Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 29 luglio 2013

Defensor Civitatis: il Beato Card. Schuster e Milano

di Daniele Premoli

Al lungo episcopato (1894 – 1921) di Andrea Carlo Ferrari, di notevole importanza per la storia della Chiesa e della società ambrosiana, seguirono i due episcopati “di transizione” di Achille Ratti (poi Papa Pio XI), che resse l’Arcidiocesi per meno di un anno, e di Eugenio Tosi, il mite “cardinale della bontà”, ma dalla
salute malferma e oggetto di gravi mancanze da parte di esponenti del suo clero. (1)
In realtà, già durante l’episcopato del card. Tosi iniziò a distinguersi, all’interno della grande diocesi ambrosiana, l’esile figura dell’abate benedettino Alfredo Ildefonso Schuster, apprezzato studioso, storico e liturgista, collaboratore della Curia Romana e particolarmente apprezzato dai papi Benedetto XV e Pio XI (2) , che mai cessò di occuparsi della sua ‘carissima’ (3) Chiesa di Milano. Fu infatti papa Ratti a nominare Schuster Visitatore Apostolico del Seminario di Milano, compito che l’Abate portò a termine con fermezza, ma sempre rispettando il card. Tosi, il quale non nascondeva un certo comprensibile disagio. (4)
Alla morte del card. Tosi, fu proprio lui ad essere creato cardinale dopo e nominato Arcivescovo di Milano, consacrato personalmente dal papa (fatto insolito per l’epoca) pochi giorni dopo. La sua nomina venne ufficializzata il 26 giugno 1929, anche se da parecchio tempo le voci si rincorrevano incalzanti. «Quando mi tireranno fuori dal mio monastero, io ne uscirò piangendo e tutti vedranno che io amavo la mia vocazione»: per il monaco amante del raccoglimento e del silenzio si apriva una nuova stagione, l’ultima della sua vita, che avrebbe svolto in un periodo certamente non facile. L’8 settembre dello stesso anno, festa di Maria Nascente, il cardinale faceva il suo ingresso in una delle più grandi diocesi del mondo.

«Pax huic domui. Sia pace su questo popolo» (5)

La Diocesi nella quale il cardinale si apprestava ad iniziare il suo episcopato portava ancora indelebile l’impronta dell’azione pastorale di San Carlo Borromeo, che riguardava non solo l’organizzazione istituzionale, ma soprattutto lo spirito di fondo che ne animava le opere. Alla sua figura si ispirò, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo, il cardinal Andrea Carlo Ferrari (6). «Amò il suo popolo, animò la catechesi»: così recita l’iscrizione sulla sua urna, conservata nel Duomo di Milano: ed è una sintesi perfetta del suo ministero. A lui, infatti, si deve un forte impegno nel rilanciare l’istruzione religiosa, mediante l’attenzione alla catechesi, all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e alla formazione dei sacerdoti. Vescovo all’epoca dei grandi problemi sociali di fine Ottocento, affidò al beato Giuseppe Toniolo la cattedra di economia sociale presso il seminario; numerosi furono anche i suoi interventi pubblici in difesa degli operai. Questi due ambiti – sociale e culturale – vennero portati avanti anche dai suoi successori, Achille Ratti ed Eugenio Tosi: basti qui menzionare l’apertura della “Casa del Popolo” (più conosciuta come Opera card. Ferrari) e la nascita dell’Università Cattolica.

Il card. Schuster, dunque, nella Diocesi di Milano troverà un ambiente «mosso e articolato, ricco di iniziative e di fermenti, animato da forme di partecipazione del laicato forse inaspettate, sorretto da una tensione di confronto dialettico col mondo» . (7)
«Chi insomma esclude dalla vita dell’uomo la dimensione trascendente non può sicuramente intendere la figura del card. Schuster. Suo supremo obiettivo fu infatti quello di garantire, anche attraverso la stabilità e l’efficienza delle strutture ecclesiali, la crescita spirituale della comunità cristiana, quello di far sì che in mezzo alle traversie di un tragico presente i fedeli non perdessero di mira ciò che giova per l’acquisizione dei beni eterni. Gli aspetti più significativi quindi della sua opera non sono quelli che toccano la sfera politico-civile ma quelli intesi a confermare la fede del popolo cristiano, a suscitarne anche nelle ore più buie la speranza, a infondervi uno slancio di carità capace di una sempre rinnovata vitalità» . (8)
Nel considerare l’episcopato del card. Schuster non occorre dimenticare che egli fu innanzitutto vescovo, e in tal modo concepiva la sua missione. Giunto a Milano con la fama di essere «insigne per pietà e multiforme dottrina» (9) , grande liturgista, storico e intellettuale, il neo-cardinale dedicò tutto se stesso al ministero che il Papa gli aveva affiato: come san Carlo, si spenderà sino a consumarsi totalmente.

«Che dire della laboriosità di questo monaco pastore? Monaco significa essere un isolato. Oh, il Cardinale Arcivescovo Schuster non lo fu davvero: o lo fu a tal punto, secondo testimonianze verbali e scritte di mia conoscenza, da superare l’attività di San Carlo, l’attività esteriore dello stesso Cardinal Ferrari» (10) : così si esprimeva il Patriarca di Venezia, Angelo Roncalli, il giorno dei funerali di Schuster. Straordinariamente intensa fu la sua attività pastorale. Al cardinale Ferrari era stato mosso l’appunto di essere troppo spesso fuori sede: la necessità di riorganizzare e dirigere, dopo anni difficili, la grande Diocesi, lo portava a percorrerla in tutta la sua estensione; il cardinale Tosi, al contrario, per la sua debole salute non poté allontanarsi da Milano. Schuster volle così visitare la sua Diocesi: compì in venticinque anni ben cinque Visite Pastorali, consacrò 280 nuove chiese (la prima fu la parrocchiale di Cortenova, la domenica successiva al suo ingresso in diocesi) e oltre 170 altari. Tornato a Milano, poi, riprendeva le udienze e, nei giorni festivi, partecipava all’ufficiatura in Duomo.
Non è ovviamente possibile esporre qui con completezza un episcopato ricco di avvenimenti, ecclesiali e civili, durato ben venticinque anni (anni particolarmente significativi: sono gli anni della dittatura e della guerra, della Liberazione e del dopoguerra, del referendum e delle elezioni del 1948); è tuttavia mia intenzione cercare di delineare almeno le linee di fondo e i rapporti che il cardinale ebbe con la sua città e con i milanesi.

«Ergo nihil Operi Dei praeponatur»

Lungo tutti gli anni del suo episcopato e sino a pochi giorni prima della sua morte, ogni fedele poteva vedere il suo Arcivescovo in Duomo, dove il cardinale partecipava alla Messa Capitolare di ogni domenica e di ogni festa. Era un compito a lui particolarmente caro, cui per nessuna ragione, neppure per malattia o freddo, si sottraeva. Per partecipare alle funzioni, interrompeva qualsiasi lavoro, e persino le Visite Pastorali erano programmate in modo da potervi essere sempre presente. Attraverso la sua presenza, intendeva anche aumentare il numero di coloro che avrebbero partecipato alle celebrazioni: ed ottenne l’effetto sperato: quando si seppe che l’Arcivescovo scendeva in Duomo tutte le domeniche, la folla che assisteva alle Messe andò crescendo.
Amava il decoro delle celebrazioni liturgiche. Quando riteneva che la recita della salmodia fosse troppo affrettata e poco curata, dal suo scranno faceva segno di rallentare. Affermò mons. Pini, da lui nominato maestro di coro:
«Non saprei quante volte mi abbia mandato i maestri delle cerimonie ad avvertirmi di rallentare, di fare attenzione alle pause e di mantenere una tonalità unica! […] Ogni qualvolta una voce ben nota prolungava le ultime sillabe dei versetti delle ore canoniche, sorrideva, sorrideva! Compresi quanto fosse attenta e vigilante la sua partecipazione al coro e il perché dei suoi sorrisi nelle finali di taluni versetti. […] La salmodia era in lui vita vissuta, amata, fatta amare: il gusto trasfondeva e rivelava il raccoglimento interiore del suo spirito» . (11)
La sua figura ed il suo raccoglimento impressionarono anche taluni protestanti.
Quando i bombardamenti del 1943 obbligarono alla chiusura della Cattedrale, l’Ufficiatura domenicale venne spostata alla vicina chiesa di San Bernardino alle Ossa, dove il cardinale si recava con alcuni canonici. All’Arcivescovo si stringeva il cuore quando, entrando in Duomo, lo vedeva deserto e muto «quasi una cosa che ormai non abbia più scopo» (12) , e decise quindi di incaricare le Benedettine di Viboldone di supplire all’interrotta ufficiatura del Capitolo.

Per Schuster, così come per i Milanesi, Milano (inteso come «quel complesso di bontà, di fede, di generosità, di vitalità, di opere cattoliche che caratterizza d’innanzi a tutto il mondo la Chiesa di sant’Ambrogio») (13) è anche sinonimo del Rito Ambrosiano. Fu così che l’autore del monumentale Liber Sacramentorum, divenuto Arcivescovo di Milano si dedicò allo studio e alla promozione di quello che era divenuto non soltanto “il Rito Ambrosiano”, ma “il nostro Rito” . (14)
Al rito della Chiesa di Milano è collegato anche un canto tutto proprio, cui il cardinale iniziò subito ad applicarsi:
«Pochi giorni dopo che aveva fatto il suo ingresso ebbi in mano un foglio scritto di suo pugno su cui era in notazione ambrosiana e moderna per esteso il canto dell’orazione “Deus qui nobis”, che si canta alla benedizione del Santissimo, e che sta a testimoniare come si era preparato anche perché il canto ambrosiano fosse da lui eseguito bene» . (15)
Nel corso delle visite pastorali ebbe modo di accorgersi con dispiacere della scomparsa del canto ambrosiano. Non si limitò a esortare i suoi preti a istruirsi e ad istruire i fedeli, ma decise di «imitare in Milano, all’ombra del Duomo, quanto colla benedizione di Pio X già da tanto tempo fiorisce nell’Urbe e rende lieti frutti per tutto l’Orbe Cattolico. Sì, Noi vagheggiamo una vera e propria Scuola Ecclesiastica Superiore di canto Ambrosiano e di Musica liturgica» . (16)
Il 12 marzo 1931, a pochi mesi dal suo ingresso come Arcivescovo, il card. Schuster istituì così la “Scuola Superiore di canto ambrosiano e di musica sacra”, giuridicamente riconosciuta dalla Santa Sede come “Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra” dieci anni dopo, e tuttora esistente ed attivo. Essa venne affidata alle cure dei monaci di Solesmes, eredi del grande dom Prosper Gueranger, i quali indicarono al cardinale il priore di Montserrat, padre Gregorio Suñol. È a lui che si devono le edizioni scientifiche del Preconio Pasquale (1934), dell’Antifonale (1935) e del Vesperale Ambrosiano (1939).

«Veritatem facere in caritate»

Dopo il servizio di Dio, la vita del cardinal Schuster venne spesa per il popolo lui affidato. Egli non si “limitò” ad incoraggiare e sostenere le associazioni già esistenti o fondate durante il suo episcopato (per citarne solo alcune: le Conferenze di S. Vincenzo, le Dame di Carità, il Piccolo Cottolengo, la Pro Juventute e la Nostra Famiglia), ma si spese in prima persona per cercare di alleviare le sofferenze di quegli anni difficili.
Non risulta facile conoscere le famiglie aiutate direttamente dal cardinal Schuster, anche perché lui stesso non voleva che si conservassero annotazioni sul denaro che privatamente entrava e usciva, né che si dessero notizie in merito all’assistenza, perché – diceva lui stesso - «il povero non deve essere umiliato con la pubblicità». Egli stesso, poi, si recava personalmente per chiedere tessuti e alimenti da distribuire ai poveri che spesso, ricevuti durante le visite pastorali, non riuscivano nemmeno a giungere a Milano: già lungo la strada venivano distribuiti alle parrocchie che sapeva bisognose. Dell’assistenza alla popolazione si fecero carico particolarmente la Charitas Ambrosiana, che iniziò la sua attività nel 1943, e l’Opera del “Pane di San Galdino” la cui gestione, a fronte dell’impossibilità di continuare ad essere condotta dalle Dame di S. Vincenzo, nel 1944 venne assunta dal cardinale. Fu sempre a Schuster che, il 19 ottobre 1944, si rivolse la Santa Sede per il rifornimento di abiti per gli italiani internati in Germania.
È qui impossibile tracciare un bilancio dell’attività svolta dalla diocesi ambrosiana, ovviamente sotto le indicazioni e la protezione del card. Schuster, per ottenere la liberazione dal carcere di detenuti politici, per aiutarli ad evadere o a sfuggire alle rappresaglie nazifasciste, per assistere i deportati e gli ebrei.

A quanti, dopo il 25 aprile, chiedevano cosa avesse fatto la Chiesa Cattolica, il card. Schuster così rispondeva:
«Osserviamo però subito che non riteniamo punto necessario di dare una risposta, che il popolo già conosce. La Chiesa durante questi anni ha continuato a predicare con fervore il Santo Vangelo, soffrendo per questo persecuzioni, violenze e carcerazioni. Ne è prova la lunga lista di sacerdoti e di suore usciti di prigione, di ecclesiastici ammoniti, di giornali cattolici sequestrati, diffidati e sospesi non so quante volte […]
Mentre subivamo tutte queste cose, noi intanto provvedevamo a raccogliere e dispensare ai sinistrati ed ai poveri dei sussidi in danaro, in generi alimentari, in indumenti che, a fare oggi il conto esatto di ciò che dai cattolici è stato distribuito in questo quinquennio, ne verrebbe fuori la bella cifra d’oltre cinquanta milioni se non più!
Popolo di Lombardia! Se i fatti valgono assai più delle parole, ora giudica tu stesso e deciditi: di fronte a migliaia di parole e di vane promesse, ti vedi d’innanzi una cifra colossale di beneficenza presso una sorgente inesauribile di carità. Tale sorgente, sappilo, sgorga dal cuore stesso del Verbo Incarnato e trafitto per noi sulla Croce» . (17)
Da osservare che tali precisazioni venivano solo come risposte ad accuse di assenteismo rivolte alla Chiesa o alla stessa persona dell’Arcivescovo; accuse tuttavia estranee all’opinione pubblica, che anzi ringraziò pubblicamente il cardinal Schuster (esemplari i riconoscimenti del Rettore dell’Università Statale (18) e della Comunità Israelitica ). (19)

L’attività di assistenza continuò anche nell’immediato dopoguerra. Anzitutto nei confronti dei reduci e dei profughi, per i quali il cardinale promosse la raccolta di generi aiuti da inviare al confine. Fu così che l’Arcivescovado si trasformò in ufficio di assistenza per i rimpatriati e gli indigenti di ogni condizione; portici, sale, cortili divennero magazzini di generi alimentari, di medicinali, di vestiario . (20)
Lo stesso cardinal Schuster testimoniava che
«le scale dell'Arcivescovado da mattino a sera sono ingombre di persone cariche di sacchi, balle e casse di generi commestibili, vini prelibati, liquori, vesti, scarpe ecc. da destinarsi ai nostri ex prigionieri in Germania» . (21)
Il segretario del cardinale, don Ecclesio Terraneo, testimoniò che in Arcivescovado arrivò anche un camion pieno di grano, ma sul quale svettava la bandiera rossa dei comunisti. «Noi dell’Arcivescovo ci fidiamo», risposero al cardinale stupito.
L’ufficio prima destinato ai familiari dei prigionieri di guerra, ora assisteva i rimpatriati che fino a sera tarda giungevano per chiedere aiuto, consigli, indirizzi.
Anche le opere assistenziali degli Alleati fecero capo all’Arcivescovo, che certamente esercitava un fascino incredibile sui capi e sulle stesse truppe, in gran parte formate da protestanti. Gli venne così affidata l’organizzazione della distribuzione degli aiuti americani, suscitando meraviglia in molti.

Il maggior problema che nel dopoguerra tormentava i sopravvissuti era la mancanza di una casa: dopo quattro anni, migliaia di famiglie erano ancora costrette a coabitare, o a cercare riparo in abbaini o cantinati. Di fronte a questa situazione, il 1° gennaio 1949, il cardinal Schuster rivolse ai fedeli della diocesi un vigoroso appello, affinché «quanti possono disporre del superfluo, banchieri, industriali, finanzieri milanesi e della Diocesi» finanziassero la costruzione di case «semplici, ma accoglienti e robuste» per quanti ne erano privi. Egli, che anche da Arcivescovo era povero e tale voleva rimanere – tanto che la sua povertà del cardinale divenne proverbiale – destinò a tale progetto, che volle intitolato a S. Ambrogio e sotto la protezione di S. Benedetto, il proprio anello episcopale. Il 21 marzo venne posta la prima pietra di due edifici iniziali; nella periferia di Milano, la “Domus Ambrosiana” realizzò tre quartieri di 13 fabbricati, dove trovarono alloggio, ad affitti simbolici, 239 famiglie. Ovviamente, non bastava dare alla popolazione una casa: fu così che nel 1950, riprendendo un’iniziativa avviata prima della guerra, lanciò un appello per dotare la periferia di Milano delle necessarie chiese parrocchiali con i luoghi (oratori, biblioteche, centri di assistenza…) annessi.
Numerosi furono poi quanti trovarono lavoro grazie all’intermediazione della segreteria del cardinale, che da mattina a sera accoglieva persone di ogni condizione per dare un’indicazione.

Molti altri sarebbero gli argomenti da affrontare per delineare la figura del card. Schuster, riguardo al suo indelebile rapporto con quella che fu la sua Sede. Per ragioni di spazio, non è possibile qui delinearli con esaustività.
Come sintesi di questo percorso, non è possibile non ricordare la grande folla che accompagnò la salma del suo Arcivescovo nell’ultimo tragitto, da Venegono (dove il card. Schuster morì, il 30 agosto 1954), a Milano, dove tuttora riposa. Concludo con le parole dello stesso Schuster, da lui dettate per le celebrazioni in occasione del XXV anniversario di ordinazione episcopale: festeggiamenti che non ebbe occasione di vedere in questa terra.
«A Dio Ottimo, Massimo / che in questo venticinquennio di Episcopato / traducendomi incolume attraverso le dittature, / i bombardamenti e gli incendi di Milano, / le occupazioni straniere, la catastrofe nazionale / e poi finalmente le lotte di liberazione e la / restaurazione della repubblica Italiana, / mi ha fatto passare per il fuoco e per la tempesta, / e per quindi ricondurmi sulla riva della sua salvezza, siano grazie di tanti benefici, / primo dei quali la devota fedeltà del gregge, / al tribolato Pastore» (22)






  1.   A. RIMOLDI, La visita apostolica dell’abate Ildefonso Schuster ai seminari milanesi (1926-1928), in AA.VV., Il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. Avvio allo studio, NED, Milano 1979, p. 147.
  2.   «Il nuovo Papa, estraneo all’ambiente di Curia, non tardò anche egli a notare quella dimessa persona che celava tanta forza ed energia. Prese a stimarlo moltissimo e a servirsene, forse ancor più del suo Predecessore, affidandogli incarichi sempre più delicati e gravi che, se finirono col portarlo molto in alto, furono pure per lui alle volte fonte di viva sofferenza». T. LECCISOTTI, Il cardinale Schuster, I, Milano 1969, p. 205.
  3.   AAS 21 (1929), p. 458.
  4.   «Delicata al massimo la sua posizione, nei riguardi del cardinale Tosi, verso cui usò ogni riguardo. Giunse anche a prospettargli che la scelta del S. Padre fatta nella sua persona, era dovuta alla considerazione che un umile monaco, a preferenza di più alti prelati o di vescovi, avrebbe avuto maggiore deferenza per l’Arcivescovo di Milano». Schuster si recava a Milano almeno due o tre volte al mese; sino a quando, messo a conoscenza del disagio provato dal card. Tosi (che in una occasione si sarebbe lasciato sfuggire un: «È ancora qui sto santo uomo!»), ridusse la sua presenza. Indicativo della situazione milanese sembra essere il fatto che Schuster «voleva vedere tutto e non si fidava di quello che gli facevano vedere, ma andava improvvisamente di propria iniziativa a far visita nelle scuole, in cucina etc». T. LECCISOTTI, op.cit., I, p. 213-215.
  5.   A. I. SCHUSTER, Omelia per l’ingresso nella Diocesi di Milano, 8 settembre 1929, citata in T. LECCISOTTI, op.cit., I, p. 254.
  6.   Di lui scriverà Schuster: «Quando il card. Ferrari fu in visita ad Alzate, per devozione verso il suo grande predecessore, volle indossare la veste di San Carlo. Siccome però questa gli strusciava per terra, così la dovette subito deporre, osservando graziosamente: San Carlo era più alto di me! Se io mi fossi trovato presente alla scena, avrei soggiunto: di poco! Infatti il card. Ferrari fu l’Arcivescovo di Milano che più d’ogni altro emulò lo zelo e le fatiche apostoliche di San Carlo». A. I. SCHUSTER, Odoporicon 1939. Note di visita pastorale, I, Milano 1940, p. 118.
  7.   G. RUMI, Vertice e base in terra ambrosiana, in G. RUMI - A. MAJO, Il cardinal Schuster e il suo tempo, NED, Milano 1979, p. 25.
  8.   A. MAJO, Gli anni difficili dell’episcopato del card. A. I. Schuster, NED, Milano1978, p. 10.
  9.   La definizione è di Pio XI. AAS 21 (1929), p. 458
  10.   A. G. RONCALLI, Orazione funebre, in Scritti del Card. A. Ildefonso Schuster, La Scuola Cattolica, Venegono Inferiore, 1959, p. 20.
  11.   Cit. in T. LECCISOTTI, op.cit., I, p. 493.
  12.   A. MAJO – BENEDETTINE DI VIBOLDONE (a cura di), Schuster e le Benedettine del monastero di Viboldone. Lettere 1941-1954, Milano 1994, p. 25.
  13.   A. I. SCHUSTER, Rivista Diocesana Milanese, XXIII (1932), p. 194.
  14.   Il cardinale Ildefonso Schuster: cenni biografici, Abbazia di Viboldone, 1954, p. 63
  15.   Testimonianza di mons. Pini, cit. in T. LECCISOTTI, op.cit., I, p. 486.
  16.   A. I. SCHUSTER, Rivista Diocesana Milanese, XXI (1930), p. 316.
  17.   A. I. SCHUSTER, Rivista Diocesana Milanese, XXXIV (1945), p. 91ss.
  18.   A. I. SCHUSTER, Gli ultimi tempi di un regime, Daverio, Milano 1960, p. 173.
  19.   Ibid., p. 174.
  20.    A. MAJO, L’attività caritativa e assistenziale, in G. RUMI - A. MAJO, Il cardinal Schuster e il suo tempo, cit., p. 91.
  21.   Rivista Diocesana Milanese, XXXIV (1945), p. 100.
  22.   RDM, XLIII (1954), p. 316.

domenica 21 luglio 2013

Considerazioni sulla "forma Chiesa"

Arch. Angelo La Notte


L’occasione è data dagli interventi, su quotidiani e riviste, nelle ultime settimane del Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, in merito alla produzione di arte e architettura sacra che và dagli inizi degli anni novanta ai nostri giorni, voluto dall’allora Cardinale Vicario Camillo Ruini attraverso la campagna battezzata “50 NUOVE CHIESE NELLE PERIFIERIE ROMANE”.
Raccolte nel volume “CHIESE DELLA PERIFERIA ROMANA” edito da Electa, curato da Monsignor Liberio Andreatta, Direttore dell’Opera Romana per la Preservazione delle Nuove Chiese, e dagli architetti Marco Petreschi, docente della Facoltà di Architettura di Valle Giulia, e Nilda Valentin.

Il Prof. Paolucci si pone due domande:
“Quando un edificio destinato al culto è “giusto”?
Quando cioè lo possiamo definire allo stesso tempo bello, funzionale e simbolicamente efficace?
Da queste domande scaturisce la risposta: “UN EDIFICIO DESTINATO AL CULTO SI PUO’ DIRE
RIUSCITO E DIVENTARE PERCIO’ UN’OPERA D’ARTE QUANDO LA CULTURA DELL’EPOCA CHE LO HA VOLUTO SI IDENTIFICA CON LE FORME ARCHITETTONICHE E ARTISTICHE TIPICHE DI QUEL CULTO, QUANDO NE SOSTANZIA E NE SOSTIENE, SIGNIFICANDOLI E TRASFIGURANDOLI, I SENTIMENTI, LE IDEE E LA DOTTRINA”.
Tornando alle opere contenute nel testo ci troviamo di fronte a edifici che a volte toccano punte di grande pregevolezza come la chiesa di “Dio Padre Misericordioso” dell’architetto Meier, mentre il più delle volte, a mio parere, sono strutture perfettamente anonime, che si “amalgamano” con il contesto, tutte “mancano però della “FORMA CHIESA”.

Situazione che ha radici antiche riportandoci al Discorso agli Artisti, tenutosi nella Cappella Sistina il 7 Maggio 1964, da Papa Paolo VI, che cercando di elaborare e proporre una dottrina estetica, non fa altro che porre le basi per una “interpretazione” dell’arte e dell’architettura sacra che sempre più va secolarizzandosi, quando lo stesso Papa dichiara: “…L’arte sacra si affranca così da ogni vincolo puramente formale al passato che più non la sovrasta, che più non le intima l’irritazione ammirata…Il compito dell’arte sacra è esprimere l’ineffabile, allora il peso della tradizione e delle convinzioni va rimosso come inutile ingombro ed è aperta la strada alle potenzialità espressive del fare artistico contemporaneo…”.
Posizione questa che ha nell’interpretazione degli scritti, quando questi si prestano a letture che ne danno un valore di libero arbitrio, che ritroviamo in quella “ideologia postconciliare” che il Cardinale Giacomo Biffi evidenzia nel suo saggio teologico intitolato “La bella, la bestia e il cavaliere” (1984), l’autore denuncia quella operazione che attraverso un processo di “distillazione fraudolenta”, immediatamente posta in atto all’indomani dell’assise ecumenica, arriva a sostenere che la vera dottrina del Concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i Padri fossero stati più illuminanti, più coraggiosi, più coerenti.

Posizione razionalista che ha portato a dimenticare, bollandoli come concetti tradizionalisti quei passi, che nella storia secolare, hanno portato alla definizione delle cattedrali in tutta Europa, che rispondono ad una nuova coscienza che l’uomo ha di sé, ad una dimensione della realtà profondamente ancorata alla vita ed alle sue esigenze dove anima e corpo, visibile ed invisibile, materiale ed immateriale, sacro e profano, convivono.
Le cattedrali con la loro presenza nella città hanno rappresentato una precisa intenzionalità di chi ci abita, opere di uomini che vivono con altri uomini.
Necessità degli uomini di identificarsi comunemente e dare una struttura alla liturgia, definendo un luogo dove ospitarla.
Mentre oggi agli edifici sacri viene dato il compito, di riqualificare una periferia il più delle volte pianificata con il solo scopo della cementificazione incondizionata e selvaggia, che si pone il problema della socializzazione dei residenti marginalmente, relegandolo a spazi a volte abbandonati all’incuria, in cui si è cercato di calare strutture architettoniche che se pur pregevoli, perché questo deve essere riconosciuto alla Chiesa che della bellezza ne è custode secolare, mancano ormai di quella essenza che fa dichiarare al Prof. Paolucci “manca la forma della chiesa”.
Ci auguriamo che la “commissione per la tutela estetica delle nuove chiese”, promessa dal Cardinale Vallini, possa giungere a dare se non delle precise regole almeno ad individuare quelli edifici che del sacro non hanno traccia. 


BIBLIOGRAFIA:
- JOSEPH RATZINGER, Introduzione allo spirito della Liturgia, San Paolo 2001
- N.BUX,Come andare a Messa e non perdere la fede,Piemme,Milano 2010.
- R.L.BURKE-N.BUX-R.COPPOLA, La Danza vuota intorno al Vitello d'Oro. Liturgie secolarizzate e diritto, Lindau, Torino 2012.
- D.NIGRO, I diritti di Dio. La liturgia dopo il Vaticano II, Sugarco, Milano  2012. 
- N.BUX,La riforma di Benedetto XVI,Piemme,Milano 2008- II ed.2009.
- W.BRANDMUELLER-A.MARCHETTO.N.BUX, Le “chiavi” di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II, Cantagalli 2012.
- U.M.LANG, "Il latino vincolo di unità tra popoli e culture",Osservatore Romano, 15 novembre 2007.   
- A.DE MEO,Fonti dell'arte sacra occidentale(on line)
- M.DE MEO, Osservazioni alle Norme Cei per l'adeguamento degli edifici di culto(on line)
- N.BUX-E.MAZZA-E.GARZILLO, Liturgia Romana e Arte Sacra tra innovazione e tradizione. Il caso della Cattedrale di Reggio Emilia. Opinioni. 2011. 
- V.SGARBI, L'ombra del divino nell'arte contemporanea, Cantagalli 2012.
- Aa.Vv.,L'Arte,la Bellezza e il Magistero della Chiesa,Atti del Convegno di Cosenza, 14 Novembre 2008, ed.Verbo Incarnato & ed.Settecolori,Segni-LameziaT. 2013.
Articoli di Liturgia,Musica e Arte Sacra, nella Rubrica mensile “Mondo del Sacro” diretta da N.Bux sul Timone.

domenica 7 luglio 2013

2007 - 2012: sei anni del "Summorum Pontificum"

Oggi ricorre il sesto anniversario della promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum. Vogliamo tenere viva l’attenzione sull’importanza epocale di questo documento, riportando per intero l’articolo pubblicato il 16 novembre 2012 sul numero 1287 de Il Venerdì di Repubblica, a pagina 37. E ci fa piacere farlo per i toni di approvazione con cui l’articolista, Filippo Di Giacomo, ne parla… ben conoscendo gli orientamenti ideologici della sua testata giornalistica, alquanto critica verso la Chiesa di Roma.


LA MESSA È IN LATINO: 
L’APERTURA DEL PAPA SPIAZZA I LEFEVRIANI


di Filippo Di Giacomo
(tratto da Il Venerdì di Repubblica del 16 novembre 2012, n. 1287, p. 37)

Tanto tuonò, ma non piovve. Quando Benedetto XVI promulgò il motu proprio Summorum Pontificum, si sperò che il torto potesse essere corretto. Il documento infatti, permetteva ai fedeli desiderosi di celebrare la vita liturgica secondo la forma «extra ordinaria», cioè quella secolare in uso prima delle riforme, di essere sciolti dall’obbligo di un’autorizzazione preventiva da parte dei propri vescovi. Nella Chiesa, si celebrano liturgie eucaristiche variamente acculturate e tradotte in lingue di ogni continente, dunque non si capiva perché solo a coloro che chiedevano di celebrarla in latino, con gli stilemi liturgici dell’Occidente cristiano, dovessero essere inflitte restrizioni non attuate per nessun altro «esperimento liturgico».

Per chi prima di giudicarlo l’ha anche letto, il motu proprio Summorum Pontificum risulta un documento chiaramente ispirato al pluralismo del Concilio Vaticano II, caratteristica non sempre attribuibile a diversi documenti dell’era wojtylana. Il documento papale porta la data del 7 luglio 2007, ma in Francia, nel numero del 5 luglio dello stesso anno, quindi in anticipo sulla pubblicazione del testo pontificio, Témoignoge Chrétien, il più vivace settimanale europeo di informazione religiosa, pubblicava nella lingua di Cicerone (e senza errori, mentre ai latinisti di curia era sfuggito un «conditiones» al posto di «condiciones») un manifesto di «resistenza» contro la decisione di Benedetto XVI.

I motivi? Il rito della tradizione cattolica presupporrebbe uno sguardo negativo verso il mondo non cattolico, basato sul convincimento che la Chiesa sia l’unica detentrice della verità; il biritualismo permesso da papa Ratzinger segnerebbe la vittoria dei tradizionalisti e la sconfitta dei conciliaristi. I primi sarebbero presto in condizione di imporre le nomine episcopali; anzi, e peggio, «episcopos Galliae cras regent», domani governeranno l’episcopato francese. In realtà, ciò che dopo cinque anni appare chiaro è un fatto certo: Benedetto XVI ha tolto di mano ai lefevriani l’esclusiva della messa tridentina presentata volentieri come celebrazione identitaria. L’editorialista di Témoignage Chrétien concludeva il suo scritto dicendo: «Juvet fortuna omnes qui repugnabunt», buona fortuna a chi vorrà resistere. L’iniziativa ha causato ai fedeli che hanno fatto ricorso alle disposizioni papali una quantità di ingiurie e pessime accoglienze in diverse diocesi. Tuttavia il 3 novembre [2012], con una messa celebrata in San Pietro, hanno concluso una tre giorni romana fatta di pellegrinaggi e preghiere.
Qualche giorno prima, il 29 ottobre, dalle fila dei lefevriani è stato espulso il vescovo negazionista Richard Williamson: un calcio che val bene una messa, anche se in latino.




venerdì 5 luglio 2013

Don Bux, il messale latino non sarà ostacolato

fonte: Vatican Insider

Il liturgista in un'intervista afferma che il Papa non andrà contro la celebrazione tradizionalista

La Messa in rito romano antico secondo il Messale del 1962 precedente alla riforma del Concilio Vaticano II continuerà ad essere celebrata senza alcuna limitazione da parte di Papa Francesco. Lo afferma il teologo e liturgista don Nicola Bux in un' intervista al «Roma».

«Il movimento in favore della liturgia tradizionale continuerà sicuramente - afferma il Consultore della Congregazione per il Culto Divino - perché il succedersi dei Pontefici non infrange la continuità della tradizione e chi succede ad un predecessore non `inventa´ di nuovo la Chiesa. Talvolta si crede che il Papa, nel suo ufficio debba fare prevalere la sua sensibilità, ma questo sarebbe molto grave. È evidente che ogni Pontefice ha un proprio temperamento ed una propria storia, però non sono questi a dover prevalere, ma sempre il bene della Chiesa. Il Papa è un ministro, ma non ne è il padrone, come ha ribadito anche l' attuale Pontefice». 

Quanto all'atteggiamento verso il Motu Proprio «Summorum Pontificum» dell'attuale Papa quando era Vescovo di Buenos Aires, per don Bux il cardinale Bergoglio «non ha ostacolato l' applicazione del Motu Proprio»

L' interesse per la liturgia tradizionale - secondo don Bux - si lega alla nuova evangelizzazione. «Nel momento attuale di grave crisi della fede una liturgia mistica dignitosamente celebrata può aiutare molto le persone in ricerca a trovare Dio. Nella storia grandi convertiti sono stati colpiti dalla Grazia assistendo a riti solenni e ascoltando canti straordinario».

martedì 2 luglio 2013

29 giugno: la Messa di don Bux a Napoli

29 giugno 2013
Solennità dei Santi
Pietro e Paolo
Chiesa di San Ferdinando
- Napoli -




Sabato 29 giugno si è tenuta a Napoli la riunione dei Coetus Fidelium dell'Italia Meridionale. A conclusione dell'incontro, i convenuti si sono ritrovati presso la chiesa di San Ferdinando dove don Nicola Bux ha celebrato la Santa Messa.