Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 25 giugno 2012

La musica sacra ed il canto liturgico nel Vaticano II

di don Enrico Finotti


Oggi occorre ritornare alle sorgenti autentiche della riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II. Si devono però superare molti pregiudizi, invalsi negli anni postconciliari e oggi ancora persistenti, che hanno oscurato i principi basilari sui quali l’edificio liturgico rinnovato doveva poggiare. 

Su interpretazioni riduttive si è sviluppata una pastorale liturgica mancante e difforme da ciò che il Vaticano II intendeva promuovere. Anche il settore della musica sacra è certamente segnato dai danni di una scorretta e parziale applicazione dei principi ispiratori. Per questo è necessario ritornare a rileggere le inequivocabili indicazioni della Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium. [...] 

Nell’arco degli anni post-concilari possiamo osservare che, nel campo della musica e del canto sacro, si sono delineati due fenomeni ben definiti: 

I) è stato fatto e continua ancora uno sforzo notevole di creazione di canti in lingua parlata per l’uso liturgico. I vari repertori ne sono eloquente testimonianza. Tuttavia, dopo un primo inizio di fedele applicazione secondo i criteri liturgici e in comunione con la Chiesa, si è intrapresa la via di una creatività continua, talvolta eccessiva, senza più considerazione dei principi liturgici e della necessaria verifica e approvazione dell’autorità della Chiesa. In tal modo sembra che oggi chiunque possa comporre musica e testi per la liturgia e ogni comunità e gruppo esegue un ventaglio incontrollabile di canti, che, sia per la palese inabilità del testo o della musica o della loro funzione rituale, sia per la mancanza di un esplicito riconoscimento e assunzione da parte dell’autorità della Chiesa, non possono dirsi propriamente liturgici. Così le celebrazioni subiscono una larga invasione quasi ovunque di testi e musiche di composizione privata, che non godono perciò della grazia specifica della liturgia e non possono quindi mirare pienamente al fine della Musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli (SC 112). 

Mentre l’eucologia, il lezionario e le sequenze rituali sono ancora fissate dalla Chiesa, i canti sono per lo più alla mercé di compositori, maestri di coro, gruppi o singoli fedeli committenti. In tal modo il settore del canto non soggiace più al controllo della Chiesa, né può dirsi espressione della sua preghiera, essendo ormai diventato appannaggio di un comunità o di una spiritualità sociologicamente più o meno estesa. In questo stato di cose i fedeli rischiano di non riconoscere più quali siano i canti liturgici, propri della Chiesa, ed essere, in questo settore, travolti dai gusti e dai contenuti di alcuni, di quelli cioè che volta a volta gestiscono le liturgie. Si deve pure constatare che è prevalsa la tendenza a ‘cantare nella liturgia’ anziché ‘cantare la liturgia’. Questa scelta, infatti, offre maggior libertà creativa. è evidente che a queste condizioni non può affermarsi e aver stabilità una raccolta valida di canti liturgici, comune al popolo di Dio nella sua globalità, né possono risuonare le voci dei fedeli (SC 118). Anche il repertorio nazionale diluisce nella concessione di poter ricorrere agli altri repertori, regionali, diocesani, parrocchiali, ecc. 

Su questa strada si può arrivare alla situazione dell’antica gnosi, quando si fece la scelta radicale di eliminare dalla liturgia ogni composizione umana, inficiata di concetti gnostici, e di usare soltanto il salterio, quale testo sicuro per il canto liturgico. Tale situazione – dopo una ulteriore riduzione di sequenze e tropi in eccesso all’epoca del Concilio Tridentino – è giunta fino al Vaticano II. 

II) Vi è poi un secondo versante. Nella ‘pastorale’ liturgica postconciliare si è operata di fatto una scelta di parte: si è considerato solo il canto popolare religioso (SC 118) tacendo quasi totalmente sul canto gregoriano e sulla polifonia classica (SC 116). Anche la pubblicazione del Graduale simplex, ad uso delle chiese minori (SC 117) “allo scopo di ottenere più efficacemente una partecipazione attiva di tutto il popolo nelle sacre azioni celebrate in canto” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677), - libro liturgico di nuova creazione - non ha sortito nessun significativo e stabile ricorso all’uso del canto gregoriano nelle normali assemblee parrocchiali. 

Il silenzio sul gregoriano e la polifonia classica ha privato i riti di un patrimonio liturgico, artistico e spirituale gran-dioso, ha ristretto negli effimeri confini del presente e ha tagliato le radici con la tradizione dei secoli. Le nuove generazioni si sono così trovate a realizzare il prodotto recente delle ultime ‘trovate’ e il loro orizzonte è costretto all’asfissia dell’istante mo-mentaneo e del locale. La loro stessa creatività, priva dell’ossigeno della Tradizione secolare e universale della Chiesa, ne è rattrappita e si chiude davanti a loro la possibilità di un esercizio musicale a servizio della liturgia di alto profilo artistico e di profonda spiritualità. Non può essere normale, né onorevole per la Chiesa che i giovani scoprano il gregoriano e la grande musica polifonica in ambienti profani, come in scuole e concerti, mentre il grembo originale che ha generato tale esperienza offre un livello ormai basso e sterile. La Chiesa Madre e Maestra avrebbe così perduto la sua capacita di educatrice e di guida verso le alte vette dello spirito? 

* * * 

Occorre ritornare al Concilio vero e integrale. Una normale corale di parrocchia non può assolvere il suo servizio riducendo le sue prestazioni musicali all’esecuzione della solo musica d’uso in una estenuante girandola di continue variazioni. Essa deve essere capace di proporre all’assemblea cristiana il canto gregoriano nelle sue principali espressioni, sia quello sillabico della cantillatio e dei salmi, sia quello melismatico degli inni e degli altri testi liturgici. Il novus Ordo Missae è stato riformato in totale continuità con l’Ordo precedente. Infatti rimangono inalterati nel testo e nella loro posizione rituale i canti classici dell’ordinario: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Essi quindi possono e devono poter essere riproposti secondo le modalità gregoriane e polifoniche di sempre. Nessuna parte del rito precedente è stata tolta, ma tutto coincide e questo perché nella mente della Chiesa non si doveva in nulla sacrificare il patrimonio musicale dei secoli codificato nel Graduale Romano, che deve essere tenuto “in sommo onore nella Chiesa per le sue meravigliose espressioni d’arte e di pietà” e deve conservare “integro il suo valore” (SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Graduale semplice ad uso delle chiese minori, 3 settembre 1967, in Enchiridion Vaticanum, EDB, vol. 2°, n. 1677). Il Graduale simplex poi offre possibilità più semplici - adatte ai vari tempi liturgici e alle principali solennità e feste e ai comuni dei Santi - per i canti del proprio: ingresso, salmo responsoriale, presentazione delle offerte, comunione. Non è necessario allora ricorrere alla forma precedente del Messale per ricuperare il canto sacro classico, ma esso è in piena conformità col Messale riformato dal Vaticano II. Questo fatto, nonostante i continui richiami del Magistero della Chiesa, è stato disatteso per decenni e ancor oggi con grande sospetto ci si apre a questa prospettiva. 

In questo più vasto orizzonte le Messe gregoriane e quelle polifoniche potranno debitamente continuare a impreziosire la celebrazione liturgica e, da loro formati, i nostri contemporanei potranno procedere ad una autentica creatività, che, fondata sui principi perenni della musica sacra - la santità, la bontà delle forme e l’universalità (Pio X, Motu proprio sulla musica sacra, n. 2) - potrà ancora produrre splendidi frutti e geniali espressioni religiose. La composizione equilibrata tra antico e moderno, dunque, deve ispirare la ricerca e la prassi liturgica, senza elidere alcuno dei due termini. 

Che nella Commemorazione di Tutti Fedeli Defunti (2 nov.) si esegua la Messa da requiem gregoriana nella sua completezza, oppure che in talune feste della Madonna si esegua la Missa cum jubilo e in altre occasioni la Missa de Angelis e in altre ancora si ricorra ad una valida Messa polifonica, non può costituire motivo di meraviglia e di contesa nella comunità cristiana. Se questo succede è perché l’interpretazione distorta del Concilio è diventata mentalità comune. Per le grandi composizioni polifoniche si dovrà tuttavia tener sempre presente il principio: “è da condannare come abuso gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la liturgia apparisca secondaria e quasi a servizio della musica, mentre la musica è semplicemente parte della liturgia e sua umile ancella” (Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, n. 23). Occorre perciò che il solenne principio conciliare - “La Musica sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera o favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri” (SC 112) - sia debitamente osservato. Ma siccome il testo liturgico (soprattutto nelle lingue volgari) potrebbe essere rivestito con una musica inadatta e anche banale, giustificata non in base alla sua qualità musicale, ma soltanto per il fatto che rispetta e assume in modo integro il testo previsto dalla liturgia, ecco che l’indicazione di S. Pio X ritorna sempre attuale: “Il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”(Pio X, Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, II n. 3). 

Alla luce di queste parole il canto gregoriano allora non è soltanto un corpus prezioso di canti accanto ad altri generi di musica sacra, ma, secondo la mente della Chiesa latina, ne è il referente e la base interiore che deve costituire l’anima per ogni musica autenticamente sacra e liturgica. Dobbiamo convenire che oggi nella realtà quotidiana delle nostre parrocchie non è facile impostare questo ragionamento. Tuttavia se si vuole una vera ed efficace verifica nel campo della musica liturgica si deve serenamente affrontare quello che in realtà è il pensiero ufficiale della Chiesa e il tenore dei suoi documenti.

pubblicato su ZENIT.org del 22 agosto 2011

martedì 19 giugno 2012

L’incapacità di aspettare, ovvero l’impotenza dello spirito

di Carlo Maria Barile 

E’ sempre più aberrante la frenesia della vita quotidiana, frenesia alla quale siamo sempre più piegati, della quale siamo sempre più succubi; essa molto spesso non è neanche da noi desiderata, ma costituisce un problema, le cui ricadute sono gravi e ben presenti. Non esiste più il tempo per pensare, per ragionare, per meditare: camminando si lavora, oppure si è al telefono, demandando alla sera ogni possibile riflessione interiore, puntualmente annullata dal sonno che piomba sovrano; insomma, ciò che ci hanno insegnato i Peripatetici va direttamente “a farsi friggere”. Tale interminabile corsa è viva anche nei ritmi della vita, siano essi esteriori ed estetici che interiori e fisici o etici. 

Uno dei risultati più raccapriccianti di tutto ciò, anche se apparentemente potrebbe non notarsi alcuna connessione logica, è che non si sa più nemmeno ascoltare. Spiegherò tale tesi ponendo una domanda: se noi non abbiamo più il tempo letteralmente di respirare, come possiamo pretendere che anche in musica si respiri, sia suonando che ascoltando? E’ questo uno dei motivi per cui la musica sacra è decaduta, piombando in un baratro profondo e difficile da percorrere in senso inverso: nel Canto Gregoriano, nel quale testo e suono sono impossibili da scindere, la costruzione segue la frase e la frase, guarda caso, il respiro, per altro indicato in notazione con segni grafici talmente chiari da suggerirne persino la durata. Niente di più facile di eseguire magistralmente un’antifona gregoriana e sentire commenti che stigmatizzino la lentezza o, per usare parole rudi come coloro che le pensano, la “pesantezza” di questa musica. Esiste un motivo se al giorno d’oggi non si è nemmeno più in grado di fermarsi e inginocchiarsi in una chiesa, esiste un motivo se durante la Messa squilla il telefono e si abbandona Cristo per rispondere, come se Colui che è morto in croce per salvarci fosse un qualunque signor nessuno. La vera crisi di cui oggi fin troppo si sente parlare, a volte in maniera anche banale, risiede nella scissione – probabilmente dovuta alle tecnologie non connaturate all’essere primigenio del genere umano – dei nostri due elementi fondamentali: quello fisico e quello spirituale. Un corpo che corre troppo soverchia uno spirito che ha bisogno di elaborare; un musicista che, improvvisando un brano, lascia che la velocità con cui suona superi quella con cui elabora, sbaglia; un uomo che non sa nemmeno più inginocchiarsi e spendere per la sua anima il tempo giusto da dedicare allo spirito non sa più pregare, non sa più ascoltare, non sa più vivere e probabilmente (dati i suicidi sempre più frequenti) non sa neanche più morire.

giovedì 14 giugno 2012

Innovazione e tradizione si coniugano senza rotture

Intervistato da ZENIT, il prof. Nicola Bux fa il punto sullo stato di attuazione del Motu proprio "Summorum Pontificum" a cinque anni dalla promulgazione. 

di David Taglieri 


Con il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007 il Pontefice ha liberalizzato la celebrazione della Messa tridentina secondo l'uso del Messale del Beato Giovanni XXIII. A quasi cinque anni da tale provvedimento come descriverebbe la situazione nell'urbe cattolica? 
Direi che siamo di fronte a un movimento di sicuro interesse, che si allarga pian piano, convincendo e avvicinando molti, in specie giovani, chierici e fedeli. Le vere riforme liturgiche hanno conquistato i cuori pian piano e in tal modo innovazione e tradizione si sono coniugate senza rotture. 

Intorno al Concilio Ecumenico Vaticano II, dentro e fuori la Chiesa, attualmente ferve un dibattito molto vivace. Molti ne parlano, ma pochi sembrano aver letto i testi. Il rischio è che si finisca così per perdere la consapevolezza dell'unità nella storia della Chiesa, rendendo sempre più difficile un'ermeneutica della continuità tra Chiesa pre- e Chiesa post-conciliare, come auspicato invece da tempo da Benedetto XVI. In breve, che cosa statuiva esattamente il Concilio sulla celebrazione della liturgia? 
E' tutto scritto nella prima “costituzione” – quindi un documento statutario, 'giuridico' del 1963 – che sulla scia dell'enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII, del 1947 (quindici anni prima) descrive la natura della “sacra” - ossia divina - liturgia, cioè, dal greco, opera pubblica, della Chiesa. Pertanto,nessuno, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunchè (cfr. 22 c). E' esattamente quello che non è stato osservato. 

E' vero che il Concilio raccomandava poi particolarmente lo studio e la promozione della lingua ordinaria della Chiesa, il latino, anche e soprattutto per la formazione dei giovani sacerdoti? Non era stato addirittura il Papa che volle il Concilio, il beato Giovanni XXIII, a scriverlo nella costituzione apostolica Veterum Sapientia oggi pressochè dimenticata? 
La Costituzione liturgica, sulla scia del documento giovanneo, - diremmo oggi in continuità - chiedeva anche questo. Prova ne è l'esortazione apostolica Sacramentum caritatis dopo il sinodo del 2005: rilancia il latino come lingua della Chiesa universale. Del resto, perchè dovremmo rassegnarci all'inglese? Abbiamo bisogno o no della lingua comune noi cattolici almeno nella liturgia? E non toglie certo spazio alle lingue nazionali. 

Che cosa risponderebbe a chi ancora oggi sostiene che la Messa tridentina - sia per la lingua che per i gesti, non agevolerebbe la comprensione del culto divino da parte del popolo né la sua partecipazione attiva? 
Che cos'è il 'sentire odierno' ? L'uomo per parlare a Dio deve servirsi della Sua Parola e non della propria: noi preghiamo infatti con le parole dei Salmi, vecchi di tremila anni, e della liturgia che, unita al culto del tempio e sinagogale, ne fa altrettanti. La 'partecipazione' consiste innanzitutto nel sentirsi parte del corpo mistico di Gesù, e solo secondariamente nel 'partecipare' con gesti e parole. La liturgia è mistica e non si comprenderà mai pienamente in questo mondo. Questo è anche il motivo della 'durata' della Messa nella forma straordinaria, come la chiama Benedetto XVI, che ancor prima che tridentina è gregoriana ed apostolica. La Messa in forma ordinaria, può consolidarsi davvero solo se si riscopre il legame con l'antico rito e se ne lascia arricchire, come auspica il Motu proprio Summorum Pontificum e l'Istruzione Universae Ecclesiae. 

Uno dei suoi ultimi libri, che si avvale anche di un contributo di Vittorio Messori, reca come titolo una vera e propria provocazione:Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme 2010). E' successo forse a qualcuno di sua conoscenza? con chi ce l'aveva esattamente? 
E' un titolo suggerito dall'editore, che ho accettato in ragione del “crollo” che ha conosciuto la liturgia negli ultimi decenni causando in buona parte la “crisi” della Chiesa – parole di Benedetto XVI – che invece di parlare all'uomo di Dio, ha parlato dell'uomo. Di qui la noia e l'abbandono della Messa – e della Chiesa – da parte di tanti. Si rimedia restaurando “l'affresco” liturgico dalle deformazioni al limite del sopportabile, mediante la rinascita del sacro nei cuori, come ha appena ricordato nell'Omelia del Corpus Domini Benedetto XVI. Dio ha diritto di essere adorato come egli ha stabilito (su questo aspetto in particolare, se mi permette, consiglierei il libro del cardinal Raymond Burke, 'La Danza vuota intorno al Vitello d'oro', pubblicato dall'editore Lindau di Torino, appena uscito). Se ne avvantaggerà la Chiesa e la società, che non diventerà più giusta se non riscoprirà il “giusto” culto (in greco: ortho-doxia) al Signore. 

Sono in corso i colloqui tra Santa Sede e Fraternità Sacerdotale San Pio X per ricomporre lo scisma consumato nel 1988. Secondo alcuni osservatori, la conclusione sarebbe solo questione di tempo. Lei che cosa si aspetta ? 
Solo e sempre la riconciliazione dei cristiani nella verità e nell'amore. Non ha detto Gesù: che siano uno, affinché il mondo creda? Nessuno è di troppo nella Chiesa, che è 'una e multiforme'. 

pubblicato il 12.6.2012 sul sito www.ZENIT.org

sabato 9 giugno 2012

Il Papa denuncia gli errori post-conciliari sull'Eucarestia


Un commento all'omelia tenuta dal Santo Padre nella Solennità del "Corpus Domini".

di Massimo Introvigne

Proseguendo nella sua opera di correzione di un’interpretazione erronea del Concilio Ecumenico Vaticano II secondo una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che ha letto il Concilio come ripudio di tutto il Magistero precedente, Benedetto XVI ha tratto occasione il 7 giugno 2012 dalla Solennità del Corpus Domini per pronunciare a San Giovanni in Laterano un’importante omelia sull’Eucarestia, tutta intesa a denunciare «visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato». 

Il Papa ha preso in esame in particolare due errori. Il primo è la vera e propria guerra alla pratica dell’adorazione eucaristica scatenata in nome della centralità esclusiva della celebrazione. «Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II – ha detto il Pontefice – aveva penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo». Certo, «è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione», ma questa centralità «va ricollocata nel giusto equilibrio». Altrimenti «per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro». E nel post-Concilio è successo proprio così: l’accentuazione «posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione». Ma questo «ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli» e ha provocato gravi danni. «Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come “Cuore pulsante” della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività». 

In effetti, «è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. È proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’“ambiente” spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia». Senza adorazione si rischia di capire male la stessa Messa. «Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre». 

Ricordando le grandi esperienze di adorazione eucaristica con i giovani alle Giornate Mondiali della Gioventù, Benedetto XVI ha osservato che «comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale». Chi combatte l’adorazione eucaristica finisce per sottovalutare e negare la presenza reale anche nella Messa. 

E questo ci porta al secondo errore post-conciliare che il Papa ha denunciato: la negazione della «sacralità dell’Eucaristia». Anche qui «abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura» e del Vaticano II. «La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso». Anche in questo caso, non tutto è falso nelle sottolineature degli ultimi decenni: con la venuta del Signore «è vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale». Ma attenzione: «da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo». 

La cosiddetta de-sacralizzazione dimentica che la Lettera agli Ebrei presenta Gesù Cristo come «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), «ma non dice che il sacerdozio sia finito». Cristo non ha abolito il sacerdozio e «non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio». Sbaglia quindi chi pensa che il sacro, i simboli, i riti, siano finiti con Gesù Cristo. No: «grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente!». 

Anche qui, i danni di una certa vulgata post-conciliare sono stati notevoli. Infatti, «il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe “appiattito”, e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita». E in quante città le processioni del Corpus Domini sono state abolite! 

O ancora – ha detto il Papa – «pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli». Ogni nuova generazione ha bisogno di riti e di simboli. Se le si tolgono quelli cattolici, cercherà altre esperienze religiose. Dio non ha tolto i riti, «non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso». «Con questa fede – ha concluso il Pontefice – noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo». 

tratto dal sito web ZENIT.org dell’8 giugno 2012