Sante Messe in rito antico in Puglia

sabato 21 marzo 2015

Un testo su cui riflettere all'approssimarsi della Settimana più Santa dell'Anno liturgico

Il testo che pubblichiamo non è di un sacerdote che ha fama di “tradizionalista”. Si tratta di uno scritto risalente al 2002, ben cinque anni prima, dunque, del m.p. di Benedetto XVI Summorum pontificum. L'autore, Domenico Pezzini, è un personaggio, anche alquanto discusso, à la page e, se vogliamo, gradito e vicino all'ambiente radical-chic o, meglio, potremmo dire affine, con una terminologia molto di moda oggigiorno, all'ambiente "esistenzialmente periferico". Noto per le sue traduzioni di sant'Aelredo di Riveaux e per essere un esperto di letteratura inglese, con collaborazioni con Oxford nonché, secondo la vulgata della stampa, per essere stato docente alla Cattolica. A lui farebbe capo il gruppo di omo-credenti denominato “La fonte”. Scrisse persino su “Il Regno” per difendere l’opera di p. Nuget e di una suora a favore degli omosessuali quando questi ultimi due furono condannati dalla Congregazione per la dottrina della fede, presieduta, all’epoca, dal card. Ratzinger. Proprio per questo appare più credibile ai nostri occhi, non potendo essere tacciato di "conservatorismo" o di vicinanza alla Tradizione. 
Si tratta di uno scritto da cui traspare una certa nostalgia, un certo inappagamento per i riti liturgici della Settimana Santa così come generati dalla c.d. riforma liturgica; riti nei quali vi è stata un’«alluvione di parole» ed un «prosciugamento dei segni», con inevitabile perdita di sentimenti, emozioni, gioie e paure, che il rito tradizionale, al contrario, comportava nei fedeli. Per questo, tale testo – assai lontano dalla nostra sensibilità, che è sensibilità genuinamente cattolica – ci porta a soffermarci su ciò che rappresentavano i riti della Settimana Santa, che la c.d. riforma liturgica ha impoverito, inaridito e svuotato della sua ricchezza significativa.

Tra l’angoscia del Getsemani e la gloria della risurrezione

Equilibri difficili: teologia e sentimenti

Una delle conquiste più evidenti della riforma liturgica avviata dal concilio Vaticano II è stata il ricupero della centralità della Pasqua nella vita di fede. Ricordo che il problema era, al tempo, quello di equilibrare una liturgia che sembrava troppo focalizzata sul dolore e sulla passione, ridando peso alla gloria della risurrezione e alla gioia conseguente. La spiritualità chiamata «affettiva», che era andata formandosi a partire dai secoli XII-XIII soprattutto in ambito cistercense prima e francescano poi, aveva portato un forte accento sull’umanità di Gesù, mettendo al centro della devozione i due momenti emotivamente più intensi della sua vita: la nascita e la morte in croce, questa ancora più di quella, con Maria protagonista, accanto a Gesù, in ambedue. Da lì si sviluppò una spiritualità della passione che caratterizzò il medioevo, e lasciò la sua impronta anche nelle epoche successive fino ai giorni nostri, se è vero che il Natale e il Venerdì santo sono ancora le due ricorrenze liturgiche più sentite. Da questa spiritualità, abbondantemente presente anche nella letteratura mistica, soprattutto femminile, sono nate tradizioni e riti popolari come il presepio, la Via Crucis e la processione con il Cristo morto, devozioni come quella alle Cinque Piaghe, al Sacro Cuore e alla Madonna Addolorata. L’accento posto sul dolore ha peraltro contribuito a costruire una spiritualità della compassione, la stessa che stava al centro di tante adorazioni al Santissimo Sacramento, con riferimento privilegiato e costante all’icona di Gesù agonizzante nell’orto degli Ulivi.
Tutto questo è sembrato a un certo punto una degenerazione eccessiva, che fomentava una devozione unilaterale e squilibrata. È dal Concilio in poi che la frase «mistero pasquale» è diventata corrente, con l’intento esplicito di non separare il Venerdì santo dalla Pasqua, è da lì che si è inventata la quindicesima stazione della Via Crucis con la risurrezione messa come traguardo, e che si è cominciato a rappresentare crocifissi che sembrano balzare dalla croce verso l’alto con l’energia e la vitalità del risorto. Era, ed è, un problema di equilibrio, ma il problema non è nato ieri e neanche l’abbiamo risolto noi. Basterebbe seguire l’evoluzione dell’iconografia del crocifisso per vedere come la percezione del senso di quella morte sia un continuo mutare: dal Cristo regale dell’alto medioevo si passa al Cristo che riposa nella morte con ai lati Maria e Giovanni dei secoli XII e XIII, poi a quello, dominante nell’ultimo medioevo, che si contorce nel dolore attorniato da una folla indifferente, e ancora al Cristo che, isolato in una solitudine totale, lancia verso il cielo uno sguardo angosciato tipico del tempo della Controriforma, e altro ancora.
Il ricupero di un equilibrio è certo cosa buona, ma come per le persone, così anche per la teologia, e la liturgia che la esprime, tal equilibrio è sempre a rischio: non è mai perfettamente raggiunto e, in certo senso, è continuamente da rifare. Oggi, anche a partire da delusioni sempre più frequenti e dichiarate circa certi esiti della riforma liturgica, qualcuno sta accorgendosi che nella foga e nell’entusiasmo della purificazione postconciliare forse abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. Da questo punto di vista la liturgia della Settimana santa è probabilmente il luogo più emblematico per evidenziare i problemi, proprio perché vi si celebrano eventi che sono insieme di denso contenuto emotivo e di profondo significato teologico, due aspetti della questione che invece di integrarsi rischiano di contrapporsi e di disintegrarsi. Il problema non è per niente teorico, e la storia della pietà cristiana è lì a dimostrarne l’intrinseca difficoltà.
Davvero? Per vedere come niente è mai solo positivo o solo negativo facciamo un passo indietro. Quando la liturgia era in latino, la gente vi partecipava certamente in forza di un precetto, ma non era questa la sola ragione, e non è neanche detto che non ne ricavasse niente, anzi. E questo proprio perché il muro costituito dal latino aveva di fatto stimolato la creazione di segni che fossero comprensibili per sé, che trasmettessero un messaggio senza che ci fosse bisogno di passare per la mediazione della parola. Tali erano, per esempio, il diverso colore dei paramenti, inventato per segnalare i diversi sentimenti che accompagnano lo svolgersi dell’anno liturgico, l’elevazione dell’ostia e del calice dopo la consacrazione per suscitare un atto di fede nella presenza divina, la velatura delle immagini durante la Quaresima a indicare un atteggiamento penitenziale, e altro ancora, cose che non avevano certo la finezza e l’articolazione delle spiegazioni verbali, ma che non erano meno importanti, in quanto erano dei metamessaggi che trasmettevano in modo globale e visibile un’idea, e suggerivano la risposta emotiva corrispondente. Ho l’impressione che una delle ricadute non felici della riforma liturgica sia stata l’alluvione di parole e il prosciugamento dei segni.

Parole e segni

La liturgia è da sempre una sintesi non scontata di parole e di segni. Venendo noi da una cultura che privilegia la parola, nell’illuministica convinzione che essa sia il migliore (a volte sembra di capire l’unico) strumento di comunicazione, si è arrivati a pensare che l’ostacolo maggiore alla comprensione del linguaggio liturgico fosse il latino. Così, con la traduzione della liturgia in italiano, che pure è stata una grandissima conquista su cui non si ritorna, si è forse stati indotti a ritenere che il problema della partecipazione attiva dei fedeli era, se non del tutto, almeno in gran parte, risolto. Sullo sfondo, l’illusione che la parola spiegasse a sufficienza, e che una chiarezza di parole provocasse automaticamente quella celebrazione cosciente e intelligente senza la quale non si dà liturgia, se non come inerte e passiva esecuzione del copione. 

Getsemani: nel fondo della solitudine

Della Settimana santa io ho ricordi molto vivi di quando ero piccolo e non conoscevo il latino. Andando con tanta altra gente la sera del Mercoledì, Giovedì e Venerdì santo a quello che era allora chiamato il «mattutino delle tenebre», si assisteva a un rito affascinante che mi è rimasto impresso. Sull’altare stava un triangolo con dodici candele, sei per sei, sui due lati, e un cero più grande in cima: corrispondevano, ci veniva detto, ai dodici apostoli e a Gesù. I preti cantavano i Salmi in latino, nascosti nel buio del coro. A ogni fine di Salmo si spegneva una candela, a segnalare il progressivo abbandono degli apostoli; alla fine, l’ultima candela rimasta accesa, quella che rappresentava Gesù, era tolta e portata dietro l’altare, a significare l’arresto del Signore e la sua temporanea scomparsa. Non capivamo il latino dei Salmi, ma il segno era trasparente nel suo significato, e il messaggio aveva una rilevanza estrema. Forse c’era qualche risonanza nel mio temperamento, ma è da allora, credo, che l’aspetto che mi colpisce di più del Triduo pasquale è questa esperienza tragica di un Gesù solo e abbandonato, l’uomo che dice nel cuore della notte: «Restate qui con me a vegliare» a quegli stessi che al declinare del giorno gli diranno, per bocca dei due di Emmaus: «Rimani con noi, Signore, perché si fa sera».
Tra il Gesù del Getsemani, che ha un disperato bisogno di compagnia, e il Gesù della strada per Emmaus che, risorto, si offre come compagno di cammino, si svolge la storia della Passione e della Pasqua. Si faccia pure tutta la «teologia del mistero pasquale» che si vuole, ma si ricordi che alla fine la fede si gioca sui sentimenti e sulle emozioni, sulle paure e sulle gioie, e che, tra queste, la paura della solitudine e la gioia della compagnia sono forse le più forti.

Fonte: D. PEZZINI, Il tempo redento. Incursioni nell’anno liturgico, ed. Àncora, Milano 2002, pp. 29-33

Nessun commento:

Posta un commento