Sante Messe in rito antico in Puglia

martedì 22 ottobre 2013

Un sostituto procuratore tra killer e Dio. In nome delle regole

Intervista di Linda Cappello al "nostro" Giuseppe Capoccia
da "Gazzetta del Mezzogiorno", 13/10/2013

In anni lontani - solo per fare un esempio - le indagini sull’omicidio di mafia della piccola Angelica Pirtoli e di sua madre. In tempi più recenti - praticamente oggi - l’inchiesta sul duplice omicidio di Campi Salentina. E l’arresto dei tre presunti killer.
In un caso e nell’altro, a guidare le indagini c’è il sostituto procuratore Giuseppe Capoccia. La ricerca dei killer, insomma è il suo mestiere. Ma non si occupa solo di delitti. Da qualche anno la ricerca è diventata anche ricerca di Dio. Con una «vocazione » al rito in latino.

Dottor Capoccia, come mai un pubblico ministero, abituato ad indagare su rapine, droga e omicidi… si interessa di messa antica e di canto gregoriano?

Me lo sono chiesto anch’io e continuo a chiedermelo spesso. Nei miei ricordi, ci sono lunghi anni di una Fede ridotta al minimo; poi qualcosa riaffiora. Sono tornato a messa ma ogni domenica mi sentivo insoddisfatto e confuso. Allora mi sono messo a cambiare chiesa: ogni volta una messa diversa dall’altra ma sempre la stessa confusione. Neanche a Roma, dove c'è l’imbarazzo della scelta, riuscivo a trovare una chiesa dove ritornare: tanto chiasso, tanta orizzontalità. Poi, un giorno, l’invito di un collega: “Vieni a Gesù e Maria”, il nome di una chiesa in via del Corso dove si celebra la messa antica: venni folgorato.
Non avevo mai assistito alla messa in latino: non la conoscevo. Anzi, non ne avevo neanche mai sentito parlare. Ecco cosa cercavo da almeno 10 anni: la Messa di sempre.

E come si è ritrovato alla guida di un pellegrinaggio internazionale?

Io credo che nulla accada per caso; uno fa il suo dovere, si rende disponibile, mette a disposizione i propri talenti, sta in mezzo agli altri e poi, tu non sai come, ti ritrovi delegato generale di un Pellegrinaggio internazionale, con il peso - ma un peso entusiasmante - di dover rappresentare tanti altri che comunque sono minoranza scarsamente tollerata, relegata nelle periferie della Chiesa.

Quali sono questi fedeli "relegati” nelle periferie della Chiesa?
 
Il pellegrinaggio è quello del popolo Summorum Pontificum: in sostanza, dei fedeli che, senza etichette, sono legati alla messa antica, detta comunemente messa in latino. E' un popolo formato da tanti che desiderano riavvicinarsi al culto e che, animati di un forte desiderio del sacro, vi trovano una liturgia più degna, più sacra, più solenne. Soprattutto è un popolo giovane: sulla pagina Facebook del Pellegrinaggio rileviamo migliaia di contatti e la fascia di età più numerosa è tra 18 e 34 anni. Spesso, purtroppo, è un popolo che non può vivere la sua fede pienamente perché non trova la messa antica nella sua parrocchia. Per questo il pellgrinaggio di sabato 26 ottobre in San Pietro a Roma assume un significato emblematico:  per anni si è pensato che ci fossero solo i Francesi ad essere tradizionalisti, poi soltanto gli Europei e adesso si scopre, grazie al motu proprio Summorum Pontificum che dalle Filippine al Sudamerica, dall’Australia alla Finlandia si tratta di una realtà universale. Niente di strano visto che il messale di San Pio V è stato il messale della Chiesa universale per secoli.

Questa messa era sparita dopo il Concilio, no?

Nei fatti sì. Nel 2007, quando Papa Benedetto ha restituito alla Chiesa universale la messa antica, in Italia c’erano soltanto una ventina di celebrazioni domenicali. Oggi se ne celebrano stabilmente circa 150: tra queste c’è la messa celebrata a Lecce dal 2009. Se penso agli inizi ancora sorrido: che ingenuo che ero. Non immaginavo che tanti mi avrebbero frapposto diffidenza, ostacoli, maldicenze anche cattive e inaspettate. Poi - sa com’è - le indagini più difficili sono e più appassionanti diventano. E quanto più il percorso è disseminato di difficoltà (anche dolose), maggiore è l’impegno che ci metti. E tanti sono gli amici che ti sostengono. 

Che c'entra la liturgia antica, fatta di silenzi, di adorazione e di canto gregoriano, con il suo mestiere?

Trovo grande analogia tra il mio mestiere di investigatore e la liturgia antica: nelle indagini devi essere attento ai dettagli ma non perdere mai di vista l’obiettivo, la ricostruzione in cui tutto possa trovare una spiegazione, possa andare a posto come in un puzzle rompicapo. Solo che per raggiungere l'obiettivo finale, devi avere passione per ogni dettaglio, né scordarti le regole, altrimenti è tutto inutilizzabile...
Così è la Messa in latino: trovi tutta, ma proprio tutta la tua fede, ma ne ritrovi anche i dettagli, tutti i dettagli.
C’è un altro aspetto di profonda affinità con il mio lavoro: il rito. Nel processo ci sono le regole, e se non le rispetti il processo è nullo; eppure non si tratta di formalismi. Le regole sono a tutela di tutti i soggetti coinvolti. E così è per il Messale tradizionale: così c’è scritto, così si fa nella Messa. Ed è tutela per i fedeli, ma è tutela soprattutto dei diritti di Dio ad essere adorato come Lui ha disposto; diritti che vengono spesso calpestati quando si inventa o addirittura si improvvisa la liturgia: quando nel corso delle indagini qualcuno commette scorrettezze, cerca di volgere le regole a proprio vantaggio, cambia le carte in tavola, si insorge e talvolta si grida allo scandalo. Perchè, se siamo così attenti ai diritti, siamo diventati tanto sciatti per i diritti di Dio? 

Ma in Puglia, dove viene celebrata la Messa antica?

Cominciamo da Lecce: ogni domenica alle 11 - anche d’estate - nella chiesa di San Francesco di Paola. Ufficialmente c’è a Bari, Taranto, Monopoli, Barletta, Ugento. Poi vi sono altre località che però - mi consentirete - non intendo rendere note perchè i sacerdoti ed i fedeli che vi partecipano potrebbero essere esposti a spiacevoli ritorsioni da parte di qualche superiore troppo zelante nel tentare di far sparire una norma universale della Chiesa qual è il Summorum Pontificum: alla faccia dell’accoglienza.

giovedì 17 ottobre 2013

"Cambiare" la Liturgia?

di Nicola Bux
da Chiesa Espresso on line



Oggi è più che manifesto il dissenso sulla natura della liturgia. È essa opera di Dio, in cui egli ha competenza, ha i suoi diritti? Oppure è intrattenimento umano dove fare ciò che noi vogliamo?

Le ombre, gli abusi e le deformazioni – termini usati da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ed effetti della bramosia di innovazione – hanno messo all'angolo la tradizione per cui “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto” (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione ai vescovi del motu proprio "Summorum pontificum").

Senza "traditio" – la consegna di ciò che abbiamo ricevuto, come scrive l'Apostolo – non si sviluppa organicamente il nuovo. Il dissenso si può risolvere solo comprendendo che la liturgia è sacra, cioè appartiene a Dio ed egli vi è presente e opera.

Ma a chi compete salvaguardare i diritti di Dio sulla sacra liturgia? Alla Sede Apostolica e, a norma di diritto, al vescovo ed entro certi limiti alle conferenze episcopali compete “moderare” la liturgia: così recita il testo latino della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II (n. 22, § 1-2).
Che vuol dire “moderare”? Confrontando altri passi del Vaticano II, significa salvaguardare la legittima diversità delle tradizioni in campo liturgico, spirituale, canonico e teologico: si pensi alle liturgie occidentali come la romana e l'ambrosiana e alle numerose liturgie orientali ritenute all'interno dell'unica Chiesa cattolica.

Il termine può essere tradotto anche “regolare”, il che presume che l'operazione avvenga "sotto la direzione" di un'autorità suprema. Da un altro documento del Vaticano II, il decreto sull'ecumenismo (Unitatis redintegratio n. 14), sappiamo che i redattori del testo intendevano "moderante" come "sotto la presidenza", o in francese: "intervenant d’un commun accord" (la traduzione francese è stata fatta dagli estensori del decreto). La formula limita gli interventi romani "ad extra" al sorgere di uno screzio grave circa la fede o la disciplina.
La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ha ulteriormente precisato che “anche la suprema autorità della Chiesa [ossia il papa - ndr] non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia” (n. 1125).

Ha scritto Joseph Ratzinger nella prefazione al libro di Alcuin Reid "Lo sviluppo organico della liturgia", Cantagalli, Siena, 2013:
“Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l'essenza del primato, così come viene sottolineato dai concili Vaticano I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell'antica Tradizione [una delle due fonti della divina rivelazione – ndr), e il primo garante dell'obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l'agire 'ad libitum', ma l'obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il 'rito', e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l'insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione tra coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di 'paradosis'".

È questo un invito alla riflessione per quanti mettono in giro la voce che papa Francesco stia per “cambiare” la liturgia.
Nel XVII secolo, in Russia, il tentativo del patriarca Nikon di cambiare i libri liturgici ortodossi produsse uno scisma. Nel secolo scorso anche tra i cattolici lo scisma di mons. Lefebvre fu dovuto in buona parte all'aver toccato la liturgia e ne soffriamo tuttora le conseguenze.

mercoledì 9 ottobre 2013

Volgendoci indietro e guardando avanti

di Helmut Ruckriegel *
da  UNA VOCE, n. 2, 3, 4/2012





Il primo ministro britannico dell’Ottocento, Benjamin Disraeli, era noto come eccellente oratore, ma un giorno il capo dell’Opposizione di Sua Maestà alla Camera dei Comuni disse, con quella specie di balbettio che è parte del curriculum di Oxford, che il primo ministro potrebbe fare ancor meglio “se qualche volta avesse qualche esitazione !”.

Io non posso permettermi il lusso di balbettare e di avere esitazioni, poiché è difficile condensare 46 anni – questa è l’età della nostra Federazione – in circa 30 minuti, ma ci proverò.
Compirò il mio 87° compleanno esattamente tra due settimane, per cui mi darete credito di conoscere la Chiesa prima e dopo il Vaticano II. Innanzitutto una parola di precauzione: ciò che dirò è la mia opinione personale, non voglio implicare il nostro movimento, non ho mostrato il mio manoscritto al nostro presidente in precedenza, per cui egli è innocente per ogni critica ch’io possa dirigere all’alto clero, vivo o defunto …

“Die alte Kirche ist mir lieber” – La vecchia Chiesa mi è cara – è il titolo del libro di un vescovo ausiliare tedesco. Molto spesso quel titolo è reso al tempo imperfetto: “la vecchia Chiesa mi era cara”, ma allora il nostro vescovo protesta, egli insiste dicendo che la vecchia Chiesa c’è ancora, esiste in questo giorno e in quest’epoca. E se è così, lo è soprattutto per opera della Divina Provvidenza e per la promessa fatta a san Pietro, e anche grazie ai movimenti come il nostro, principalmente movimenti laici.

Possiamo affermare ciò in tutta modestia, ma anche con un po’ di orgoglio, poiché il Santo Padre stesso dà ai laici una pacca sulla spalla, anzi due: nella sua lettera ai vescovi che accompagnava il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007 il Papa ammette che è grazie ai laici se il vecchio rito non è stato dimenticato, e anche l‘istruzione Universae Ecclesiae del 30 aprile 2011 mette in rilievo la parte che i comuni fedeli hanno avuto nel conservare la Messa di san Pio V.
Mi ricordò di ciò il Postcommunio di domenica scorsa, festa di Cristo Re - dove si dice di noi cristiani “qui sub Christi Regis vexillis militare gloriamur”, cioè “che ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re” che noi onoriamo nella nostra liturgia definita da padre Faber: “la cosa più bella da questa parte del cielo”.

Ma lasciatecelo dire: senza la tenacia di un altro movimento che combatte sotto il nome di San Pio X e la sua prole, la Fraternità Sacerdotale di San Pietro, non ci saremmo mai trovati qui dove siamo oggi.
Ed ora facciamoci tre domande: da dove abbiamo iniziato? A che punto siamo oggi? E dove ci stiamo dirigendo?

1. Da dove abbiamo iniziato?
Soltanto una persona che aveva almeno 10 anni nel 1965 – l’anno in cui Una Voce apparve – può avere delle reminiscenze, ancorché vaghe, di come la Chiesa appariva prima dei cambiamenti generati dal Concilio Vaticano II e dopo di esso. Quel cattolico avrebbe ora quasi 60 anni.
Osservandola dal di fuori era una Chiesa all’altezza del successo, rispettata nel mondo come la più alta autorità morale. Fino agli anni Sessanta la grande maggioranza dei cattolici, circa l’ottanta per cento, andava a Messa la domenica e si confessava regolarmente, di solito prima di ricevere la Santa Comunione.
Secondo G. K. Chesterton, mi pare, i cattolici erano gli unici che sapevano ciò in cui credevano.
C’era abbondanza di preti, i monasteri e i conventi erano pieni e non c’era mancanza di vocazioni. Tutto ciò è cambiato dopo il 1965, quando terminò il Concilio.
Cinque anni più tardi, esattamente l’otto dicembre 1970, si dice in un documento quanto segue: “I cattolici sono confusi da un mucchio di ambiguità, incertezze e dubbi che concernono l’essenza della fede. I dogmi della SS. Trinità e della Cristologia, il mistero dell’Eucaristica e la Presenza Reale, la natura della Chiesa come istituzione della salvezza, la funzione sacerdotale … il valore della preghiera e dei sacramenti, il carattere vincolante della legge morale e della teologia, come per esempio le promesse matrimoniali e la sacralità della vita umana, perfino l’autorità divina della Sacre Scritture non è risparmiata dall’essere messa in dubbio da una critica radicale … Siamo testimoni della tendenza a creare una nuova Cristianità che si allontana dalla tradizione apostolica, una Cristianità vuota di ogni elemento religioso”.

Non era il “vescovo ribelle” mons. Lefebvre che descriveva così la situazione, ma il papa Paolo VI nella sua lettera apostolica Quinque iam annos.
Noi siamo grati a quel Papa per il suo meraviglioso Credo del Popolo di Dio, e per la sua enciclica Humanae Vitae che si è rivelata profetica. E’ strano però che egli abbia mancato di vedere il collegamento che c’era tra lo sconvolgimento liturgico, la virtuale distruzione della liturgia, che è seguita al Vaticano II e il dissesto che egli stesso descrisse.
Il Papa regnante, Benedetto XVI, d’altra parte, è convinto che “la crisi della Chiesa d’oggi è causata dalla decomposizione della liturgia”.

Quand’era ancora cardinale, Joseph Ratzinger dichiarò: ”Nulla come la quasi completa proibizione del precedente messale nel 1970 si era mai verificato nella storia prima di allora. “Le conseguenze non potevano essere che tragiche”. “Come si può fidarsi della Chiesa presente se essa disprezza tutto il suo passato? “si chiede Ratzinger. “E si può fidarsi di una Chiesa che si mette in discussione, non potrebbe essa proibire domani quello che impone oggi?”. Il cardinale attaccava l’intolleranza che incontravano coloro che desideravano la vecchia liturgia, mentre la tolleranza per le più avventurose e incredibili trovate liturgiche era quasi illimitata. “I fedeli che desideravano la forma tradizionale della liturgia erano trattati come lebbrosi mentre i loro desideri avrebbero dovuto essere soddisfatti molto più generosamente”, ed egli non riusciva proprio a comprendere quest’opposizione dei vescovi.

Quando la Federazione Internazionale Una Voce fu fondata a metà degli anni Sessanta non era ancora questione di un nuovo rito della Messa, ma principalmente questione della lingua e della musica sacra. I cattolici erano comunque allarmati di fronte ai segni di distruzione che si manifestavano in ciò che era stato per loro sacro per più di un millennio e che doveva essere eliminato.

La Messa era soggetta agli esperimenti più incredibili.
L’iniziativa di fondare Una Voce sorse, tra tanti luoghi, in Norvegia e per breve tempo la sua sede fu a Oslo, per essere poi spostata a Parigi, dove il dr. Eric de Saventhem divenne il suo primo presidente. Il nostro amico Jacques Dhaussy entrò fin dal primo momento, mentre io fui reclutato dopo il mio ritorno da New York dal dr. De Saventhem, che mi accolse con un “benvenuto a bordo !”.
Verso la fine del secolo, Saventhem ebbe un eccellente successore nella persona del gallese Michael Davies, per onorare adeguatamente il quale mi occorrerebbe un’altra mezzora, perciò permettetemi soltanto di lodare il suo spirito combattivo e le sue numerose pubblicazioni a sostegno della nostra causa, come La nuova Messa di papa Paolo VI e, per favore non spaventatevi, una Apologia pro Marcel Lefebvre, per citare solo due di esse.

Una Voce fece la sua prima apparizione nel numero dell’aprile 1965 della rivista Musica Sacra, dove si presentò come un “movimento internazionale di laici il cui scopo è la rivitalizzazione della liturgia latina e del canto gregoriano in tutto il mondo … immediatamente”. Si diceva in quell’articolo: “Dei cattolici dall’Africa, America, Asia, da vari Paesi in Europa e perfino dall’Oceania si sono riuniti in quest’opera”.
E già in quella prima pubblicazione Una Voce si riferiva alla Sacrosanctum Concilium, la costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II, dove il latino e il canto gregoriano, assieme alla polifonia sacra (n.116), avevano il posto principale.

Abbiamo sentito ieri quanto estesamente il movimento Una Voce abbia diffuso nel mondo le sue attività a tutt’oggi.
A quel tempo non avevamo luccicanti periodici come Mass of Ages dall’Inghilterra, The Latin Mass dagli USA o Dominus vobiscum dalla Germania, per citarne solo qualcuno. Eravamo senza mezzi finanziari e per molti anni il dr. De Saventhem ci mantenne in attività con i suoi fondi privati. Ho conservato come prezioso memoriale tutti i notiziari ciclostilati – ingrigiti con l’età, come capita a me ora – che noi in Germania pubblicammo tra il 1965 e il 1970 come voce della nostra filiale nazionale di Una Voce e sono certo che questo modello era simile negli altri Paesi.
Quando – si diceva nel nostro primo numero – i Paesi del mondo si avvicinano grazie ai commerci, alla radio e alla televisione, noi di Una Voce vogliamo impedire la formazione di frontiere linguistiche nella Chiesa e l’errore fatale di una moltitudine di liturgie nazionali. Nel nome scelto di Una Voce, preso dal prefazio della domenica della SS. Trinità, il latino come lingua della liturgia in tutto il mondo era diventato il motto del nostro movimento.

Enormi ostacoli si presentarono fin dall’inizio.
I soci di Una Voce furono diffamati, ridicolizzati e accusati di disobbedienza. Non servì a nulla far notare che noi non trovavamo nulla nei documenti del Concilio per giustificare gli enormi cambiamenti che erano in diretta contraddizione della costituzione liturgica. Parecchi Padri del Concilio dichiararono che non avrebbero mai dato il loro consenso a quella costituzione se avessero saputo come sarebbe stata interpretata in seguito.

Ben presto i preti cominciarono a dire tutti i testi della Messa in vernacolo, ancora contro i chiari precetti della costituzione. Papa Paolo VI, che aveva tentato di arginare la marea e che aveva detto che naturalmente il Canone doveva rimanere in latino, alla fine permise questo cambiamento, e una volta ancora non era stato il laicato a chiedere queste modifiche.
Col cuore triste, il Papa concesse anche l’uso di ricevere la comunione sulla mano, perché era stato comunque introdotto, deplorandone le conseguenze per la fede. Siamo ora gli unici cristiani della successione apostolica che lo fanno. E lo stesso si verifica quando i sacerdoti che celebrano il Santo Sacrificio dell’altare guardano la congregazione invece di guardare, assieme ai fedeli, verso est, come fanno tutti gli ortodossi e tutti i cristiani orientali.

I vescovi erano o impotenti contro questo delirio di innovazioni o riluttanti ad interferire – alcuni addirittura incoraggiavano questi abusi – o temevano l’opposizione dei loro nuovi comitati liturgici e di quelli dietro a loro. “La crisi della Chiesa è una crisi dei vescovi” dichiarava il card. Seper, a quel tempo prefetto della Congregazione della fede.

Ma il peggio doveva venire quando la nuova Messa di Paolo VI fu incondizionatamente imposta nel 1970.
I fedeli ebbero impressione che d’allora in poi la vecchia Messa fosse finita e proibita. Padre Joseph Gelineau sj, uno dei periti del Concilio che era rimasto a Roma in seguito per vedere che il partito progressista controllasse la situazione, dichiarò l’antico rito “distrutto”. La natura del nuovo rito, sosteneva, era differente.

Quando il nostro presidente, il dr. Eric de Saventhem, chiese ad un alto prelato se la vecchia liturgia era proibita, ottenne la seguente risposta: ”Il Santo Padre – vale a dire Paolo VI – desidera che sia celebrata quella nuova”. Il dr. de Saventhem chiese per tre volte, ma ottenne sempre la stessa risposta evasiva. E come Gelineau, l’arcivescovo Benelli spiegò che il nuovo rito era il rito di una nuova ecclesiologia.
Una nuova Chiesa? Dio ce ne guardi! Papa Benedetto XVI ha chiarito in modo inequivocabile che non si deve desumere una tale differenza tra la Chiesa di prima e dopo il Concilio Vaticano II.

Due mesi fa in Germania orientale sono stato testimone di una pretesa funzione cattolica dove tutti i testi ufficiali della liturgia erano assenti. Canzoni tedesche avevano preso il posto del Kyrie, del Gloria, del Sanctus e dell’Agnus Dei; non si disse il Credo, sostituito da un inno che era lontano dall’esprimere il Credo apostolico o quello niceno. Mi chiesi se quella era la forma ordinaria del rito romano che il Papa Benedetto vorrebbe mettere allo stesso livello della Messa del vecchio rito, ora chiamato straordinario: sono certo che Sua Santità non sarebbe d’accordo.

Negli anni che seguirono la sospensione del vecchio rito la Federazione Una Voce intraprese innumerevoli interventi a tutti i livelli con i vescovi, e a Roma stessa, rendendo nota all’autorità la sofferenza dei fedeli privati del nutrimento spirituale con il quale erano cresciuti: il provincialismo di una comunità che fu universale e unita da un linguaggio universale, l’incoraggiamento del particolarismo e la tendenza alla frammentazione in chiese nazionali, la mancanza di cattolicità, gli abusi che sono subentrati alle dignitose funzioni divine e la tragica perdita anche dei valori culturali.

“Il latino – recitava il titolo di un quotidiano tedesco – è diventato una lingua morta soltanto dopo il Concilio Vaticano II”.

In molti luoghi furono lanciate proteste contro questa distruzione: una delle più spettacolari fu un appello pubblicato sul Times di Londra il 6 luglio 1971, che paragonava tale distruzione alla demolizione delle cattedrali costruite per la celebrazione della vecchia Messa. Non soltanto dei cattolici come Graham Green, ma anche persone di altre affiliazioni religiose come Philip Toynbee, Vladimir Ashkenazi, Robert Graves, Yehudi Menuhin, Agatha Christie, Nancy Mitford and Joan Sutherland, per citarne alcuni, fece notare alla Santa Sede “la spaventosa responsabilità cui incorrerebbe nella storia dello spirito umano rifiutando alla Messa tradizionale di sopravvivere”. E la figura imponente del patriarca ecumenico di Costantinopoli Athenagora implorò a Paolo VI :”Santo Padre per favore non cambiate la liturgia!”.

Benché Roma non intendesse deflettere dal cammino scelto, i capi della Federazione Internazionale Una Voce, in tutta umiltà, mantennero la loro posizione. E in palese contrasto con la realtà furono intonati inni a lode dei “frutti” che erano stati raccolti dall’albero delle cosiddette riforme. Tutto ciò era frustrante, specialmente per il dr. de Saventhem, il quale nondimeno continuò i suoi interventi presso la Curia romana, alla quale aveva accesso.
Poi, nel 1984, Roma dovette ammettere apertamente che la questione della vecchia Messa non era chiusa definitivamente, come si faceva apparire dopo il 1970, quando il Novus Ordo era divenuto legge comune per la Chiesa latina. Quattuor abhinc annos, firmato dal nostro amico il card. Augustin Mayer, dichiarò fragorosamente che “il problema continua”.

Avevamo un nuovo Papa.
Per Paolo VI la questione della liturgia era stata, abbastanza stranamente, un ingrediente essenziale di tutto il Concilio Vaticano II e non vi era dubbio che egli aveva voluto quella liturgia per segnare la fine di quella tridentina, mentre Giovanni Paolo II, che non era un grande liturgista, non vedeva alcun problema nella coesistenza, fianco a fianco, delle due forme del rito. Era solo una questione di disciplina, egli disse all’arcivescovo Lefebvre, il francese “ribelle”, in un’udienza concessa poco tempo dopo la sua elezione al seggio di san Pietro.
Ma quando filtrò in Curia la notizia che Sua Santità intendeva concedere alla vecchia Messa uno status uguale, ebbe luogo una specie di sollevazione: il card. Knox protestò aspramente, rifiutando ogni cooperazione da parte del suo dicastero e decidendo di compilare quel sondaggio che avrebbe dato i risultati desiderati. Soltanto meno del 2% dei cattolici desideravano la liturgia tradizionale, sostenne il cardinale, una percentuale che ci ricordava i risultati delle elezioni nell’impero sovietico, mentre le Federazione Una Voce si rivolse ai sondaggi neutrali Gallup, che avevano prodotto risultati opposti.

Di fronte a quella ribellione del card. Knox, il Papa cedette, ma non del tutto. Egli decise per un approccio passo dopo passo e così nacque l’Indulto del 1984.

In un discorso alla riunione di Una Voce Germania nell’ottobre del 1984, il dott. de Saventhem analizzò il documento, che poteva essere interpretato, egli disse, in vari modi, in modo positivo o negativo. Innanzitutto, egli dichiarò, era certo che da quel momento in avanti la vecchia Messa, nella forma del messale romano del 1962, era di nuovo parte della tradizione liturgica cattolica. Secondariamente le filiali nazionali della Federazione Una Voce dovevano mettersi in contatto con i vescovi diocesani per scoprire se noi eravamo considerati interlocutori validi. In terzo luogo, egli come presidente della Federazione Internazionale Una Voce, sarebbe andato a Roma per chiarire quei punti dell’indulto che erano ambigui. Eric de Saventhem terminò il suo discorso citando Louis Salleron: “Il diritto alla celebrazione della vecchia Messa è ostacolato da una quantità di condizioni. Ma un passo in avanti è stato fatto e non può più essere annullato. Ci saranno certamente lotte, resistenze e cavilli: troppo tardi perché la vecchia Messa è stata restituita alla Chiesa”.

Gli anni seguenti furono ancora di ardua lotta.
I permessi per la celebrazione della Messa tradizionale, se c’erano, erano concessi solo malvolentieri; noi eravamo ignorati, diffamati e ostracizzati. La vecchia Messa, laddove era concessa, fu marginalizzata: ci vorrebbe troppo tempo per elencare tutti i cavilli che Louis Salleron aveva predetto. Rimanemmo una Chiesa nelle catacombe.
La signora Rheinschmitt, che con la sua organizzazione era diventata un’attivissima alleata di Una Voce Germania, fece notare a quel tempo che secondo la sua esperienza i luoghi dove si era ottenuta la vecchia liturgia erano trattati come gli ambienti dove si riunivano i drogati per le loro orge.

Poi, la consacrazione a Ecône dei quattro vescovi da parte di mons. Lefebvre il 30 giugno 1988 produsse il motu proprio Ecclesia Dei adflicta. Ma nonostante l’auspicio del Santo Padre Giovanni Paolo II “che il desiderio di tutti coloro che si sentivano legati alla tradizione latina della Chiesa latina fosse rispettato”, tale auspicio e tale desiderio furono largamente ignorati dall’episcopato.

Ancora una volta, i soci di Una Voce avevano davanti a loro degli anni frustranti.
“Il voto con i piedi dei fedeli” che era cominciato nel momento in cui iniziavano gli esperimenti liturgici dopo il Concilio, continuò, per cui il presidente de Saventhem, in un instante di scoramento dopo l’esperienza negativa di quattro anni, parlò del “deprimente e detestabile” indulto del 1984 oltre al quale il motu proprio Ecclesia Dei adflicta del 1988 offriva nulla più che la promessa di una generosa attuazione.
Perché così poco e perché non seguire il suggerimento della commissione di quegli otto cardinali del dicembre 1986, che aveva concluso che quell’indulto era impraticabile e doveva essere sostituito da un nuovo regolamento, cioè: ogni sacerdote che celebrava l’Eucaristia doveva essere libero di scegliere tra il messale del 1970, contenente il nuovo rito e il messale del 1962 con l’ultima edizione del rito tridentino, non aveva importanza se con i fedeli o senza, sine aut cum populo?

2. A che punto siamo oggi?
Siamo giunti alla seconda parte delle nostre considerazioni.
Con l’elezione al soglio di san Pietro del card. Joseph Ratzinger, è sorta una situazione totalmente nuova. Il nuovo papa, che come cardinale non aveva lasciato dubbi riguardo a che posizione liturgica tenesse e che aveva ripetutamente celebrato nel suo Paese natale e altrove secondo il rito tradizionale, è naturalmente la stessa persona di prima, soltanto con una quasi sovrumana responsabilità per la Chiesa universale, sulla cattedra di San Pietro. Le dure critiche che come cardinale, come prefetto della Sacra Congregazione della Fede e come autore di non pochi libri e pubblicazioni, aveva diretto contro la quasi distruzione della liturgia nel periodo successivo al Vaticano II, sono agli atti. Ma, come la vedo io, papa Benedetto XVI, come nuovo Papa, deve tener conto della Chiesa nel suo complesso e della resistenza di quelli che sembrano essere ancora molti vescovi che palesemente si oppongono alla Chiesa così come si presentava prima del Vaticano II, specialmente nel suo atto più nobile, il Sacrificio della Messa. Da qui gli sforzi del Papa per colmare il divario tra le due Chiese immaginarie: la sua insistenza sull’ermeneutica della continuità.

Noi siamo convinti che questo divario possa essere colmato riportando la forma classica della Messa ad un posto d’onore nella vita liturgica della Chiesa e io personalmente sono certo che Sua Santità non risparmierà alcun sforzo per agire in questo senso.
E" sperabile che con il passar del tempo quest’azione rivolta a sanare le ferite che ancora bruciano sarà apprezzata anche da coloro che ancora si oppongono. Ma potrebbe accadere che il suo alto ufficio di ammaestrare i fedeli e di governare la loro vita liturgica non gli permetterà di attendere fino a che l’ultimo oppositore abbia visto la luce.

Cosa abbiamo ottenuto finora? Si potrebbe dire che il mp Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, a dispetto dell’opposizione, come l’esito del conclave del 19 aprile 2005, è esso stesso un altro miracolo e di nuovo un’impresa quasi sovrumana, come anche una prova di grande coraggio e di attaccamento alla tradizione da parte del Santo Padre. E" una legge per tutta la Chiesa, non per un gruppo limitato, un fatto che è sottolineato dal titolo Universae Ecclesiae, l’istruzione del 30 aprile 2011 per l’attuazione del motu proprio. La Pontificia Commissione Ecclesia Dei è un superiore gerarchico dei vescovi e delle loro conferenze e come tale è autorizzata a dirigere e a correggere le loro attività. Roma è al corrente della loro resistenza, perciò i reclami possono essere diretti a quella commissione. Il Summorum Pontificum e la Lettera ai vescovi che l’accompagna stabiliscono che l’Usus Antiquior e l’Usus Modernus, ora denominati forme straordinaria e ordinaria della Messa, si fondano sulla stessa fede. Il Papa rifiuta l’opinione di coloro che vedono una contraddizione tra le due edizioni del messale romano.

Ma il Papa non risparmia alcuno sforzo per avvicinare il più possibile il messale di Paolo VI a quello che noi usiamo, nella editio typica promulgata dal beato papa Giovanni XXIII (1962).
Molti “liturgisti” hanno tentato di svalutare la vecchia Messa, la sua struttura e la sua teologia, pretendendo che la nuova Messa fosse superiore alla teologia di quella vecchia. Il Santo Padre dice: NO, le due forme non sono opposte l’una all’altra, ma stanno fianco a fianco.

E inoltre: la vecchia Messa deve essere accessibile a tutti i fedeli, è un tesoro di tutta la Chiesa che – indipendentemente dal desiderio di coloro che la desiderano – deve essere conservata;
conservata non come un pezzo da museo, ma per l’utilizzazione nella vita reale e anche come correttivo, poiché la Messa di Papa Paolo VI può beneficiare da questa contiguità, dalla sacralità della forma “straordinaria”.
Dobbiamo condividere una lugubre prospettiva? Forse sì, poiché soltanto un giorno dopo l’apparizione dell’Universae Ecclesiae il portavoce della Conferenza Episcopale tedesca ha reso noto che non c’era “nulla di nuovo” in quel documento, volendo dire: tutto va avanti come al solito.

Ma il mondo cattolico è più grande di un singolo Paese e noi siamo qui come Foederatio Internationalis Una Voce, per cui rincuoriamoci, facciamo il nostro lavoro, stiamo vicini al successore di san Pietro, sosteniamo Sua Santità pregando con fervore che Iddio conceda successo ai suoi sforzi. E un lungo regno!
Malgrado tutto noi possiamo rilevare un considerevole, se non grande, miglioramento per ciò che riguarda la diffusione della forma “straordinaria”. Nel mio stesso Paese i luoghi dove è celebrata sono aumentati rapidamente da quando il Summorum Pontificum è entrato in vigore: il loro numero è quadruplicato. Gli orari e i luoghi di queste celebrazioni sono ora annunciati nelle bacheche delle parrocchie, laddove prima la loro esistenza era tenuta nascosta ai fedeli.

Una Voce Germania e Pro Missa Tridentina provvedono affinché ai congressi e ai raduni cattolici una Messa tradizionale sia celebrata fianco a fianco con la forma ordinaria. Eppure, a tutt’oggi, nessun vescovo a capo di una diocesi in Germania ha mai celebrato secondo il vecchio rito. L’istituzione delle conferenze episcopali sta reprimendo quei vescovi che sarebbero disposti a farlo: sembra che essi abbiano delegato i loro diritti indipendenti alla burocrazia dittatoriale della maggioranza.
 Congratuliamoci con i Paesi dove questa situazione è diversa. 

3. Dove ci stiamo dirigendo?
Giunti alla terza parte, la più breve di questa esposizione, dichiaro che: se avessimo avuto entrambe le forme del rito romano fianco a fianco sin dall’inizio (come aveva suggerito al quel tempo mons. Klaus Gamber, un liturgista molto stimato dal card. Ratzinger), non avremmo avuto bisogno di preoccuparci. Sono certo che la nuova Messa sarebbe stata in una posizione minoritaria, la gente sarebbe rimasta con quello che era stato il rito immemorabile in uso per più di un millennio. E la Chiesa non avrebbe sofferto le perdite che deploriamo.

Ma 40 anni di oppressione hanno lasciato le loro tracce. La maggior parte dei cattolici al mondo oggi non ha alcuna conoscenza della vecchia forma, di conseguenza, come possono conoscere e amare ciò che hanno perduto? Così come si fa appello alla Chiesa nel suo complesso per iniziare una nuova evangelizzazione per la fede, non rimane altro per i gruppi uniti sotto il vessillo della Federazione Internazionale Una Voce che diffondere la conoscenza della liturgia primordiale, ben sapendo che non c’è modo migliore per propagare la fede.

Alla nuova generazione questa liturgia si presenta come una vera rivelazione: poco hanno conosciuto del tesoro che la Chiesa ha in deposito per il bene di tutta la loro esistenza. Un’ardua lotta ci attende ancora, una sfida per combattere le forze di una mentalità protestante, che si è sparsa sulla Chiesa cattolica dal tempo del Vaticano II.
Questa mentalità si trova ovunque. Il cardinale di Vienna, che è lungi dall’essere un prelato dalla mentalità tradizionale, recentemente suggeriva che coloro i quali pretendono a gran voce cose non cattoliche nella Chiesa farebbero forse meglio ad abbandonarla e unirsi ai protestanti.

Ma lasciate che la Chiesa cattolica rimanga cattolica!
Una domanda finale, forse difficile: ha bisogno il movimento Una Voce di una prelatura personale per salvaguardare ciò che è stato ottenuto per la tradizione?
Capisco questo desiderio di sicurezza. Dopo tutto, una volta nel 1998 noi presentammo, su consiglio della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, una proposta per quel fine a una persona vicino al Papa Giovanni Paolo II, e Leo Darroch si diede molto da fare affinché arrivasse al Santo Padre.

Ma Papa Benedetto sembra voler prendere un’altra linea.
Quando, decenni fa, noi considerammo la questione, prematuramente ammetto, avevamo una tendenza contraria alla prelatura personale, per la semplice ragione che ciò poteva portare a una Chiesa dentro la Chiesa; avremmo potuto diventare un gruppo separato, qualcosa di esotico e “diverso” laddove la maggioranza dei cattolici andava per un’altra strada. No, dicemmo noi, noi vogliamo che ogni altro cattolico goda di ciò che noi consideriamo il meglio.
Ma anche quelli che desiderano la sicurezza legale hanno una finalità.

Perciò che ne pensate dell’idea seguente?
Noi dovremmo considerare il termine “straordinario” per la Messa come un titolo d’onore, che significa: nelle occasioni ordinarie la forma “ordinaria” – se celebrata strettamente secondo le rubriche e fedele al latino originale – può bastare per quelli che la preferiscono. Ma nelle occasioni straordinarie la forma “straordinaria” dovrebbe essere resa normativa. Quali sono le occasioni straordinarie? Penserei alle grandi feste della nostra fede, come il Natale, la festa dell’Incarnazione, Pasqua come festa della Resurrezione e come tale la festa delle feste e la Pentecoste come festa dello Spirito Santo. Perciò noi potremmo batterci perché la forma straordinaria diventi quella appropriata, almeno per la Messa solenne cantata. E non è ogni domenica una piccola Pasqua?
In tale giorno la Messa principale dovrebbe pure essere celebrata in questa forma, mentre le altre Messe potrebbero aver luogo nella forma ordinaria.

Io oserei perfino suggerire che una Messa papale è sempre “straordinaria” a suo modo, così quale sarebbe la conseguenza? Mi rendo conto che ciò suona quasi utopistico, e che il Santo Padre rispose negativamente quando un mio amico gli chiese di cominciare a celebrare occasionalmente nel modo tradizionale: dopo tutto come card. Ratzinger lo aveva fatto cosi frequentemente.

Non molto, puntualizzò il Papa, egli aveva fatto quello che poteva: ora toccava ai vescovi fare la loro parte. Ma il tempo va avanti: chi avrebbe osato prevedere anche solo due anni fa, come ha detto il nostro presidente, che un cardinale avrebbe celebrato per Una Voce una Messa secondo la forma straordinaria nella cappella del SS. Sacramento nella basilica di S. Pietro, com’è avvenuto ieri?
Noi sappiamo che ha del miracoloso ciò che Sua Santità ha realizzato in pochi anni contro montagne di opposizioni, eppure, se davvero il rito ordinario e quello straordinario sono entrambi forme legittime dell’unico rito romano, allora sembrerebbe la cosa più naturale che in ogni chiesa entrambe le forme fossero regolarmente presenti. Ogni esitazione a compiere ciò non conferma e giustifica coloro – nel campo progressista e in quello tradizionalista – che vedono in questa asserzione di esserci un solo rito un’invenzione per evitare di ammettere che una breccia è stata davvero aperta alla tradizione? Quarant’anni fa la Federazione Una Voce non avrebbe nemmeno sognato che un giorno alla Messa tradizionale sarebbe stato riconosciuto lo stesso status legale della Messa di Paolo VI. Chiunque lo avesse predetto sarebbe stato accusato di vagheggiare un’utopia.

Ma quest’utopia si è realizzata, è diventata realtà.
Pertanto diamoci da fare per rendere il riconoscimento legale ad una realtà da vivere e da praticare.
Ci vorrà del tempo. E soltanto se ciò avviene noi potremmo mirare a un’altra utopia: la visione della forma straordinaria che scambia i ruoli con quella ordinaria, diventando di nuovo la forma principale nella Chiesa. Chissà, tra quarant’anni non potrebbe quest’utopia cominciare a diventare la nuova realtà?




* S. E. Helmut Ruckriegel, ambasciatore tedesco, è presidente emerito di Una Voce Germania. Il presente articolo è tratto dalla conferenza pronunciata alla XX assemblea generale della federazione internazionale tenuta a Roma il 5 e 6 novembre 2011. Traduzione dall’inglese a cura di Mario Seno.