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lunedì 11 agosto 2014

I cannoni di agosto rombano ancora

I cannoni di agosto rombano ancora

di Roberto de Mattei

(Il Foglio, 1.8.2014)

Il rombo dei cannoni di agosto che cento anni dopo riecheggia ancora nei cieli d’Europa, è in grado di offrirci qualche lezione storica?
Quando sorse l’alba del 1 gennaio 1914, l’Europa era immersa nella tranquilla opulenza della Belle époque e confidava ancora nel progresso radioso dell’umanità. Civiltà, modernità e progresso erano sinonimi. Il XX secolo si era aperto nell’ingenua presunzione di aver per sempre lasciato alle spalle i mali e gli errori che affliggono gli uomini dopo il peccato originale. Winston Churchill ricorda nelle sue Memorie che “la primavera e l’estate del 1914, in Europa, furono caratterizzate da un’eccezionale quiete” (The World Crisis (1911-1918), Macmillan, London 1943, p. 103). Chi avrebbe immaginato che l’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, a Sarajevo, avrebbe inaugurato un’epoca di morte e di distruzione su scala mondiale?
Eppure, dopo l’uccisione dell’erede al trono austro-ungarico, avvenuta il 28 giugno 1914, l’Europa precipitò, nello spazio di un mese, nell’immane catastrofe. Dal 1914 al 1918 la migliore gioventù europea si dissanguò in una lotta fratricida. Quasi nove milioni di uomini mancarono all’appello al termine di questa conflagrazione globale. Nella storia dei conflitti che hanno sempre accompagnato le vicende umane, la Prima guerra mondiale occupa un posto centrale, non solo per l’estensione planetaria, e il numero spaventoso delle vittime, ma soprattutto per la novità e l’intensità dell’odio ideologico tra i popoli che essa accumulò nelle trincee contrapposte. La sola offensiva del 16 aprile 1917, tra Soissons e Compiègne, costò centodiciassette mila morti per guadagnare cinque chilometri; trecentosessantamila furono le vittime francesi nella prima battaglia offensiva di Verdun dell’ottobre 1916. Emilio Gentile che ha dedicato un bel libro a L’Apocalisse della modernità (Oscar Mondadori, Milano 2014) afferma che “l’odio e l’orrore divennero universali durante la Grande Guerra, come forse mai era accaduto nella storia dell’umanità” (p. 18). Lo storico francese Jean de Viguerie mostra da parte sua come alla dottrina tradizionale della “guerra giusta”, per sua natura difensiva, si sostituisce, nel ‘14-18, una nuova concezione della guerra, offensiva, totale, incessante, che ha le sue radici nella Rivoluzione francese (Les deux patries. Essai historique sur l’idée de patrie en France, Dominique Martin Morin, Boère 2004). Il primo conflitto mondiale fu, in questo senso, una continuazione dell’appello alle armi lanciato l’11 luglio 1792, quando l’Assemblea nazionale dichiarò “la patria in pericolo”. E’ con la Rivoluzione francese che nasce la parola d’ordine di “annientare il nemico”, interno ed esterno, come avvenne con le “colonne infernali” che tra il 1793 e il 1794 sterminarono gli insorti della Vandea.
Nata come scontro tra grandi potenze, la Grande guerra si trasformò in un conflitto di tipo nuovo, che la rese una “guerra civile mondiale” o, come è stata anche definita, una “rivoluzione mondiale” (Lawrence Sondhaus, Prima Guerra mondiale. La Rivoluzione globale, tr. it., Einaudi, Torino 2014). Una dinamica inesorabile travolse i protagonisti del conflitto, spingendoli verso la guerra. L’attentato di Sarajevo fu solo la scintilla che fece detonare la conflagrazione, ma le ragioni profonde di questa guerra non possono essere limitate alla tensione franco-tedesca relativa al confine renano o alla competizione politica ed economica anglo-tedesca.
L’Austria, dopo l’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferdinando, pianificata a Belgrado, voleva impartire una lezione alla Serbia. Berlino promise a Vienna il suo sostegno. La Francia assicurò il suo appoggio alla presenza russa nei Balcani. Il presidente francese Poincaré era sicuro che Vienna e Berlino non avrebbero mai rischiato di sfidare l’alleanza franco-russa, alla quale riuscì ad assicurare il sostegno della Gran Bretagna, la quale a sua volta aveva condotto una trattativa segreta con la Russia in chiave antiturca. L’Austria e la Germania erano invece convinte che la guerra sarebbe rimasta localizzata e che l’Inghilterra non avesse alcun interesse a farsi trascinare in una guerra determinata da un conflitto austro-russo nei Balcani.
Nel pomeriggio di giovedì 23 luglio l’Austria consegnò al governo serbo un ultimatum che fu giudicato inaccettabile. Il 28 luglio l’Impero austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia e bombardò Belgrado. Il 30 luglio lo Zar Nicola II si lasciò strappare dai generali l’ordine di mobilitazione generale, che nell’ottica dell’epoca, equivaleva a una dichiarazione di guerra contro l’Austria. Il 31 luglio il governo tedesco inviò un ultimatum alla Russia, invitandola a fermare i preparativi bellici e un ultimatum alla Francia, chiedendole quale atteggiamento avrebbe assunto nel caso di una guerra tra Russia e Germania. Di fronte al rifiuto della Russia di arrestare la mobilitazione, la Germania le dichiarò guerra il 1 agosto. Pochi minuti prima anche la Francia aveva emanato l’ordine di mobilitazione generale. Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia e le truppe tedesche invasero il Belgio e il Lussemburgo. Il giorno successivo la Gran Bretagna entrò in guerra contro l’Impero tedesco; il 6 agosto l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Russia. L’11 e il 12 agosto la Francia e l’Inghilterra dichiararono guerra all’Austria-Ungheria. La voce dei cannoni iniziò a tuonare da un capo all’altro d’Europa.
Lo storico inglese Niall Ferguson ricorda che alla vigilia della guerra discendenti e altri parenti della regina Vittoria erano seduti sui troni non solo di Gran Bretagna e Irlanda, ma anche di Austria-Ungheria, Russia, Germania, Belgio, Romania, Grecia e Bulgaria. In Europa solo Svizzera, Francia e Portogallo erano già repubbliche. “Nonostante le rivalità imperiali della diplomazia prebellica, i rapporti personali tra gli stessi monarchi erano rimasti cordiali, persino amichevoli: la corrispondenza tra George, Willy e Nicky, testimonia il protrarsi dell’esistenza di un’élite reale cosmopolita e poliglotta con un certo senso dell’interesse comune” (La Verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna, tr. it. Corbaccio, Milano 2002, p. 559).
Uno studioso italiano, Alberto Lumbroso ha pubblicato da parte sua i Carteggi Imperiali e Reali 1870-1918 (Bompiani, Milano 1931) in cui raccoglie i telegrammi scambiati tra i sovrani europei nella “settimana tragica” con cui si chiude il luglio e si apre l’agosto del 1914. Il 29 luglio un accorato telegramma di Willy (Guglielmo II), convince Nicky (Nicola II) a rinunciare per qualche ora alla mobilitazione generale e ad ordinare una sola mobilitazione parziale contro l’Austria. Il 31 luglio, il Kaiser rivolge ancora un appello al cugino: “La pace europea può essere salvata soltanto da te, se la Russia si decide a fermare le misure militari che minacciano l’Austria-Ungheria”. Quando l’ultimo telegramma di Willy giunge a Nicky, chiedendo “una risposta immediata, affermativa, chiara e precisa” per “evitare sciagure incalcolabili”, l’ambasciatore di Germania ha già consegnato la sua dichiarazione di guerra al ministro degli Esteri russo.
L’Europa precipitò nel baratro con gioioso furore. La predicazione pacifista aveva prodotto una reazione opposta tra i giovani europei, assetati di gloria e di eroismo. Nei più recenti Stati nazionali, come la Germania e l’Italia, la guerra era vista come l’occasione di creare una nuova coscienza nazionale. Il darwinismo sociale affermava il carattere inevitabile della lotta e il modernismo cattolico vedeva in essa una forma di purificazione spirituale. Se per Benedetto XV la guerra era una “inutile strage”, per Romolo Murri, e per il suo discepolo Luigi Sturzo, fondatori della Democrazia cristiana in Italia, la guerra era una “possente purificatrice”, destinata ad elevare “il valore dei princìpi divini ed eterni di morale, di diritto, di religione” (E. Gentile, op. cit., pp. 211-212).
Negli ambienti massonici la guerra era vista come un atto di solidarietà nazionale e come uno strumento della autoredenzione dei popoli. Lo storico ungherese François Fejtő, nella sua opera capitale, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austro-ungarico (tr. it. Mondadori, Milano 1988), ha dimostrato l’esistenza di un “complotto ideologico” ordito da lobby politiche e società segrete per colpire a morte l’Austria asburgica che rappresentava l’opposizione al mondo nato dalla Rivoluzione francese.
La Grande guerra fu – secondo Fejtő – un conflitto ideologico di massa che ebbe lo scopo di “repubblicanizzare e de-cattolicizzare l’Europa” e compiere, a livello nazionale e internazionale, l’opera interrotta della Rivoluzione francese. Un capitolo del libro è dedicato al ruolo della massoneria, il cui obiettivo era quello “di estirpare dall’Europa le ultime vestigia del clericalismo e del monarchismo” (p. 320). L’Austria-Ungheria, erede del Sacro Romano Impero medioevale, rappresentava il principale ostacolo al progresso dell’umanità e allo stabilimento della “democrazia universale”. “E’ innegabile – scrive Fejtő, – che il fatto di demolire l’Austria corrispondeva alle idee dei massoni, in Francia e negli Stati Uniti, che essi erano quasi senza riserve a favore del suo smantellamento, e che la loro influenza vi ha contribuito” (p. 357).
Abbeverandosi a queste fonti ideologiche, gli uomini politici interventisti vedevano nella guerra il compimento della modernità, ossia l’ultima fase di un processo culturale che avrebbe definitivamente liberato l’Europa dagli ultimi residui dell’oscurantismo. Tipico, in questa prospettiva, fu l’operato del moravo Thomas Masaryk e del boemo Eduard Benes, promotori con gli inglesi Wickham Steed e Hugh Seton-Watson del Congresso dei popoli oppressi dell’Austria-Ungheria organizzato a Roma dal 9 all’11 aprile 1918. Per essi, come ha ben spiegato Augusto Del Noce, la democrazia radicale avrebbe trasformato la guerra in rivoluzione, inglobando il pensiero di Giuseppe Mazzini, letto in chiave illuministica e sopprimendone tutti gli aspetti religiosi e “romantici” (Introduzione a Wolf Giusti, Tramonto di una democrazia, Rusconi, Milano 1972). L’eredità del movimento hussita, interpretato come movimento nazionale e sociale, al di là del suo significato religioso, confluiva in uno schema in cui la Prima guerra mondiale era vista come una vendetta degli “sconfitti” della battaglia della Montagna Bianca (1620) che aveva segnato insieme la vittoria della Controriforma e degli Asburgo.
Un altro congresso importante, quello di tutte le massonerie alleate e neutrali, per decidere il futuro assetto delle nazioni nell’Europa del dopoguerra, si era tenuto tra il 28 e il 30 giugno 1917 presso il Grande Oriente francese di Parigi in rue Cadet. La filosofia di base era contenuta nel libro di Ernest Nys, Idées modernes, droit international et franc-maçonnerie(1908), che esponeva il disegno massonico della nuova società internazionale. Questo progetto fu realizzato dai Trattati di pace di Parigi del 1919-1920, che costituirono come osserva lo storico francese François Furet, “più che una pace europea, una rivoluzione europea” (Le Passé d’une illusion. Essai sur l’idée communiste au XXe siècle, Calmann-Lévy/Robert Laffont, Paris 1995).
Il nuovo ordine europeo e mondiale segnò non solo uno sconvolgimento geopolitico, ma soprattutto una Rivoluzione nella cultura e nella mentalità. Il presidente americano Woodrow Wilson apparve come il profeta della nuova era, in cui le nazioni libere avrebbero finalmente trovato la via del progresso, della giustizia, della pace. Egli considerava la Prima Guerra mondiale come il conflitto che avrebbe posto fine a tutte le guerre (T.S. Knock, To End All Wars: Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order, Princeton University Press, Princeton 1995).
I princìpi di legittimità e di equilibrio, sui quali si era costruita l’Europa dopo il Congresso di Vienna, furono sostituiti da quello dell’ “autodeterminazione dei popoli”. La carta postbellica dell’Europa vide l’emergere di repubbliche in Russia, Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e nei tre stati baltici, oltre che in Bielorussia, Ucraina occidentale, Georgia, Armenia e Azerbaijan (assorbite di forza nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche nel periodo dal 1919 al 1921).
L’Impero austriaco venne smantellato e rimpiazzato da un mosaico di piccoli Stati non più omogenei né meno multinazionali dell’Impero che essi avevano dissolto. Fu creata artificialmente la Ceco-Slovacchia, che manteneva una grande parte delle sue risorse in territorio tedesco, polacco e ungherese, compresa l’antica capitale ungherese, Poszsonyi (Pressburg). Essa era composta non solo dai cechi e dagli slovacchi, ma da alcuni milioni di tedeschi, che non rinunciavano ai propri diritti, da un considerevole numero di polacchi, in Slesia e da un certo numero di magiari, profondamente irredentisti. Masaryk e poi Benes ne saranno i presidenti.
Nei Balcani, il ruolo che aveva esercitato l’Austria fu affidato alla Jugoslavia, anch’essa creata ex-novo. Sarebbe stato equo, certamente, ricompensare i serbi, ma attribuire ad essi la Bosnia, l’Erzegovina, il Montenegro, una grande parte dell’Albania e gli sbocchi sul mare di cui in precedenza erano privi, significò raddoppiare il loro territorio, senza garantire l’equilibrio in quell’area.
L’Italia, d’altra parte, che era entrata in guerra soprattutto contro l’Austria-Ungheria, dopo la pace si trovò alle frontiere orientali un nuovo Stato che costituiva per essa una minaccia non minore dell’Impero asburgico. Meglio sarebbe stato allora trovare un compromesso con l’Austria per ottenere Trieste e Fiume. La delusione dell’Italia per la “vittoria mutilata” la destinava a trovare un’intesa con la Germania, mentre l’Austria non poteva che aspirare, per sopravvivere, ad una unificazione con la Germania. La strada da seguire sarebbe stata non già quella di “balcanizzare” l’Impero austriaco, ma di “debalcanizzare” i Balcani.
Allo stesso modo, la Polonia, che fin dal XII secolo aveva svolto un ruolo di primo piano nella Cristianità, avrebbe potuto divenire un bastione dell’Europa verso l’Est e, nello stesso tempo, contenere le spinte della Germania. La Conferenza di Pace indebolì invece la Polonia ad est, separando da essa la Lituania, che le era stata unita da un legame liberamente ratificato per circa cinque secoli, e riconoscendo l’indipendenza dalla Russia dell’Ucraina e della Curlandia (la futura Lettonia), mentre si concedevano ai polacchi terre prussiane, come Koeningsberg e il corridoio di Danzica, inevitabilmente destinate a costituire un casus belli con la Germania.
Ciò che le potenze di Versailles fecero per l’Austria, non lo fecero per la Germania. Avrebbero potuto smembrarla; si limitarono invece ad imporle la forma repubblicana, mantenendone l’unità. Le mutilazioni territoriali a cui fu sottoposto il Reich guglielmino (un settimo del suo territorio e un decimo della sua popolazione) lasciarono intatto il nucleo essenziale delle sue strutture politiche e sociali e dei meccanismi che ne avevano permesso l’espansione politica, militare ed economica.
La Conferenza di Parigi non solo non indebolì la Germania, ma la consolidò, distruggendo quel sistema di piccoli stati sovrani, circa una trentina di staterelli e di troni che avrebbero potuto costituire un forte elemento di resistenza al totalitarismo. Con ciò la conferenza di Parigi rese al pangermanesimo un servizio maggiore di quanto avrebbe potuto rendergli lo stesso Bismarck. Jacques Bainville lo notò immediatamente: “L’opera di Bismarck e degli Hohenzollern era rispettata in ciò che aveva di essenziale. L’unità tedesca non era solo mantenuta, ma rinforzata” (Les conséquences politiques de la paix, Godefroy de Bouillon, Paris 1996 (1920), p. 31). Non solamente gli Alleati la rispettarono – osservava lo storico francese – “ma la consacrarono con il loro sigillo, gli diedero la base giuridica internazionale che mancava ad essa dal 1871” (p. 66). L’Impero guglielmino era, nonostante tutto, una Federazione. La nuova Germania repubblicana si presentava come uno Stato centralizzato, le cui frontiere riunivano sessanta milioni di uomini umiliati dalle potenze vincitrici.
La Conferenza di Parigi unificò e consolidò la Germania, ma allo stesso tempo ne umiliò le aspirazioni, spingendola verso il riarmo ed il revanscismo. I “paragrafi ingiuriosi” del Trattato di Versailles, come l’articolo 231 che addossava interamente alla Germania e ai suoi alleati la colpa morale dell’“aggressione” dell’agosto 1914 e la richiesta della consegna dei “criminali di guerra”, a partire dall’Imperatore Guglielmo II, furono sentiti dall’opinione pubblica tedesca come un inaccettabile “diktat” e offrirono il pretesto per la costituzione di un “fronte anti-Versailles” che unì progressisti e conservatori. John Laughland ha notato come a quei Trattati risale l’“Etica della punizione” comminata in nome del “diritto umanitario” che poi caratterizzerà l’epoca contemporanea, mentre tutti i Trattati di Pace conclusi dall’inizio del XIV secolo fino a Versailles contenevano “clausole di amnistia” per gli sconfitti (Guerra totale in nome del Bene, in “Limes”, n. 5 (2014), pp. 61-66).
Lo squilibrio generato dalla pace di Versailles favorì i due “fratelli nemici” che entrarono pressoché contemporaneamente sulla scena negli anni venti: bolscevismo e fascismo. La guerra civile europea cominciò nel 1917, come sostiene Ernst Nolte o nel 1914, come ritengono altri storici? Non c’è in realtà contraddizione, perché la Rivoluzione russa fa parte della Prima guerra mondiale e non può essere separata da essa. La dinamica storica europea e mondiale, tra il 1917 e il 1945, fu determinata, come ha sottolineato Ernst Nolte, dalla grande “guerra civile europea” condotta tra il Terzo Reich e l’Unione Sovietica. Molti uomini politici europei non compresero l’affinità di fondo che legava i due sistemi ideologici, ma attribuirono al comunismo sovietico il ruolo di “avanguardia” nel processo di democratizzazione dell’umanità.
Ciò che accadde a Parigi appare come la negazione di qualsiasi forma di preveggenza politica, a meno che non si debba pensare, come molti hanno fatto, ad una scelta deliberata per impedire un’autentica pacificazione dell’Europa e facilitare l’esplosione di nuovi conflitti. Lo storico britannico Niall Ferguson lo ha ben sintetizzato: “La Prima guerra mondiale fu qualcosa di peggiore di una tragedia (…). Fu niente di meno che il più grande errore della storia moderna” (La Verità taciuta, cit., p. 587).
Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, governava la Chiesa san Pio X. Papa Sarto avvertiva la fragilità della società della Belle époque, e mentre il mondo era immerso nell’edonismo, sentiva avvicinarsi quello che chiamava “il guerrone”. La notizia dello scoppio della guerra lo turbò profondamente, proprio perché egli ne prevedeva le tragiche conseguenze. Il 2 agosto 1914 il Papa inviò a tutti i cattolici del mondo l’esortazione Dum Europa fere omnis, implorando con queste parole la cessazione del conflitto. “Mentre quasi tutta l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra, ai cui pericoli, alle cui stragi e alle cui conseguenze nessuno può pensare senza sentirsi opprimere dal dolore e dallo spavento, non possiamo non preoccuparci anche Noi e non sentirci straziare l’animo dal più acerbo dolore per la salute e per la vita di tanti cittadini e di tanti popoli, che ci stanno sommamente a cuore”.
Nelle cerimonie del Venerdì santo si pregava per la Chiesa e per l’Impero e Papa Sarto aveva una grande considerazione per l’imperatore Francesco Giuseppe. Uno dei suoi segretari confidò ad un amico austriaco che il Papa, sollecitato a intervenire a favore della pace, avrebbe risposto: “Il solo sovrano a cui potrei offrire i miei servigi è l’imperatore Francesco Giuseppe che si è sempre mostrato leale e fedele verso la Santa Sede. Ma non mi è proprio possibile intervenire su di lui, perché quella che l’Austria-Ungheria intraprende è una guerra giusta”; ed avrebbe aggiunto che la responsabilità del conflitto ricadeva interamente sulla Russia, che aveva innescato il meccanismo di alleanze della Triplice Intesa contro la Triplice Alleanza.
Lo zar Nicola I, che regnava in Russia, non immaginava che il suo trono sarebbe stato il primo a cadere nel 1917, l’anno della Rivoluzione bolscevica. Questa decapitazione dei troni fu una tappa decisiva del processo di secolarizzazione della società che era iniziato nel XVI secolo e che puntava alla distruzione della Civiltà cristiana.
Caddero quattro grandi Imperi: l’austriaco, il tedesco, il russo e l’ottomano. Ciò che essi avevano in comune non era solo l’aspirazione all’universalità che la parola Impero per sua natura evoca, ma il fondamento sacrale dell’autorità. Sulle loro rovine si affermarono i grandi totalitarismi del Novecento, che sacralizzarono l’ordine immanente della politica. Il nazionalsocialismo si sviluppò nell’area dell’Europa centrale occupata dall’Impero tedesco e da quello austro-ungarico. Il comunismo prese il potere in Russia, sostituendo un nuovo imperialismo politico all’Impero patriarcale degli Zar. Sulle ceneri dell’Impero ottomano, sostituito dalla Repubblica turca laica e secolarista, iniziarono a svilupparsi, fin dagli anni ’30, nuove ideologie islamiste, portatrici di un altro tipo di totalitarismo che, dopo la caduta del nazismo e del comunismo, costituisce oggi una nuova minaccia per l’umanità.
Il Novecento, l’epoca del totalitarismo, può essere considerato come il secolo più distruttivo e cruento dell’intera storia universale. Il secolo in cui compaiono, per la prima volta nella storia, termini come “crimini contro l’umanità” e “genocidio”.
La storica di Oxford Margaret Macmillan scrive, a conclusione del suo ampio saggio dedicato alla guerra, che “l’Europa avrebbe potuto cambiare strada, eppure nell’agosto del 1914 scelse di percorrere fino in fondo un cammino che l’avrebbe condotta all’autodistruzione” (1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, tr. it. Rizzoli, Milano 2014, p. 697). Ma il “suicidio dell’Europa” era un destino obbligato? Molti autori, come Philippe Conrad, non lo credono (1914. La guerre n’aura pas lieu, Genèse Edition, Paris 1914). All’inizio dell’estate del 1914, ciò che si impose fu lo scenario più imprevedibile e forse più evitabile. Nella storia esiste l’imponderabilee si imbocca talvolta una strada sbagliata senza esserne consapevoli.
La Prima guerra mondiale non scoppiò per caso, ma il caso la rese un destino obbligato.Il 28 giugno 1914, dopo che fallì il primo attentato, perché la bomba cadde sotto la macchina sbagliata, l’arciduca Francesco Ferdinando volle accertarsi personalmente delle condizioni della scorta ferita. L’autista però sbagliò strada e in mezzo alla folla la macchina fu costretta a fare retromarcia senza protezione. Si trovò così di fronte all’osteria nella quale Gavrilo Princip si stava ubriacando. Si può immaginare la sorpresa del cospiratore nel trovarsi a pochi metri dalla sua vittima. Scaricò la sua Browning semiautomatica, e due colpi di rivoltella bastarono a cambiare la storia del mondo a venire. Dopo un secolo non siamo ancora usciti dall’epoca della Prima guerra mondiale.

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