Sante Messe in rito antico in Puglia

venerdì 31 marzo 2017

A un anno dall'Amoris Laetitia FARE CHIAREZZA - Convegno, Roma, 22 aprile 2017 presso l'Hotel Columbus


Cfr. Riccardo Cascioli, Testimoni da tutto il mondo con una richiesta: “Fare chiarezza” subito sull’Amoris Laetitia, in LNBQ, 1.4.2017

"Fare chiarezza", il convegno della NBQ su Amoris Laetitia, ivi, 3.4.2017

Marco Tosatti, Domani a Roma laici di tutto il mondo discutono sull’Amoris Laetitia, in Stilum Curiae, 21.4.2017.

lunedì 27 marzo 2017

La voce di san Giovanni Damasceno contro l’iconoclastia

Nella festa tradizionale di S. Giovanni Damasceno, rilancio questo contributo di Cristina Siccardi.

La voce di san Giovanni Damasceno contro l’iconoclastia

di Cristina Siccardi


Il più importante difensore della figurazione cristiana è il Padre e Dottore della Chiesa san Giovanni Damasceno (ricordato nel calendario Vetus Ordo al 27 marzo e al 4 dicembre in quello nuovo). I suoi scritti sono da rinfrescare per controbattere la dominante neoiconoclastia delle chiese dissacranti di oggi, costruite su progetti di architetti atei a cui si rivolgono impunemente le committenze ecclesiastiche.
Il monaco Giovanni, chiamato Damasceno dalla sua città natale, Damasco, in Siria, fu l’autore di tre fondamentali Discorsi apologetici contro coloro che calunniavano le sante immagini. Nacque verso il 650 da una famiglia prestigiosa in un Paese conquistato da poco dai musulmani; suo padre, Sergio, ricopriva la carica di sovrintendente dell’amministrazione fiscale, riguardante i sudditi cristiani. Giovanni collaborò in quella mansione e probabilmente succedette al padre, fino a quando gli islamici iniziarono una più pesante politica anticristiana. Entrò allora nel monastero di San Saba, presso Gerusalemme, intorno al 700, dove rimase per circa 50 anni, fino alla morte, dedicandosi alle pratiche monastiche, alla predicazione e alla composizione di molte opere, dedicate a più discipline: filosofia, teologia, apologetica, polemica dottrinale, esegesi biblica, agiografia, encomiastica, omiletica, poesia religiosa. La sua opera più poderosa risulta essere La fonte della conoscenza, facente parte di un corpus di studi con il quale egli si presenta come il primo grande teologo sistematico, non solo del mondo greco-bizantino, ma di tutta la cristianità.
Gli iconoclasti lo vilipesero e lo condannarono anche dopo la sua scomparsa, ma i Padri del II Concilio di Nicea nel 787 lo inclusero ripetutamente fra gli eroici campioni della Fede. La lotta iconoclasta si sviluppò a fasi alterne e sotto alcuni imperatori, a cominciare da Leone III, salito al trono di Costantinopoli nel 717. Furono due donne (nella Chiesa non è mai esistito antagonismo fra uomini e donne, a dispetto del pensiero femminista penetrato nelle maglie teologiche rivoluzionarie, sia protestanti che cattoliche) ad imporre il ritorno al culto delle immagini, prima l’Imperatrice Irene, vedova di Leone IV, reggente per il figlio minorenne, poi l’Imperatrice Teodora, vedova di Teofilo, restauratrice delle immagini sacre proprio nel 787. Venne così ristabilito il culto delle immagini, che fu ufficialmente annunciato nell’843. Per celebrare l’avvenimento fu tenuta la «festa dell’Ortodossia» e da allora la Chiesa greca la ripete ogni anno nella prima domenica di Quaresima per rimarcare con gaudio la vittoria sull’eresia iconoclastica, con la quale si smascherarono i nemici di Cristo e della sua Chiesa.
Anche oggi esiste l’eresia aniconica, che priva la Chiesa della sua peculiare mansione catechetica attraverso le immagini. Chiese vuote, gelide, senz’anima, senza Fede vengono edificate non più per dare gloria a Nostro Signore, ma per glorificare architetti ed artisti che si autocelebrano con le loro opere. La Sainte-Chapelle di Parigi venne innalzata da un collegio di architetti e di artisti anonimi perché, nel Medioevo, non si cercava la propria fama, ma si offriva un servizio a Dio e alla Chiesa per la verità, il bene e la bellezza, alle quali potevano attingere le anime.
Paul Claudel si covertì nel 1886 entrando in Notre-Dame de Paris e ascoltando ilMagnificat durante la Santa Messa di Natale. Chi mai oggi potrebbe convertirsi entrando in una chiesa delle archistar Fuksas, Piano, Botta… mentre vengono strimpellati canti dissacranti? Nella Chiesa ecumenica e mondana, infatti, non c’è spazio per le conversioni, ma per gli inchini alle religioni aniconiche: ebraica, islamica, protestante.
San Giovanni Damasceno sentì, ad un cero punto, l’impellente necessità di parlare, di denunciare, di chiarire:
«Se io considerassi la mia indegnità di cui sono profondamente consapevole, io dovrei mantenere sempre il silenzio, rivolgendo costantemente a Dio la confessione dei miei peccati. Ma, mentre ogni cosa è giusta nel proprio tempo [cfr Qo, 3, 1], dall’altra parte io vedo che la Chiesa, costruita da Dio sul fondamento degli apostoli e profeti essendone la pieta angolare Cristo suo Figlio [cfr Ef 2, 20], è sbattuta da una tempesta del mare, ed è turbata e sconvolta dalla pesantissima furia degli spiriti malvagi. È strappata la tunica di Cristo che i figli degli empi osano dividersi [cfr Gv 19, 23] e fra opposte dottrine è lacerato il corpo di lui, cioè il popolo di Dio e la tradizione della Chiesa da antico tempo fiorente. Ho pensato che non fosse giusto tacere e porre un nodo alla mia lingua, temendo appunto la minacciosa sentenza che afferma: Se si tirerà indietro, l’anima mia non si compiacerà di lui e se vedrai venire la spada e non avvertirai il tuo fratello, a te chiederò il suo sangue (Ez 33, 6-8). […] Infatti, io ho dato ascolto a Davide, padre di Dio, che dice: Parlerò dinanzi ai re e non ne arrossirò [Sal 119 (118), 46] e da questo come un pungolo sempre di più sono spinto a parlare» (Difesa delle immagini sacre, Città Nuova Editrice, Roma 1983, pp. 29-30).
Parole redivive per la neoiconoclastia che sempre più mostra, con l’andar del tempo, il suo rugoso, deturpato e perverso volto, un volto annoiato e annoiante, che allontana ogni giorno di più i fedeli dalle chiese e non solo da quelle moderne, interpreti della cosiddetta architettura brutalista, ma anche da quelle antiche e bellissime, dove le barbare clave iconoclaste hanno fatto spazio agli adeguamenti liturgici, sia architettonici, che pittorici, che scultorei, che musicali… perché le rivoluzioni invecchiano e necessitano autorivoluzioni per sopravvivere nella loro tragica evoluzione, a differenza della sempre giovane Tradizione, mantenuta tale grazie ai principi eterni, sempre nuovi, sempre freschi, sempre divinamente attraenti e incantevoli, innestati nelle armonie e nelle sinfonie di volumi e forme e colori e suoni ispirati da Dio a degne maestranze che si pongono al servizio del culto Suo.

“Neque solum contra Iconómachos orthodóxam fidem deféndit; sed omnes ferme hæréticos, præsértim Acéphalos, Monothelítas, Theopaschítas strénue impugnávit. Ecclésiæ jura potestatémque egrégie vindicávit. Primátum Príncipis Apostolórum disertíssimis verbis asséruit; ipsúmque ecclesiárum cólumen, infráctam petram, orbis terrárum magístrum et moderatórem sæpius nóminat. Univérsa autem ejus scripta non modo eruditióne et doctrína præstant, sed étiam quemdam ingénuæ pietátis sensum prǽferunt, præcípue cum Genitrícis Dei laudes prǽdicat, quam singulári cultu et amóre prosequebátur” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI JOANNIS DAMASCENI, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

Questa festa fu introdotta nella liturgia romana nel 1890 e coincide con quel primo periodo del pontificato di Leone XIII in cui la questione dell’Oriente gli fu particolarmente cara. Se gli sforzi del Papa non ebbero tutto il successo che egli poteva sperare, questo non fu certo errore di zelo da parte della Chiesa cattolica, che allora, come oggi d’altronde, apre le sue braccia materne per accogliere i figli diseredati d’Oriente, indeboliti da uno scisma quasi millenario ed avviliti inoltre dalla loro servitù sotto la Mezzaluna.
Sebbene la messa sia stata composta con grande attenzione e rivela tuttavia il suo carattere moderno con delle reminiscenze storiche accentuate.
Ciò che ha dovuto colpire il redattore della Messa è l’episodio, molto incerto, del braccio tagliato al santo ed il suo contributo dato in difesa delle immagini dei santi.
Il ruolo eminente rivestito da Giovanni Damasceno nella storia dalla teologia cattolica, la sua influenza sulla formazione dello stesso sistema scolastico, e soprattutto il fatto che egli chiuse, presso i greci, l’età patristica al punto che tutte le generazioni bizantine che seguirono dopo lui non furono più capaci di portare alcun rilevante contributo all’edificio teologico, del resto così ammirevole, da lui innalzato, tutto ciò non sembra avere influito sullo spirito del redattore della Messa di questo giorno.
Il secondo Concilio di Nicea, nel 787, tessé i più grandi elogi a questo monaco gerosolimitano della laura di Mar Sabbas, e l’esaltò come il più valoroso campione dell’ortodossia contro gli errori degli Iconoclasti. Lo si chiamava comunemente Χρυσορρόας, Chrysorrhoas, e già nell’813 Teofane attesta che Giovanni portava questo titolo onorifico per la sua grazia spirituale, risplendente come l’oro, che sboccia nella sua dottrina e nella sua vita.
I Greci celebrano la sua festa il 4 dicembre, ma il nome del Chrysorrhoas di San Saba ricorre molto spesso in testa ai loro inni liturgici poiché le splendide composizioni di san Giovanni Damasceno giunsero sino al punto di far dimenticare quelle di Romano il Melode, pur esse magnifiche.
La lettura del libro della Sapienza (Sap. 10, 10-17) rivela una scelta molto felice. Questo testo parla di Giuseppe e di Mosè e della convinzione che Dio non li abbandonò nella prigione e nell’esilio, ma li colmò di una tale sapienza che si resero terribili persino ai re. Tale passo ben si applica oggi a san Giovanni Damasceno, che ebbe molto a soffrire delle calunnie degli eretici ai tempi di Costantino V Copronimo, figlio di Leone III l’Isaurico. Questo sovrano cambiò per derisione il nome arabo di Giovanni, Mansur, in quello di Mánzêros, che significa «bastardo». Il conciliabolo iconosclasta riunito a Costantinopoli nel 754 riversò il suo furore contro il Santo maledicendolo con una quadruplice maledizione ed anatemizzandolo, così come il patriarca Germano di Costantinopoli ed un certo Giorgio di Cipro: la Trinità stermini questa triade (cfr. Conciliabulum Constantinopolitanum, in J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum. Nova et amplissima collectio, vol. XII, Florentiæ 1766, col. 575 ss.).
Il Graduale rievoca con insistenza il ricordo del braccio tagliato al quale l’Introito faceva già allusione.
Al braccio tagliato a san Giovanni è ugualmente ispirato il brano evangelico in cui si racconta la guarigione di un uomo dalla mano inaridita (Lc 6, 6-11). Simbolicamente questo miracolo significa l’impotenza delle sole forze naturali per fare il bene e la necessità della grazia divina. Così è condannata l’eresia pelagiana che pretendeva che la natura umana decaduta può arrivare da se stessa alla via soprannaturale della grazia e, nell’altro mondo, alla gloria. – Non io, dichiarava l’Apostolo, ma la grazia divina ha operato in me.
Nell’antifona sulle offerte ritorna il pensiero al braccio amputato e miracolosamente restituito a san Giovanni, con l’immagine dell’albero tagliato che riacquista il suo vigore ed i suoi rami gemmati più abbondantemente.
La secreta vuole introdurre in maniera un po’ forzata il ricordo dell’opera di Giovanni nella controversa sulle immagini: ne risulta una composizione un po’ affettata, sebbene lo stile non sia del tutto privo di eleganza.
Il ricordo del braccio tagliato torna nell’antifona di Comunione. È bene qui menzionare un bel pensiero di san Giovanni Chrysorrhoas sull’indipendenza della Chiesa dinanzi al potere civile che, all’epoca, come oggi in Oriente, esercitava l’autorità sulle chiese dette autocefale: Ad imperatores spectat recta reipublicae administratio: Ecclesiae regimen, ad pastores et doctores. Ejusmodi invasio latrocinium est, fratres. Cum Samuelis pallium scidisset Saul, quid ei contigit? Regnum ipsius abscidit Deus (San Giovanni Damasceno, Oratio II, Adversus eos qui Sacras Imagines abjiciunt, in PG 96, col. 1295D).
Il Cristianesimo non condanna la scienza, ma l’orgoglio, perché questo impedisce l’accesso alla verità. I sapienti sono molto utili alla Chiesa, soprattutto quando uniscono alla dottrina un’eminente santità di vita, poiché così non soltanto essi possono camminare sui sentieri della vita, ma col loro esempio edificante possono attrarre un gran numero di anime. Il santo monaco della laura di San Saba a Gerusalemme, sulla terra, non occupò alcun posto sublime né fu vescovo né capo. E pertanto, poiché amò la verità e la predicò con animo invincibile, meritò il titolo di vero Chrysorrhoas, ultimo dottore della Chiesa d’Oriente, fiamma che dové risplendere solo nella triste notte dello scisma che già all’epoca si profilava.



Ambito veneto, S. Giovanni Damasceno, 1688, Padova

Ambito veneto, Visione di S. Giovanni Damasceno, 1698, Padova

Giovanni Gasparro, S. Giovanni Damasceno e la SS. Vergine Tricherusa, 2015, collezione privata

Giovanni Gasparro, Studio per la testa di S. Giovanni Damasceno, 2015, collezione privata

Ciò che combatte un vero soldato in un aforisma di G. K. Chesterton


domenica 26 marzo 2017

Un aforisma di papa Innocenzo III nella Dominica IV in Quadragesima “Lætare” sive “de Rosa”


La liturgia c.d. tradizionale ed i gruppi Summorum Pontificum. Il senso di una presenza

Testo dell’intervento tenuto a Brindisi presso l’hotel Virgilio, giovedì 9 marzo 2017 dal dott. Antonio Alò, moderatore della sezione Liturgia della Scuola Ecclesia Mater.

La liturgia c.d. tradizionale ed i gruppi Summorum Pontificum. Il senso di una presenza

di Antonio Alò

La Scuola Ecclesia Mater è una realtà regionale e nasce dalla volontà dell’ecclesiologo e compianto p. Garuti, del canonista p. Jaeger e del teologo don Nicola Bux, per dare visibilità e attuazione alle scelte di Benedetto XVI in campo liturgico.
Mi permetterete di dire che chi aderisce alla Scuola Ecclesia Mater non è seguace dei fondatori, come qualcuno può pensare, ma vuole essere cooperatore della Verità, per la cui diffusione non disdegna il dialogo, ma anzi lo cerca: ad intra e ad extra della Chiesa.
Ad intra: soprattutto con chi non comprende le ragioni del Motu proprio Summorum Pontificum cura di Benedetto XVI; ad extra: con chi, pur non essendo cattolico, è affascinato dal linguaggio del bello della Chiesa.
Il Beato Schuster scriveva: «Spesso nelle chiese, infatti assistono dei protestanti, degli ebrei, delle persone senza alcuna religione. L’esperienza dimostra che un coro ben eseguito, delle funzioni celebrate con ordine, con maestà e con devota pompa possono fare su quelle anime una profonda impressione».
Contrariamente a quanto scriveva Schuster, le nostre liturgie appaiono stanche a causa del sovente abusato minimalismo e, allo stesso tempo, della ricerca di effetti speciali.
Ed ecco che la Scuola Ecclesia Mater, operando all’interno del coordinamento delle Puglie per l’applicazione del Summorum Pontificum e cooperando a livello nazionale ed internazionale con molti altri gruppi di persone mossi dalle stesse intenzioni, vuole promuovere, con competenza, la liturgia, la musica sacra e l’arte sacra.
Essa nasce dall’incontro, apparentemente casuale, di persone, che non conoscendosi prima, portavano -e portano!- in cuor loro gli stessi sentimenti di amore e venerazione per la Liturgia, per la Chiesa, per il Papa; ed in egual misura avvertivano -e avvertono!- un senso di disagio dinnanzi a liturgie mal celebrate; liturgie dove viene proprio difficile trovare il Sacro, il Sensum fidei! Liturgie dove è venuta completamente meno quella devozione che tanto ha alimentato le anime di coloro che oggi chiamiamo Santi. Ma guai a tirare in ballo la parola devozione. Subito si vien tacciati di devozionismo! Noi, però, per devozione intendiamo quell’amore trascendente verso Dio e le sue cose e che a mio parere non può essere negativo!
Vi racconto un episodio.
Chi è di Monopoli conosce la devozione del popolo verso i Ss. Medici, e sa con quale affluenza vengono festeggiati dalla pietà popolare. Un giovane sacerdote, guardando la processione, rimase impressionato negativamente per la presenza eccessiva di popolo e contestava l’uso delle donne di essere scalze.
Non è questo l’essenziale, ripeté più volte.
È vero, pensai. Ma gli chiesi: che male produce alle anime andare alla processione? e quale male produce alle anime di quelle donne scalze?
Non ricordo se rispose.
Però ricordo come lo stesso sacerdote elogiava lo zelo dei musulmani che pregano scalzi!
Senza considerare che il cerimoniale dei vescovi del 1984, prevede che il vescovo possa recarsi scalzo all’adorazione della croce che si compie nella liturgia del Venerdì santo: «Il Signore ordinò a Mosè: togliti i calzari perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Esodo 3, 5).
Mosè, al quale Dio ha scelto di rivelarsi direttamente, ha dovuto togliere i calzari per potersi avvicinare.
E noi, nelle liturgie che frequentiamo (luogo dove andiamo per incontrare Dio!) ci spogliamo dei nostri “calzari”? Ci poniamo, cioè, in atteggiamento di umiltà? in obbedienza alle norme liturgiche? Ci spogliamo del nostro io davanti alla maestà di Dio?
Essendo venuto meno il significato di culto a Dio, è difficile rispondere a queste domande; infatti nelle nostre parrocchie si assiste a liturgie che celebrano non il Mistero ma il gruppo stesso che in quel momento sta “animando” la Messa. E dunque: a quell’ora c’è la messa dei bambini, a quell’altra ora c’è la messa dei carismatici, a quell’altra ora quella dei focolarini, dei neocatecumenali, (ovviamente non rientra nel ventaglio di possibilità la S. Messa tradizionale!), ecc.: ogni movimento nella Chiesa vuole una liturgia fatta a misura propria. Poi, ci sono le commissioni liturgiche che a tavolino scelgono e decidono i canti da eseguirsi, o cosa presentare all’offertorio: come se non bastasse il rito della Messa già approvato dalla Chiesa -e che bisognerebbe seguire fedelmente quando si celebra, così come richiamato più volte da gli ultimi papi- in cui c’è già scritto cosa bisogna cantare e quali i riti da compiersi, e quali gli atteggiamenti del corpo che bisogna adottare.
Si! assistiamo a liturgie costruite, inventate a piacere e gusti nostri!
Questo avviene perché abbiamo tolto a Dio il diritto di essere adorato come Egli stesso ha stabilito. Agiamo come se le nostre liturgie sono un fare dell’assemblea, tanto che siamo preoccupati di compiacerla; al contrario, poco c’importa di offrire il sacrificio spirituale gradito a Dio.
A ragione, dunque, l’allora card. Ratzinger parlava delle odierne liturgie come di danze vuote intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi.
Aveva, inoltre, già confidato: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia che talvolta viene addirittura concepita come se in essa non importa più se c’è Dio e se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione della fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, il Mistero di Cristo vivente, dov’è che la chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra se stessa, senza che ne valga la pena».
Il Concilio Vaticano II, invece, insegna al n. 8 della costituzione sulla liturgia che: «nella Liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme verso la quale tendiamo come pellegrini ...».
Mi chiedo: tendiamo noi alla Gerusalemme celeste o l’abbiamo abbassata al nostro livello terreno se non sotterraneo?
Ho accennato prima al Motu Proprio Summorum pontificum, che voi sicuramente conoscete. È un atto magisteriale del papa che ripristina, per coloro che lo richiedono, l’uso della liturgia secondo il messale del 1962 edito da San Giovanni XXIII, Papa.
O meglio, liberalizza l’uso del medesimo messale, mai abrogato, ma sottoposto a legislazione indultizia dal 1973 al 2007: indulti generali o indulti ad personam che concedevano la celebrazione con il Messale del 1962 a intere nazioni, gruppi di fedeli, istituti religiosi oppure a singoli sacerdoti.
La successiva Istruzione applicativa Universae ecclesiae descrive ottimamente l’interpretazione del Motu proprio. Cioè da le linee guida per la corretta applicazione.
Ma vediamo cosa dice il Motu Proprio:
1) È pienamente lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Missale Romanum promulgato da S. Giovanni XXIII e mai abrogato;
2) Ogni sacerdote non impedito, può celebrare senza dover chiedere né ottenere il permesso da nessuno, né alla Sede Apostolica né all’Ordinario;
3) A tali celebrazioni possono essere ammessi i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.
4) Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco o il rettore permetta le celebrazioni nella forma straordinaria anche in circostanze particolari come battesimi, matrimoni, funerali, pellegrinaggi.
5) Se i fedeli non hanno avuto soddisfazione della loro richiesta, venga informato il vescovo diocesano, il quale è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio!
Concludendo vorrei soltanto esortare i chierici e i laici i quali si vedessero negati dall’autorità ecclesiastica i diritti stabiliti dal Motu Proprio e dalla normativa applicativa, ad usare gli strumenti che il diritto mette loro a disposizione, tra cui –non ultimo– la competente Pont. Comm. “Ecclesia Dei” che è preposta a dirimere le questioni inerenti l’antico rito, fra cui il rimuovere ogni ostacolo che l’autorità ecclesiastica a vari livelli frapponesse alla realizzazione sul territorio di quanto disposto dal Motu Proprio.
La Commissione è sollecita e si attiva in base a una segnalazione scritta e circostanziata.
Come diceva S. Giovanni Paolo II “Non abbiate paura!”.

La Domenica Laetare in un aforisma del Beato Card. Alfredo Ildefonso Schuster


"Laetare Jerusalem " - Antifona di Introito per la Messa della IV Domenica di Quaresima (Domenica Laetare)






Bernardo Strozzi, Moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1630 circa, Museo Pushkin, Mosca

Giovanni Lanfranco, Moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1620-23, National Gallery of Ireland, Dublino





Altare e mosaico della Chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci, Tabgha

sabato 25 marzo 2017

Percorsi per presbiteri e ministranti


L'Annunciazione in un aforisma di S. Alfonso M. de' Liguori


Nazareth. La fiorita di Galilea

Nella festa dell’Annunciazione, rilanciamo questo contributo sulla città di Nazaret, dove tutto ebbe inizio.

Ambito lombardo, Maria riceve l'annuncio dell'Angelo, 1890-1910, Vigevano

Ambito milanese, Annunciazione, 1830 circa, Bergamo

Bottega abruzzese, Annunciazione, 1840 circa, L'Aquila

Gaetano Guadagnini, Annunciazione ispirata al Guercino, 1850, Bologna

Giovanni Battista Epis, Annunciazione, 1852, Bergamo

Michelangelo Grigoletti, Annunciazione, 1857, Trento

Antonio Guadagnini, Annunciazione, 1860, Bergamo

Luigi Galizzi, Annunciazione, 1880 circa, Bergamo

A. Riedmuller - Andreas Wolfgang Brennhaeuser, Annunciazione, 1880 circa, Sabina

Lorenzo Bianchini, Annunciazione, 1890, Udine

Luigi Morgari, Annunciazione, 1890-1910, Alba

Nazareth. La fiorita di Galilea

di Carlo Codega

Nonostante caratteristiche di svantaggio, ad una vista puramente umana, Nazareth è stata scelta da Dio per germogliare il Fiore della Redenzione: il Verbo Incarnato. Essa ospita ancora parte della Casetta della Madonna, quella scavata nella roccia, custodita all’interno della celebre Basilica.

A chiunque per la prima volta muova i suoi passi in Terra Santa non può sfuggire l’enorme differenza che separa i tradizionali villaggi arabi, con il loro dedalo di stradine disordinate e case monofamiliari, dai moderni insediamenti ebraici, con i loro grandi edifici plurifamiliari in un contesto urbanistico perfettamente razionale e ordinato. È chiaro che i villaggi arabi, ben più che gli insediamenti ebraici, rappresentano quella tradizione semitica palestinese che più ci può riportare vicini all’epoca di Gesù, soprattutto nelle piccole borgate non toccate dagli interventi razionalizzanti ellenistici e romani. Stradine piccole, contorte e polverose; case irregolari e, a volte, improvvisate, addossate l’una all’altra in maniera claustrofobica; suk e mercatini disordinati con importuni venditori chiassosi e petulanti, sono l’ambiente tipico, che ci riporta alla mente una specie di ginepraio, un roveto che porta tutti i segni al contempo di un’umanità spontanea ma anche del disordine delle passioni e dei sentimenti umani, originato dal peccato originale.

La fiorita di Galilea

Ancora oggi il centro storico di Nazareth, seppur pesantemente rivisto da interventi nel corso della storia, in particolar modo nell’ultimo secolo, porta un po’ i segni di questa mentalità, soprattutto nello spazio che si estende dalla Basilica dell’Annunciazione alla Fontana della Vergine. Un roveto vero e proprio, roveto di strade e di abitazioni, ginepraio d’attività umane, in mezzo al quale però, come una rosa tra le spine, è fiorito il fiore della Redenzione, il Verbo Incarnato. Non a caso il significato letterale di Nazareth, in ebraico, è proprio quello di “fiorita” – come già ricordava san Girolamo –, nome stranamente bello e delicato per designare un ammasso di case a ridosso della roccia, quasi delle “topaie” (come le definisce il Roschini), in un borgo di nessuna importanza, al di fuori delle principali linee commerciali della piana di Esdrelon. Proprio di questo villaggio, infatti, l’apostolo Natanaele avrebbe affermato: “Può mai venire qualcosa di buono da Nazareth”! Eppure il singolare corso delle vicende volle che il nome di questo villaggio, del tutto inadatto da una visuale umana, divenne quanto mai opportuno nel momento in cui il Figlio di Dio prese la sua natura mortale proprio lì, scegliendolo poi anche per viverci, per il qual motivo Egli sarebbe divenuto, nella sua vita pubblica, il “Nazareno” per eccellenza. 

Proprio qui, probabilmente poco dopo i dodici anni di età di Maria Santissima, quando ebbe terminato il periodo di servizio al Tempio di Gerusalemme, la Provvidenza divina spinse la famiglia di Maria Santissima ad abitare. Per quanto nata a Gerusalemme, Maria era figlia di un nazaretano di nome Gioacchino: questi era della tribù di Giuda e aveva possedimenti a Gerusalemme, ma era nato a Nazareth probabilmente a causa della politica di ripopolamento della Galilea, che aveva portato la sua famiglia giudea a spostarsi in Galilea. La Galilea da secoli infatti, come ci ricorda la storia biblica, era spopolata, soprattutto di popolazione di sangue ebreo, in quanto aveva dovuto subire l’esilio e la deportazione dei suoi abitanti ebraici sin dal 721 a.C., dopo la distruzione del Regno del Nord da parte di Salmanassar. Il singolare corso della Provvidenza fece incontrare pertanto proprio qui, nella lontana Galilea, la Vergine Maria col suo castissimo sposo san Giuseppe, anch’egli proveniente dalla Giudea (dalla cittadina di Betlemme) e proprio qui i due giovani, uniti da un santo e segreto proposito, decisero di unirsi in un Matrimonio perfettamente casto. Quest’unione perfettamente casta nelle intenzioni divenne, nel misterioso e onnipotente progetto di Dio, la più feconda nella realizzazione: mentre trascorreva il tempo che separava la prima parte della celebrazione del matrimonio ebraico – quando la promessa di amore non comportava ancora l’abitazione in comune – dalla seconda – quando si sarebbe attuata la vera e propria coabitazione – ecco che la Vergine Maria sbocciò, come fiore ai primi raggi della primavera (al 25 marzo la tradizione fissa il concepimento di Gesù). Un Angelo la visitò assorta in meditazione profondissima nella sua casa e, proprio mentre domandava a Dio che si affrettasse il tempo della realizzazione della sua promessa con l’invio di un Messia che avrebbe liberato l’umanità afflitta dal peccato, ecco che l’inviato di Dio le svelò che proprio Lei era la pianta prescelta per fiorire in una gravidanza miracolosa e per germinare il frutto più maturo del piano provvidenziale di Dio: il Verbo Incarnato. Svelando un mistero fino ad allora solo preannunciato oscuramente, il Messia promesso non sarebbe stato altro che lo stesso Figlio di Dio, cosicché Maria divenne da quel momento la “Madre di Dio”. È il punto di svolta della storia umana: dalla promessa si passa al compimento, dall’attesa alla venuta, dalla figura alla realtà.

La Casa della Madonna

Il punto zero della storia dell’umanità va dunque situato nella povera casa di un’umile Fanciulla ebrea, un’abitazione che, come tutte le case di Nazareth, non aveva nulla di confortevole e di ricercato, bensì nella quale la ristrettezza eguagliava la scomodità. Come gli scavi archeologici hanno dimostrato, le case del piccolo villaggio di Galilea non erano altro che un piccolo ambiente a tre pareti addossato ad una roccia che veniva scavata, per ricavarne altre stanze. Come è ben noto a Nazareth della Casa della Madonna è rimasta solo la parte scavata nella roccia, in quanto, la parte in muratura (ovvero le tre pareti) si trova ora nelle Marche, a Loreto, venerata da folle di pellegrini desiderose di venerare quelle mura che hanno ascoltato il solenne “Verbum caro factum est”.
Come è successa questa singolare traslazione che ha privato la Terra Santa di una reliquia tanto preziosa? L’abitazione della Vergine – luogo dell’Incarnazione di Dio – era stata gelosamente custodita da secoli prima da una chiesa-sinagoga, poi da una Basilica bizantina del V secolo e infine dalla grandiosa Basilica crociata, che però nel 1263 venne distrutta dal sultano Baybars. Nel 1291 anche l’ultima presenza crociata in Terra Santa, la fortezza marina di san Giovanni d’Acri, cadeva davanti all’assedio islamico così che anche la Regina di Terra Santa, Maria Santissima, decise che era giunta l’ora di togliere una così preziosa perla dalle grinfie dei violenti e profanatori sultani selgiuchidi: nello stesso 1291 con un miracolo inusitato la Santa Casa prese il volo, sostenuta e guidata da uno stuolo di Angeli, per andare a posarsi nei Balcani prima (Tersatto) e nelle Marche, poi, seguendo così il ritorno in Europa dei valorosi crociati che da duecento anni combattevano sfortunatamente, versando il loro sangue per riconquistare la Terra di Gesù. A Nazareth restò così la grotta annessa alla casa, ben presto segnalata da una piccola e discreta cappella, che rimase comunque meta di pellegrinaggi.
Dobbiamo proprio ai pellegrini che nel corso dei secoli hanno visitato questo luogo, lasciandovi scritte e incisioni devote, la facilità con cui da sempre si poté identificare l’abitazione della Madonna: tra le incisioni spicca soprattutto l’antico “Chaire Maria”, ovvero il saluto angelico (Ave Maria) in lingua greca, tracciato proprio sulla grotta adiacente a quella venerata, come a voler perpetuare e ripetere con la propria presenza quella visita angelica che non aveva dato al mondo solo qualche grazia, bensì la fonte stessa delle grazie, Gesù Cristo. Solo nel 1620 i Francescani di Terra Santa poterono tornare in possesso del luogo e quasi un secolo dopo ottennero il permesso di ricostruirvi una chiesa con una singolare concessione: i Francescani avrebbero dovuto pagare un viaggio dell’emiro e, durante la sua assenza, avrebbero dovuto iniziare e terminare la costruzione del luogo di culto. Nonostante quest’umiliante condizione, una piccola chiesetta poté da quel momento custodire il luogo tanto venerato.

lunedì 20 marzo 2017

S. Giuseppe in un aforisma di S. Teresa d'Avila


Inno "Te Joseph celebrent"

Giuseppe Carnelli, Madonna con Bambino, S. Giuseppe e S. Pietro, 1893, Chiesa Parrocchiale, Grumello de' Zanchi

Giuseppe Carnelli, Transito di S. Giuseppe, 1905, Chiesa Parrocchiale, Albino

Il culto a san Giuseppe è molto antico: nella Chiesa d'Oriente risale con tutta probabilità direttamente alle primitive comunità giudeo-cristiane, che lo hanno tramandato anche alla Chiesa Copta. Invece nella chiesa di Occidente, pur essendo attestato fin dal secolo VIII, per tutto il primo millennio cristiano e per quasi metà del secondo rimase nelle celebrazioni dei vari ordini monastici e religiosi, ma la festa fu istituita piuttosto tardi.
Fu il papa Pio V ad inserirla con rito doppio nella riforma del breviario (1568) e del messale (1570) e l’8 maggio 1621 Gregorio XV la rese obbligatoria per tutta la Chiesa (il decreto, tuttavia, non trovò esecuzione ovunque e Urbano VIII il 13 settembre 1642 lo rinnovò con la bolla Universa per orbem).
Clemente X (6 dicembre 1670) elevò la festa al rito doppio di seconda classe, introducendo nel breviario (1671) i tre inni in onore di san Giuseppe:
Te, Ioseph, celebrent
Caelitum, Ioseph, decus
Iste, quem laeti.
La festa ebbe poi alterne vicende, e attualmente in Italia non è più di precetto dal 1977.

* * *


L'inno Te, Ioseph, celebrent è usato ai secondi Vespri per la festa di San Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria (19 marzo) e poi di nuovo il 1° maggio (San Giuseppe Lavoratore).
Si tratta di un testo più tardo rispetto al corpus gregoriano; risale al secolo XVII o al più tardi agli inizi del XVIII e l'autore è assai incerto: potrebbe essere il monaco fogliante e cardinale Giovanni Bona (morto nel 1674), ma altri indicano Johannes von der Empfängnis (morto intorno al 1700) e altri ancora il coevo Fr. Juan Escollar.
La poesia latina del testo si segnala chiaramente come un'aggiunta successiva al repertorio classico del canto gregoriano: i suoi più sofisticati schemi metrici e la sua mancanza di rima hanno chiaramente rotto con la devozione medievale alle strutture ambrosiane.
La melodia del canto su cui ogni strofa è impostata è strutturata in quattro frasi melodiche ben definite cadenti su Re, La, Do, e infine di nuovo su Re; ogni frase descrive un arco melodico, e il risultato è una forma complessiva finemente cesellata, che raggiunge il climax nella terza frase e ritorna delicatamente alla cadenza finale più riposante.


Fonte: blog LaSacraMusica, 18.3.2014

È l’ora di san Giuseppe, patrono della Chiesa e della famiglia

Nella festa liturgica di S. Giuseppe, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi.

S. Giuseppe col Fanciullo Gesù, Chiesa di S. Giuseppe, Nazaret

Nicolò Fumo, S. Giuseppe col Bambino, 1705

Ambito dell'Italia centrale, S. Giuseppe in preghiera col Bambino, 1810 circa, Orvieto

Ambito campano, S. Giuseppe col Bambino, 1850 circa, Sessa Aurunca

Ambito piacentino, S. Giuseppe col Bambino, 1860 circa, Piacenza

Ambito romano, Il Beato Pio IX presenta la Basilica del Laterano (simbolo della Chiesa) a S. Giuseppe col Bambino in trono, 1870 circa, Ravenna

Ambito lombardo, S. Giuseppe col Bambino ed angeli sulla Basilica di S. Pietro, 1880 circa, Tortona

Enrico Benzoni, S. Giuseppe col Bambino, 1889, Bergamo

È l’ora di san Giuseppe, patrono della Chiesa e della famiglia

di Cristina Siccardi


Celebrare la festa di san Giuseppe del 19 marzo (i primi furono i monaci benedettini nel 1030, seguiti dai Servi di Maria nel 1324 e dai Francescani nel 1399; venne infine promossa dagli interventi dei papi Sisto IV e Pio V e resa obbligatoria nel 1621 da Gregorio XV) significa rendere onore liturgico al Patrono universale della Chiesa e all’avvocato di ogni famiglia. Oggi più che mai occorre pregare ed implorare la sua intercessione per l’una e per l’altra realtà. Alla Vergine Maria si tributa il culto di iperdulia (al di sopra di tutti i Santi), mentre a san Giuseppe il culto di proto dulia (primo fra tutti i Santi).
Santa Teresa d’Avila affidò sempre a lui la risoluzione dei suoi problemi e dei suoi affanni e mai San Giuseppe la deluse. Lasciò scritto la mistica spagnola: «Ad altri Santi sembra che Dio abbia concesso di soccorrerci in questa o in quell’altra necessità, mentre ho sperimentato che il glorioso san Giuseppe estende il suo patrocinio su tutte. Con ciò il Signore vuol farci intendere che a quel modo che era a lui soggetto in terra, dove egli come padre putativo gli poteva comandare, così anche in cielo fa tutto quello che gli chiede». Perciò, «qualunque grazia si domanda a S. Giuseppe verrà certamente concessa, chi vuol credere faccia la prova affinché si persuada», infatti, «ho visto chiaramente che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare» (Vita, VI, 5-8).
Come implorarlo per le necessità? La Chiesa invita a pregarlo, in particolare, praticando la devozione del Sacro Manto di San Giuseppe (risalente al 22 agosto 1882, data in cui l’Arcivescovo di Lanciano, Monsignor Francesco Maria Petrarca, la approvò: orazioni da recitarsi per 30 giorni consecutivi in ricordo dei 30 anni del casto sposo di Maria Santissima a fianco e a tutela di Gesù). Un Manto che molto potrebbe ottenere nell’anno del centenario di Nostra Signora di Fatima, perché, proprio a Fatima, anche san Giuseppe apparve. Era il 13 ottobre 1917, ultima delle apparizioni mariane alla Cova d’Iria.
Pioveva a dirotto. Racconterà suor Lucia: «Arrivati (…) presso il leccio, spinta da un istinto interiore, domandai alla gente che chiudesse gli ombrelli, per recitare la Corona. Poco dopo, vedemmo il riflesso di luce e subito dopo la Madonna sopra il leccio» (Quarta Memoria di Lucia dos Santos, in A.M. Martins S.j., Documentos. Fátima, L.E. Rua Nossa Senhora de Fátima, Porto 1976, p. 349). «Cosa vuole da me?». «Voglio dirti che facciano qui una cappella in Mio onore; che sono la Madonna del Rosario; che continuino sempre a dire la Corona tutti i giorni» (Ivi, pp. 349; 351).
A questo punto Lucia chiese se poteva guarire malati e convertire peccatori, la Madonna disse che non tutti avrebbero ricevuto la grazia: «Devono emendarsi; chiedano perdono dei loro peccati» e, con un aspetto più triste, non «offendano più Dio Nostro Signore, che è già tanto offeso» (Ivi, p. 351). In seguito la Madonna aprì le mani, che emanavano luce, e le fece riflettere e proiettare nel sole. Lucia allora gridò a tutti di guardare l’astro in cielo. Mentre la Madonna si elevava congedandosi, il riflesso della sua luce continuò a proiettarsi nel sole. E accanto al sole apparvero ai veggenti: san Giuseppe, il Bambino Gesù, la Madonna, vestita di bianco, con il manto azzurro. San Giuseppe e il Bambino benedicevano il mondo: la Sacra Famiglia si presentò nel suo splendore celeste per assicurare la protezione in terra. Poi Maria Vergine divenne Addolorata, con aspetto simile alla Madonna del Carmine.
In seguito iniziò il miracolo danzante del sole. Padre premuroso e sollecito, san Giuseppe, a differenza di una certa letteratura modernista che lo tratteggia soltanto come uomo di tenerezza, fu assai forte e coraggioso (si pensi all’aver preso in sposa, contro il suo pubblico onore, la Vergine Maria in attesa di Gesù, oppure alla fuga in Egitto) e fu uomo mistico, visto che in più occasioni gli fu dato il privilegio di conoscere la volontà di Dio attraverso gli angeli. San Giuseppe, che ebbe così alta dignità e così alta responsabilità di capo della Sacra Famiglia, proteggendo la sua sposa e il Figlio di Dio, se invocato dai credenti e, principalmente, dai puri di cuore e, dunque, in grazia di Dio, non abbandonerà la Sposa di Cristo ai peccati e agli errori dei nostri tempi, sia clericali che civili. Ricorrere a lui significa affidarsi al giusto difensore celeste.
Il beato Pio IX, l’8 dicembre del 1870, quando proclamò san Giuseppe patrono della Chiesa universale, disse: «In modo simile a come Dio mise a capo di tutta la terra d’Egitto quel Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, affinché immagazzinasse frumento per il popolo, così, all’arrivo della pienezza dei tempi, quando stava per mandare sulla terra suo Figlio unigenito Salvatore del mondo, scelse un altro Giuseppe, del quale il primo era stato tipo e figura, che rese padrone e capo della sua casa e del suo possesso e lo scelse come custode dei suoi principali tesori».
Allo stesso modo Leone XIII, nell’enciclica Quamquampluries del 15 agosto 1889, afferma: «è affermata l’opinione, in non pochi Padri della Chiesa, concordando su questo la sacra liturgia, che quell’antico Giuseppe, nato dal patriarca Giacobbe, aveva abbozzato la persona e i destini di questo nostro Giuseppe e aveva mostrato col suo splendore, la grandezza del futuro custode della sacra famiglia». La stessa interpretazione venne espressa da Pio XII quando istituì la festa di san Giuseppe artigiano nel 1955. Possa il paterno discendente del Re Davide infondere nei responsabili terreni della Chiesa e nei genitori un poco del suo virile coraggio proveniente dalla sua indefettibile Fede.