e la sopportazione. Tuttavia, è proprio quest'orizzonte che oggi è stato dimenticato, proponendosi agli sposi ed ai coniugi non la salvezza dell'anima, ma il conseguimento della mera felicità terrena, come si legge - tra l'altro - nella nota "relazione Kasper".
In quest'ottica materialista, da cui è assente qualsiasi riferimento a Dio ed ai valori che tradizionalmente hanno retto la teologia del matrimonio, ben si comprende come si sia proposto - quale "segno di accoglienza" - di dare la Comunione ai divorziati risposati (espressione peraltro brutta ....). Ciò, però, ha obnubilato la vera teologia sacramentale ed il senso storico della salvezza, che non può non passare attraverso la croce quale strumento e via di salvezza. Anche per gli sposi e per i coniugi. Questo la Chiesa l'ha proposto durante i secoli, ma oggi lo ha - ahimé - almeno così pare, dimenticato ...... e non lo propone più a coloro che si accostano al sacramento nuziale.

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L’eroismo di San Tommaso Moro e la pusillanimità dei teologi politicanti

Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica

di Piero Vassallo

Una delle pagine più ingloriose e ripugnanti della storia moderna fu scritta da Enrico VIII, l’eresiarca ed eversore, che fece decapitare il cancelliere Tommaso Moro, condannato da un giudice asservito al malvolere regale, perché non aveva approvato l’illecito matrimonio del sovrano con Anna Bolena, una di quelle femmine corrotte, che hanno lasciato un’incancellabile impronta nella storia del regno anglicano.
Tommaso Moro fu proclamato santo dalla Chiesa cattolica, che in lui riconobbe e ammirò l’intrepido difensore dell’ordine civile, che stava per essere capovolto e infettato dalla rivoluzione promossa da un tiranno delirante e corrotto. Oltre che su San Tommaso Moro la furia del tiranno divorzista si abbatté sul santo vescovo John Fisher, sui certosini di Londra, sui frati mendicanti nonché su alcune nobili famiglie di refrattari.
Il qualunque battezzato, fosse anche il pontefice regnante, se affronta il problema del divorzio, deve pertanto rammentare che Tommaso Moro, fedele interprete del primato della Chiesa sul potere civile, fu decapitato perché affermava – contro la furia di un cialtrone coronato – l’indissolubilità del matrimonio cattolico.
D’altra parte i cattolici (e in special modo i vescovi sinodali) dovrebbero sapere che la teologia divorzista ebbe origine nel secondo millennio, quale frutto della capitolazione della chiesa bizantina, sottomessa alle pretese degli imperatori, che in qualche modo anticipavano la politica di stampo ghibellino e ultimamente laicista e iniziatico.
Le notizie dal sinodo dei vescovi in corso, pertanto, inducono a temere che i vescovi, attualmente radunati per addolcire (alterare) le leggi cristiane, mettano in discussione la indissolubilità del matrimonio per paura del potere esercitato dai rappresentanti di un’Europa demente e fradicia ma imperiosa e ricattatoria, perché eccitata dal potere esercitato da una cosca di usurai americani, sui quali incombono, inavvertite dal clero rispettoso, la bancarotta e la riscossione cinese.
Nella fragilità spirituale dei vescoviche discettano radunati nel sinodo pavido e conformista, si intravedono gli allarmanti segnali di un ghibellinismo rigurgitato dalle peggiori profondità del Medioevo eterodosso, con il quale la Chiesa cattolica aveva chiuso autorevolmente i conti.
Secondo il cardinale Raymond Leo Burke, oltre la cortina mediatica che avvolge il sinodo in corso “emerge una tendenza preoccupante perché alcuni sostengono la possibilità di adottare una prassi che si discosta dalla verità della Fede”.
È pertanto legittimo il sospetto che i ragionamenti obliqui sulla comunione ecumenica ai divorziati siano espressione della volontà di modernizzare la Fede cattolica, cioè di metterla al passo con l’occidente estenuato dall’immoralità diffusa dai crepuscolari servitori dell’eresia.
L’insigne teologo Robert Dodaro O. S. A., al proposito afferma: “le leggi riguardanti l’indissolubilità del matrimonio, la proibizione dell’adulterio e l’accesso all’Eucarestia, sono leggi divine (cfr. Mt. 10,9; Gv. 8,11; 1 Cor. 11,28). La Chiesa non può esonerare i fedeli dal loro obbligo di obbedire alla legge di Dio. … L’ammissione di cattolici divorziati e risposati civilmente ai sacramenti della penitenza e dell’Eucarestia non solo segnerebbe un cambiamento nella pratica o disciplina sacramentale, ma introdurrebbe una fondamentale contraddizione nella dottrina cattolica sul matrimonio e quindi anche sull’Eucarestia (Cfr. Aa. Vv., Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, Siena 2014).
Purtroppo la cultura che oggi orienta il potere politico, obbedisce ad istanze anti-cristiane e anti-personalistiche, idee che obbediscono alla convinzione secondo cui la persona umana è sottoposta a un continuo mutamento.
Il filosofo John Rist definisce la morale avventizia, generata dal mito dell’inarrestabile mutare della persona umana: “se siamo degli io seriali, che si ricostruiscono gradualmente come una nave le cui parti vengono sostituite una dopo l’altra ma che nel nome e nella registrazione rimane la stessa nave, allora ha senso affermare che io non sono la stessa persona che ero quando mi sono sposato, e nemmeno mia moglie è la stessa persona, quindi perché dovremmo andare avanti, se non lo vogliamo, in quella che, in fondo, è una relazione fittizia?” (Ivi, p. 63).
Se non che l’argomento decisivo contro la falsa misericordia si trova nella storia della fermezza – si è tentati di dire sanamente guelfa - con cui il magistero cattolico ha intrattenuto i rapporti con il potere politico.
Contro la tendenza manifestata dal clero pusillanime a giustificare il divorzio mediante il ricorso a un’antropologia fondata dal fantasticare, Rist rammenta ai banditori neo-bizantini e neo-ghibellini del ritorno al presunto cristianesimo delle origini, che “i cristiani dell’antichità, vedevano qualsiasi comportamento misericordioso verso i divorziati risposati come direttamente opposto agli insegnamenti di Cristo stesso… è dunque chiaro che i cambiamenti nella pratica corrente della Chiesa cattolica non possono essere sostenuti da una testimonianza significativa dal mondo dei primi cinque secoli del cristianesimo“.
Il cardinale Walter Brandmuller, dal suo canto, rievoca la storia del lungo conflitto (860-867) tra il franco re Lotario II e Papa Niccolò I.
Il nucleo della questione, che fu dibattuta nell’ambito di diversi Sinodi , era se a Lotario fosse lecito o meno separarsi dalla sua legittima consorte, Teutberga, dalla quale non era riuscito ad avere figli, e sposare la sua precedente concubina Waldrada (o Gualdrada), dalla quale aveva avuto figli nati prima del suo matrimonio con Teutberga” (Ivi, p. 121).
Opportunamente Brandmuller rammenta che Niccolò I fu inflessibile, e nell’anno 865 scomunicò Lotario e Waldrada, anche se “Il conflitto tra potere ecclesiastico e potere politico si acuì al punto che un esercito franco arrivò perfino ad aggredire Roma e a minacciare lo stesso pontefice”. Alla fine la morte di Lotario concluse il conflitto, da cui l’ortodossia di Niccolò usci vincitrice.
La tesi cattolica sull’illiceità del divorzio fu solennemente confermata dal Concordantia discordantium canonum, un documento redatto, intorno al 1140, dall’insigne giurista Graziano (1075-1145), vissuto nei territori governati dalla fedelissima Matilde di Canossa.
Brandmuller sostiene che “su questa linea si pone la dottrina matrimoniale del Concilio di Trento. Sullo sfondo degli scandali matrimoniali di Enrico VIII d’Inghilterra e della bigamia di Filippo d’Assia consentita da Lutero, il Concilio, al canone 2, stabilisce esplicitamente: Chi afferma che ai cristiani sia consentito avere più mogli contemporaneamente e che ciò non sia vietato da nessuna legge divina, sia scomunicato.
Di seguito Brandmuller ricorda il martirio dei monaci irlandesi e bretoni, che negarono, in nome della suprema autorità ecclesiastica, la liceità del divorzio e del secondo matrimonio del loro sovrano temporale.
Per rimanere fedeli alla dottrina cattolica sul matrimonio molti fedeli affrontarono il martirio, altri sopportarono la persecuzione e l’emarginazione. Il soffio del compromesso ghibellino - cioè ossequioso nei confronti dell’errore professato dal giornalismo – tentazione strisciante in mezzo alle righe del sinodo sedicente misericordioso suggerisce al clero e ai fedeli la comoda e piatta via del compromesso. L’albero avvelenato del Vaticano II offre un nuovo frutto all’angosciante confusione che agita il mondo cattolico. Di qui l’appello a una cultura tradizionale capace di diventare coerente con l’impostazione guelfa, a suo tempo suggerita da Francisco Elias de Tejada.

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