Sante Messe in rito antico in Puglia

sabato 31 gennaio 2015

Inizio del Tempo di Settuagesima


Antonio María Esquivel, Espulsione di Lucifero dal Cielo ad opera di S. Michele arcangelo, 1840

Aureliano Milani, Cacciata di Adamo ed Eva, XVIII sec.

“Dedit illi Deus sapiéntiam, et prudéntiam multam nimis, et latitúdinem cordis, quasi arénam quæ est in líttore maris” (III Reg. 4, 29 – Intr.) - SANCTI JOANNIS BOSCO, CONFESSORIS

Sogno delle due Colonne

Apparizione della Vergine a don Bosco, che gli indica il luogo della costruzione della Basilica di S. Maria Ausiliatrice


Mario Caffaro Rore, Ritratto di Don Bosco, patrono della gioventù cattolica, Torino, 1941

Carlo Felice Deasti, Don Bosco con un gruppo di missionari salesiani in partenza per l'allora Repubblica dell'Equatore, Torino, 1887

Carlo Felice Deasti, Don Bosco defunto in abiti sacerdotali, Torino, 31 gennaio 1888

Carlo Felice Deasti, Catafalco per Don Bosco defunto in abiti sacerdotali nella chiesa di S. Francesco di Sales, Torino, 1° febbraio 1888

Nuova urna di S. Giovanni Bosco in occasione del bicentenario della nascita (1815-2015)

Il sogno dei 9 anni



Estratto da "Il ragazzo del sogno"

Un meraviglioso film su S. Giovanni Bosco del 1988





giovedì 29 gennaio 2015

“On prend plus de mouches avec une cuillerée de miel, qu’avec cent tonneaux de vinaigre” - SANCTI FRANCISCI SALESII, EPISCOPI, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

Il santo, nato il 21 agosto 1567, ordinato sacerdote nel 1593, impegnato dal 1593 al 1598 nella missione di Chablais che terminò con la conversione di 70.000 protestanti; ordinato vescovo di Ginevra nel 1602. Egli è famoso per la sua attività di propaganda e di predicazione. Infilava volantini sotto le soglie delle porte, affiggeva manifesti, stampava fogli da far distribuire, ecc. Tutto ciò lo faceva per far tornare i protestanti alla fede cattolica. A chi gli rimproverava la dolcezza nei riguardi dei protestanti, rispondeva che non poteva mutare atteggiamento dopo che aveva, per tutta la vita, dominato il suo carattere. Famosa è anche l’espressione secondo cui si può prendere meglio un pugno di mosche con un cucchiaio di miele piuttosto che con un barile di aceto: «On prend plus de mouches avec une cuillerée de miel, qu’avec cent tonneaux de vinaigre». Scriveva in maniera colorita, parlando della correzione animata da vera carità: «Nelle buone insalate ci vuole più olio che aceto e sale. Procurate di essere il più mansueto possibile e ricordatevi che si prendono più mosche con poco miele che con cento barili d’aceto» (Una sorella della Visitazione, L’amore è la vita del nostro cuore. 100 pagine di Francesco di Sales, Roma 2003, p. 93).
Il grande santo della mansuetudine, dell’amabilità e dell’amore di Dio morì a Lione il 28 dicembre 1622, ma poiché questo giorno è già consacrato al natale degli Innocenti a cui tra l’altro Francesco era tanto devoto, la sua memoria fu ritardata sino ad oggi, anniversario della traslazione del suo corpo ad Annecy.
La Messa è quella del Comune dei Dottori, ma come avvenuto per la festa di sant’Ilario, la prima colletta è propria e fu composta da papa Alessandro VII, al secolo Fabio Chigi, fervente seguace del nostro Santo e della sua spiritualità, a cui il Santo Vescovo aveva predetto la vocazione ecclesiastica ed il supremo pontificato e che avrebbe elevato il nostro Santo agli onori degli altari nel 1661 con la beatificazione e nel 1665 con la canonizzazione. Due fiorenti istituti religiosi rappresentano attualmente la posterità spirituale di san Francesco de Sales, e questi sono le religiose della Visitazione, direttamente istituite da lui; e la congregazione salesiana, che san Giovanni Bosco trasse dal cuore stesso e dallo spirito del santo vescovo di Ginevra.
La caratteristica del santo vescovo fu la dolcezza e l’umiltà del cuore, virtù per mezzo delle quali convertì circa settantamila eretici alla fede cattolica e guidò una folla di anime verso le sommità più elevate della perfezione. La rudezza delle maniere, lo zelo impetuoso e l’impazienza non sono sempre i mezzi migliori per condurre le anime a Gesù Cristo, poiché la virtù, per essere amata, deve mostrarsi amabile e rendersi accessibile a tutti i cuori. Qual è il segreto di una tale abnegazione? La pienezza dell’amore di Dio, poiché, come dice l’Apostolo, Charitas non quærit quæ sua sunt.
Due chiese a Roma sono dedicate al nostro santo.
Una, fondata nel 1669, si trova attualmente nel rione Trastevere, all’interno del carcere di Regina Coeli. Originariamente, annesso alla chiesa era il convento delle Visitandine sino al 1793. In seguito, vi vennero le Serve di Maria sino a che, nel 1870, non vi fu l’espropriazione da parte dello Stato italiano (Cfr. Mariano Armellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Tipografia Vaticana, Roma 18912, pp. 654-655), che dapprima trasformò il convento in carcere femminile, poi, in caserma ed infine annesso al vicino carcere di Regina Coeli. La chiesa, per anni sconsacrata, è stata riaperta al culto nel novembre 2005, ed è dedicata a Santa Maria della Visitazione e San Francesco di Sales.
Un’altra chiesa, dedicata al Santo vescovo, infine sorge nel quartiere Alessandrino. Essa è stata costruita tra il 2003 ed il 2004 e consacrata nel gennaio 2005, sebbene la sua istituzione risalisse al 1961. 



mercoledì 28 gennaio 2015

Ritrovata una nuova “Vita” di S. Francesco d’Assisi attribuibile a Tommaso da Celano

Nella memoria di S. Pietro Nolasco e seconda di S. Agnese, rilancio una notizia che è stata trascurata da molti blog cattolici. Si tratta della notizia di una scoperta di un nuovo testo di Tommaso da Celano (v. anche il sito di medievalhistories); notizia che non mancherà di riempire di gioia i veri estimatori del grande Santo d'Assisi, oggi tra i più incompresi, deformati e falsificati della storia della santità della Chiesa.
Indubbiamente questa scoperta senz'altro getterà ulteriore luce sulla figura del Poverello, contribuendo a rimuovere quella patina di uomo irenista, pacifista, pauperista, buonista, animalista ante litteram, ...; aggettivi questi che non possono in alcun modo attribuirsi allo Stigmatizzato de La Verna, come messo in luce dalla storiografia più recente (v. qui).

* * * * * * *

Un nuovo manoscritto sulla vita di san Francesco, l'eccezionale scoperta che ci riempie di gioia

di Felice Acrocca
Storico



La notizia della scoperta di una nuova vita di san Francesco certo fa fare salti di gioia. Un articolo su Le Monde, sabato 24, e un altro (non privo di inesattezze) del medesimo tenore sul Corriere della sera, domenica 25 gennaio, hanno diffuso la notizia che Jacques Dalarun ha rintracciato, in un manoscritto proveniente da una collezione privata e ora – grazie all’interessamento dello stesso Dalarun – acquisito per 60.000 euro dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, una nuova vita del Santo che sarebbe stata scritta da Tommaso da Celano, dopo che l’agiografo abruzzese aveva redatto, tra il 1228 e il 1229, la sua prima opera (la Vita beati Francisci, più conosciuta come Vita prima), e prima che mettesse mano a scrivere il Memoriale (meglio noto come Vita secunda, circa 1247).
Jacques Dalarun ha infatti reso noto che nel settembre 2014 ricevette una mail da Sean L. Field, che gli segnalava la notizia di un manoscritto posto all’asta nel sito Les Enlumineurs, una delle migliori gallerie sul Medio Evo e il Rinascimento: un manoscritto che prometteva di rivelarsi interessante! Quando ha potuto trascrivere il Prologo del testo, Dalarun si è reso conto che il codice trasmetteva un’opera del primo agiografo di san Francesco, il quale si rivolgeva a frate Elia, allora ministro generale, dichiarando che alcuni frati lamentavano il fatto che la sua opera (la Vita beati Francisci, appunto) fosse troppo lunga e gli chiedevano di farne un compendio. Nello stesso Prologo, Tommaso riconosceva che proprio Elia (ministro generale tra il 1232 e il 1239) gli aveva fornito le informazioni necessarie per scrivere l’opera precedente.
Secondo Dalarun non solo l’opera è stata scritta da Tommaso negli anni Trenta del Duecento, ma il manoscritto stesso, di origine centro italica, risale a quegli anni, ciò che rende il tutto davvero molto interessante. Infatti, il codice, 122 fogli di piccola dimensione (120 x 82 mm), contiene diversi florilegi, delle collezioni di sermoni, le Ammonizioni di san Francesco, un commento al Padre Nostro. Ora, se davvero il codice è stato scritto negli anni Trenta, vale a dire pochi anni dopo la morte del Santo, ci troveremmo di fronte al testo più antico delle Ammonizioni; inoltre, che rapporto c’è tra il commento al Padre Nostro e la Preghiera sul Padre Nostro (così l’intitola l’ultimo editore) che compare tra gli scritti di Francesco? E tra i sermoni in questione potrebbe forse trovarsi quello pronunciato da Gregorio IX in occasione della canonizzazione dell’Assisiate, che sappiamo traeva esordio dal versetto biblico Quasi stella matutina e di cui finora si è persa ogni traccia? Forse sto sognando, ma sognare – almeno fino a che non si avrà la possibilità di studiare il codice – non costa nulla.
Certo, è ben difficile che in epoca posteriore qualcuno si mettesse a copiare un’opera che nel Prologo dava un tale risalto a frate Elia, vittima, dopo la sua deposizione dal governo dell’Ordine (1239) di una efficacissima damnatio memoriae. Anche sull’origine centro italica mi pare di poter concordare, a partire però dalla sola foto (certo non di qualità) pubblicata dal Corriere della sera.
La nuova Vita produce qualcosa di nuovo in merito alla conoscenza di Francesco oppure si limita ad abbreviare la precedente opera di Tommaso? Per ora, nulla può dirsi di preciso, finché non si avrà a disposizione il testo. Resta il fatto che l’eccezionale scoperta ci riempie di gioia e infonde fiducia che non tutti i giochi son fatti: vale a dire che altre scoperte sono ancora possibili, come testimonia il fatto che nemmeno quarant’anni or sono Giovanni Boccali ritrovò un brano poetico indirizzato da Francesco a Chiara e alle sue sorelle (si tratta dell’Audite poverelle).
Anche per questo il nostro grazie a Jacques Dalarun, tra gli studiosi di francescanesimo uno tra quelli maggiormente impegnati nello studio delle opere agiografiche su san Francesco d’Assisi, non può che essere spontaneo, grande e sincero.

martedì 27 gennaio 2015

“Testíficor coram Deo … praédica verbum, insta opportúne, importúne: árgue, óbsecra, íncrepa in omni patiéntia, et doctrína” (II Tim. 4, 1-2 – Ep.) - SANCTI JOANNIS CHRYSOSTOMI, EPISCOPI CONSTANTINOPOLITANI, CONFESSORIS ET ECCLÉSIÆ DOCTORIS

Quest’invincibile campione della verità dovette soccombere alle pene dell’esilio a Komoma o Cumano (l’attuale Gumenek), nel Ponto, nell’odierna Turchia, il 14 settembre 407. Tuttavia, poiché questo giorno la Chiesa romana celebrava dapprima la festa dei martiri Cornelio e Cipriano, poi aveva fissato quella dell’Esaltazione della santa Croce, la sua memoria fu trasferita al 27 gennaio, anniversario della traslazione del suo corpo a Costantinopoli.
I Bizantini ed i Copti celebrano la festa del nostro Santo il 13 novembre, anniversario del suo ritorno trionfale a Costantinopoli dopo il suo primo esilio (403), mentre i siriaci anticipano il suo natale al 13 settembre. In Occidente, il calendario di Napoli, nel quale si mescolano le tradizioni latine e quelle bizantine, annuncia la deposizione di san Giovanni Crisostomo il 13 novembre, ma Floro ne fa memoria il 27 gennaio, giorno della traslazione del suo corpo a Costantinopoli nel 438. Adone ed Usuardo hanno conservato la stessa data. La memoria di san Giovanni Crisostomo penetrò a Roma nell’XI sec., contemporaneamente a quella di san Basilio, grazie al sacramentario di san Lorenzo in Damaso, nel quale si possono scoprire numerose tracce d’influenza orientale. Nel secolo successivo, è sempre alla data bizantina che la festa è iscritta nel sacramentario di san Trifone e poi nel calendario di san Pietro. Nel XII sec., non si fa ancora menzione di una tradizione secondo la quale il corpo di san Giovanni Crisostomo sarebbe stato trasferito a san Pietro (così Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, p. 310) da cui, ahimé, in gran parte, con una dolorosa e discutibile donazione il papa Giovanni Paolo II, unitamente alle reliquie di S. Gregorio il Teologo (di Nazianzio), il 27 novembre 2004, le fece consegnò agli scismatici bizantini, auspice il noto card. Kasper, e sono oggi conservate nella chiesa bizantina di S. Giorgio ad Istanbul.
Roma cristiana ha dedicato al nostro santo una chiesa nel quartiere Monte Sacro Alto costruita alla fine degli anni ‘60 del XX sec. e titolo cardinalizio dal 1969.
San Giovanni Crisostomo morì vittima dei maltrattamenti e delle pene subite per la fede e per l’esercizio intrepido dei suoi doveri episcopali di fronte alla corte corrotta di Bisanzio. Tuttavia poiché alcuni prelati, notoriamente cattolici, presero parte alla persecuzione che egli soffrì – il Signore lo permise così per perfezionare la virtù del Santo – e poiché egli non morì propriamente parlando di morte violenta per la difesa del dogma cattolico, la messa in suo onore è quella dei vescovi confessori e non quella dei martiri.
La festa di san Giovanni Crisostomo nel calendario romano oggi assume un significato speciale e dimostra come il primato pontificio rappresenti una fonte di bene ed una garanzia di libertà per tutta la Chiesa cattolica. Giovanni, vinto dai suoi avversari e deposto dalla sua sede, secondo il giudizio di vescovi legati alla Corte bizantina, si appellò alla Cattedra apostolica (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Ad Innocentium Papam, Etiam antequam, aprile 404, in PG 52, col. 529C-536A, nonché nel corpus di Innocenzo I, Ep. IV, in PL 20, col. 494B. La lettera al Papa ci è tramandata da manoscritti posteriori (a cominciare forse dal VII sec.) dell’opera di Palladio di Elenopoli, Dialogus Historicus cum Theodoro, Ecclesiæ Romanæ diacono, De vita et conversatione Beati Joannis Chrysostomi, Episcopi Constantinopolis, cap. II, in PG 47, col. 8B-12B, ora in Id., Dialogo sulla vita di Giovanni Crisostomo, trad., introduzioni e note di Lorenzo Dattrino (a cura di), Roma 1995, pp. 105 ss.).
Il papa Innocenzo I prese immediatamente le difese del perseguitato (Sant’Innocenzo I, Ad Joannem Chrysostomum Constantinopolitanum Episcopum, Etsi innocens (o Etsi insontem), Ep. XII, in PL 20, col. 513A-514B ed in PG 52, col. 537A-538A), in cui lo riconosce innocente, lo definisce «tot popolorum doctor et pastor», «dottore e pastore di tanti popoli», e lo esorta alla pazienza richiamandogli i numerosi esempi di santi e di giusti tribolati in vario modo, di cui si narra la storia nelle Sacre Scritture), annullò l’ingiusta sentenza e, dopo la morte del Crisostomo, esigé dai suoi avversari, come condizione di comunione con la Sede pontificia, che il suo nome fosse di nuovo inserito nei dittici episcopali (Innocenzo – Bonifacio Presbitero, De pace Antiochenæ ecclesiæ impertita, Ecclesia Antiochena, Ep. XXIII, in PL 20, col. 546A-547A), che, nelle forme giuridiche dell’epoca, era equivalente ad una canonizzazione. Il papa scrisse anche una lettera di consolazione al clero e al popolo di Costantinopoli, nel 404 o 405, esprimendo il proprio rifiuto di entrare in comunione col vescovo che era stato insediato al posto del grande Proscritto, del Crisostomo, e attestando di adoperarsi perché venisse convocato un concilio ecumenico (Ad Clerum et popolum Constantinopolitanum, Ex litteris, Ep. VII, in PL 20, col. 501B-508A ed in PG 52, col. 537B-538C).
Oggi, gli scismatici orientali hanno troppo facilmente dimenticato l’opera della Chiesa romana e le lotte sostenute un tempo dai papi per difendere precisamente l’ortodossia e la fama dei più grandi dottori, come Basilio, Atanasio, Giovanni Crisostomo, ecc. Ma non si può cambiare la storia e questa dimostra, per l’Oriente soprattutto, che l’esercizio del Primato pontificio è stato nell’antichità la garanzia dei primi concili ecumenici e l’ancora di salvezza che, nel naufragio che minacciava già le disgraziate Chiese orientali, afferrava con fiducia questi campioni dell’ortodossia cattolica.
Δόξα τ Θε πάντων νεκεν. «Benedetto sia Dio per tutto!». Fu l’ultimo grido del nostro santo, valoroso campione della fede, quando già la morte si preparava a mettere fine ai suoi tormenti ed a sottrarlo alla mano degli sbirri. Sì, in verità, che in tutto Dio sia lodato, ma più in particolare quando ci conferisce l’onore inestimabile di soffrire qualche cosa per Lui, poiché la croce è sempre la condizione più propizia per fare del grande progresso nelle vie di Dio.
La morte del santo vescovo, infatti, ricorda molto da vicino quella di un martire.
I soldati della guardia imperiale, infatti, lo conducevano e lo costringevano a camminare velocemente. Speravano di giungere, per mezzo delle stanchezze eccessive, a sbarazzarsi del santo. A dispetto della pioggia che cadeva violentemente, i soldati lo spingevano senza pietà davanti a loro. Non si faceva mai pausa nelle città e nelle borgate. Malgrado tutti questi maltrattamenti, il santo conservò, durante questi tre mesi di un viaggio faticoso, la sua calma e la sua serenità.
Dopo avere attraversato, senza fermarvisi, la città di Komona, si fece pausa a cinque o sei miglia da questa, vicino al santuario di un martire. Lì, durante la notte, il santo vescovo vide, in una visione, san Basilisco, vescovo di Komoma, che era stato martirizzato in Bitinia, sotto l’imperatore Massimino; con lui era il martire Luciano di Antiochia: «Coraggio Giovanni, fratello mio», gli dice il santo vescovo, «domani, saremo riuniti insieme». Nella fede a questa promessa, il santo chiese l’indomani mattina ai soldati di lasciarlo in questo luogo fino all’ora quinta. Ma questi si rifiutarono e lo costrinsero a partire. Ma appena aveva fatto trenta stadi, si videro costretti a tornare sui loro passi perché Giovanni era caduto malato. Il santo vescovo domandò gli abiti bianchi che convenivano alla purezza della sua vita. Distribuì i propri abiti ai presenti, conservando solo le sue scarpe. Dopo aver ricevuto i santi misteri e fatto dinanzi ai fedeli raccolti la sua ultima preghiera con la formula abituale, che abbiamo ricordato: «Benedetto sia Dio per tutto» («doxa to Theo pantôn eneke»), colui i cui piedi non si erano stancati per portare i penitenti alla salvezza e distogliere i grandi peccatori dalla via della perdizione, entrò nel suo eterno riposo. Era il 14 settembre 407. Il suo corpo fu trasferito a Costantinopoli, sotto Teodosio II, il 27 gennaio 438.


Cristo benedicente tra i Santi Padri, VIII sec., chiesa di Santa Maria Antiqua, Roma. Cristo con nimbo cruciforme è seduto sopra una cattedra coperta di porpora, in atto di benedire con la destra, mentre con la sinistra tiene un libro. Ai lati, santi in ricchi costumi bizantini; quelli a destra del Salvatore appartenenti alla Chiesa di Occidente, quelli a sinistra alla Chiesa di Oriente. I nomi, scritti in greco, sono dipinti in bianco verticalmente fra ciascun santo. Questi affreschi sono riferibile al pontificato di Paolo I (757-767).

S. Giovanni Crisostomo (a ds.) e S. Basilio (a sn.), chiesa di Santa Maria Antiqua, Roma


S. Giovanni Crisostomo, Basilica di Hagia Sophia, Istanbul

Οι Άγιοι Τρείς ΙεράρχεςIcona dei Tre Santi Gerarchi (celebrati il 30 gennaio): Basilio, Giovanni Crisostomo e Gregorio il Teologo 

Icona dei Tre Santi Gerarchi: Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo e Basilio 

Jean-Paul Laurens, S. Giovanni Crisostomo e l’imperatrice Eudossia, 1893, Musée des Augustins, Tolosa

lunedì 26 gennaio 2015

Pulpito sbadiglio ovvero della noiosità di molte omelie

Nella memoria di S. Policarpo, vescovo e martire, volentieri rilancio questo contributo di Matteo Matzuzzi.


Pulpito sbadiglio

Spiegare le Scritture, svegliare i fedeli. Fare la predica è il lavoro più importante dei preti e nessuno lo sa più fare. Papi in allarme

di Matteo Matzuzzi

“Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente!”, diceva Papa Francesco ai rappresentanti del clero riuniti ad Assisi nell’ottobre del 2013

“Il testimone è colui che vive per primo il cammino che propone”. (Benedetto XVI)

Il miracolo della chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie”, disse una volta il cardinale Joseph Ratzinger passando mentalmente in rassegna uno dei grandi punti dolenti della chiesa, l’incapacità dei suoi ministri di predicare bene. Qualità rara, ben pochi sono in grado di tenere alta l’attenzione dei fedeli spiegando, spesso per sommi capi, i contenuti delle Scritture. E anche i migliori, a volte, incappano in qualche défaillance. Perfino san Paolo, che gli Atti degli apostoli presentano come il più intrepido e audace predicatore di Cristo “sino agli estremi confini della terra”, ogni tanto la tirava troppo alla lunga, al punto che “un ragazzo di nome Eutico, seduto alla finestra, mentre Paolo continuava a conversare senza sosta, fu preso da un sonno profondo; sopraffatto dal sonno, cadde giù dal terzo piano e venne raccolto morto”. Il punto è che la grande maggioranza delle omelie pronunciate dai pulpiti o, più spesso, dagli amboni, sono perle di rara bruttezza. Se ne rendeva perfettamente conto perfino un insigne principe della chiesa come il cardinale Tomas Spidlik, convinto che “il motivo per cui la chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere nonostante ciò che abbiamo ascoltato”. La pensava così pure Yves Congar, che notava come “in Francia, nonostante oltre trentamila prediche ogni domenica, c’è ancora fede”. E’ sufficiente fare il giro di qualche parrocchia, la domenica mattina, da nord a sud della penisola, per accorgersi dello stato desolante della predicazione.
Non è un problema nuovo, di oggi, visto che già Paolo VI, nell’enciclica Ecclesiam suam promulgata un anno dopo l’elezione al Soglio di Pietro, scriveva che “dobbiamo ritornare allo studio non già dell’umana eloquenza, o della vana retorica, ma della genuina arte della parola sacra. Dobbiamo cercare le leggi della sua semplicità, della sua limpidezza, della sua forza e della sua autorità per vincere la naturale imperizia nell’impiego di così alto e misterioso strumento spirituale, qual è la parola”. E questo perché “la predicazione è il primo apostolato”. Servirebbero preparazione e studio, invece oggi si tende a improvvisare, ponendo sconfinata fiducia sulle proprie doti oratorie: “Quella dell’improvvisazione è, forse, la piaga principale dell’omelia, la causa più diffusa dei suoi fallimenti”, scrive Adriano Zanacchi, docente all’Università per stranieri di Perugia, all’Università pontificia salesiana e alla Sapienza nel libro “Salvare l’omelia” (Edizioni Dehoniane Bologna). C’è oggi la tentazione, sottolinea, ad “abusare di un particolare significato del termine ‘omelia’ indicato dai dizionari”, e cioè “di parlare per immediata ispirazione confidando indebitamente nello Spirito Santo come surrogato della dovuta preparazione”. Un po’ come accade all’atteggiamento degli “studenti impreparati che vanno ad accendere un cero davanti all’immagine di qualche santo nel giorno dell’interrogazione”.
Non serve fare come il santo curato d’Ars, che passava le notti in sacrestia meditando omelie efficaci attraverso le quali inculcare alle duecento anime del povero villaggio francese i fondamenti del catechismo dopo gli sconvolgimenti rivoluzionari e controrivoluzionari che avevano portato alla chiusura di centinaia di parrocchie su tutto il territorio nazionale. A forza di presentare le vite dei santi nella forma più semplice possibile, di parlare di Inferno e Regno dei Cieli con parole comprensibili lontane dal dotto latinorum che san Vianney poco e male padroneggiava, i suoi parrocchiani divennero tra i più esperti conoscitori delle vicende bibliche, anche a decenni di distanza da quelle severe e brevi lezioni mattutine. Certo, pur senza passare nottate seduti al tavolo da studio, le Scritture del giorno sarebbe opportuno conoscerle, così da non fare come quel misterioso vescovo – scrive Zanacchi – “che nell’imminenza della celebrazione chiedeva a chi lo assisteva quali fossero le letture del giorno”. La scarsa preparazione non è tipica solo delle domeniche del tempo ordinario, magari estive, quelle cioè dove la partecipazione dei fedeli è bassa e distratta e quindi il sacerdote può anche improvvisare qualche parola sul momento. No, accade anche nelle Solennità più importanti, compresa la Pasqua di Resurrezione, quando può capitare di sentire il sacerdote infarcire un discorso di venticinque minuti con una serie di “dunque”, “ecco”, “allora”, “cari fratelli e sorelle” e passare dalla constatazione che il Cristo-è-risorto-alleluja a quanto lavorò il giovane Karol Wojtyla nella Polonia comunista, e così pure Angelo Roncalli nei suoi difficili anni tra la Bulgaria e la Turchia. Il trait d’union di tutto ciò? Il fatto che una settimana dopo Pasqua ci sarebbe stata la duplice canonizzazione di Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII, spiegava il sacerdote in questione.
In effetti, “molte omelie improvvisate finiscono per mancare, frequentemente, di un filo conduttore, per condurre alla banalizzazione del discorso, alla sua superficialità e dispersività, alle frasi fatte, alle parafrasi abborracciate delle letture appena sentite, alle esortazioni astratte, ripetitive, all’assenza di agganci concreti e forti alla vita dei fedeli e alla realtà in cui vivono tutti i giorni”, sottolinea ancora Zanacchi. Del problema è ben consapevole il Papa regnante, Francesco, che appena insediatosi in Vaticano ha rotto con la tradizione decidendo di tenere ogni mattina, all’alba e nella cappella del residence dove ha scelto di abitare, una messa con gruppi di invitati che possono sentire così dalla sua voce l’omelia basata sulle letture del giorno. Parole che vengono poi riprese dalla Radio Vaticana e dall’Osservatore Romano. Una cosa che mai era accaduta prima. Ed è stato lui, Bergoglio, a tuonare più d’una volta contro la “brutta predica”. Ad Assisi, incontrando il clero, le persone di vita consacrata e i membri dei consigli pastorali, parlando del sacerdote si domandò “come può predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio, la Parola di Dio? Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente. Questo è per voi!”. Sempre Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudiumsumma programmatica del pontificato, osservava che “la predicazione all’interno della liturgia richiede una seria valutazione da parte dei pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie”. Anche perché, il rischio è che qualche sacerdote, come don Sergio Mercanzin, arrivi a proporre di rendere volontario l’ascolto dell’omelia: “Si tenga alla fine della messa. Chi vuole resta”.
I vescovi italiani, già nell’immediato dopo Concilio, mettevano nero su bianco le regole fondamentali per impostare un’omelia di successo. Ai sacerdoti era richiesta “non la predica moraleggiante, non il fervorino untuoso e vuoto, non il pezzo più o meno retorico d’occasione, né, tanto meno, l’elucubrazione erudita, ma la vera omelia ex textu sacro, come si esprime il Concilio”. Il tutto è rimasto lettera morta. Si va dai parroci che usano l’ambone per commentare la politica quotidiana, con il date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio che diventa lo spunto per lanciare strali contro la corruzione e i corrotti dei palazzi del potere, fino a quelli che usano quei pochi minuti a disposizione per sfogarsi contro i malcapitati fedeli andati in chiesa, imbracciando metaforicamente quei bastoni di cui tanto parla Bergoglio quando biasima i preti che fanno dei confessionali una sorta di stanza dove randellare il peccatore che, probabilmente, ci penserà due volte prima di tornarci. Urgono soluzioni e dalle parti della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti ci stanno lavorando. Prima idea, resa nota a cavallo delle festività natalizie, pubblicare un “direttorio omiletico” che ambisce a fornire a sacerdoti e seminaristi le coordinate metodologiche e contenutistiche da metabolizzare nella fase di preparazione dell’omelia. Il che non vuol dire recarsi all’ambone con il foglietto in mano e leggere, magari in modo piatto e monotono, quanto si è scritto in precedenza o si è scaricato un’ora prima da internet. Pratica, questa, a quanto pare sempre più abituale tra i sacerdoti a ogni latitudine del globo.
Il ricettario perfetto non esiste, però qualche utile indicazione la si può dare, ha di recente spiegato alla Radio Vaticana Sergio Tapia-Velasco, docente alla facoltà di Comunicazione sociale presso la Pontificia Università della Santa Croce e coordinatore del corso Ars praedicandi. Bisogna, dice, “porsi le domande giuste per strutturare l’omelia. Che cosa interessa veramente i fedeli? Che cosa dice veramente il testo? Che cosa ha detto questa lettura al mio cuore? Come dice Papa Francesco, è importante non rispondere a domande che nessuno si pone: l’inter-lectio ha proprio lo scopo di interleggere, e capire che cosa dice il testo, che cosa hanno bisogno di ascoltare i fedeli e cosa ha detto il testo a me stesso. Altrimenti l’omelia risulta non autentica”. L’importante, insomma, “è di avere una domanda di partenza e poi si può strutturare il discorso seguendo la retorica classica, ma sempre attenti alle forme di comunicazione contemporanea”.
Mai dimenticare, però, chiariva il Papa argentino, che “l’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un pastore con il suo popolo. Di fatto – aggiungeva – sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. E’ triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita”. Niente show, “l’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione”, scriveva ancora il Pontefice nell’Evangelii Gaudium: “E’ un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica”. Proprio per questo, “deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo”. La Conferenza episcopale italiana s’era messa all’opera già nel 2012, con l’iniziativa “ProgettOmelia”, un programma che si ripropone di insegnare l’arte della proclamazione liturgica. Venticinque sacerdoti che si sottoporranno a lezioni studiate ad hoc e che, soprattutto, accetteranno le valutazioni critiche degli osservatori. Scriveva il vescovo di Alghero-Bosa, mons. Mauro Maria Morfino, che “il malessere cresce quando l’assemblea è costretta a subire pesanti debolezze. La non logicità obiettiva del discorso, la povertà dei contenuti reali, la deriva moralistica, la scarsità della qualità religiosa influiscono in modo determinante”.
Qualche anno fa, della questione s’era interessato anche il vicario della diocesi di Verona, don Mario Masina, autore di un denso volumetto intitolato “Il manuale del predicatore”, ossia “tutto quello che un prete dovrebbe sapere per non annoiare i suoi fedeli”. Già l’introduzione spiega bene la portata drammatica del problema: “Domenica. In ogni chiesa, grande o piccola, bella o brutta, di città o di campagna, terminata la proclamazione del vangelo, la gente si siede e il prete comincia a parlare. E’ il momento dell’omelia o della predica, per dirla nel linguaggio corrente. Nessuno si meraviglia, nessuno protesta, nessuno si ribella. A questo punto della Messa i cristiani si aspettano alcune cose. In primo luogo di non addormentarsi perché sottoposti a un lungo, confuso e noioso monologo; in secondo luogo di non doversi sorbire l’ennesimo sfogo emotivo di uno che sembra ce l’abbia col mondo intero; infine, di portarsi a casa qualcosa che arricchisca spiritualmente la propria vita cristiana. E vi pare poco?”. Qualcuno, aggiungeva don Masina, “rimane convinto che basti aver frequentato i corsi di esegesi dell’antico e del nuovo testamento, con votazione di esame almeno superiore al venti, per commentare bene le letture domenicali. Qualche altro con meno dimestichezza di ermeneutica e dogmatica, fa affidamento all’imposizione delle mani del giorno della propria ordinazione che, ex opere operato, ha fatto di lui un buon predicatore. Altri, arrivati di corsa all’ultimo momento, si affidano allo Spirito, non avendo avuto il tempo di leggersi in anticipo nemmeno il vangelo. Altri vengono presi dal panico, perché parlare davanti all’assemblea non è mai facile. Alcuni affrontano serenamente il compito perché preparato con cura da tempo”.
Un contributo alla causa, ça va sans dire, lo dovrebbero dare anche i fedeli, i cosiddetti praticanti, coloro cioè che partecipano in modo più o meno attento alla santa messa della domenica e delle altre feste di precetto. “Spesso manca in loro un’adeguata sensibilità liturgica, per cui essi sono portati a ignorare il ruolo che nella celebrazione assume l’omelia, quasi che il suo ascolto debba essere una sorta di penitenza, una chiamata al sacrificio, anche se purtroppo, qualche volta, lo è”, nota Adriano Zanacchi.
Forse, con una disposizione d’animo migliore e una volontà di non essere meri soggetti supini che distrattamente guardano l’ambone interiorizzando la metà del discorso del sacerdote, si riuscirebbe a trasformare il fedele e distratto ascoltatore in un emulo di quei “più duri di testa, i più ignoranti” che ebbero la fortuna di udire le parole che il cardinale Federigo Borromeo disse all’Innominato, nel capitolo XXIV dei “Promessi sposi” manzoniani: “A vederlo lì davanti all’altare un signore di quella sorte, come un curato […], a pensare a un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono; a pensare che sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano […]. Anche i più duri di testa, i più ignoranti, saprebbero ripeter le parole che diceva: sì, non ne ripescherebbero una: ma il sentimento lo hanno qui”.

domenica 25 gennaio 2015

Dextera Domini - César Franck

"Dextera Domini fecit virtutem, dextera Domini exaltavit me : non moriar sed vivam, et narrabo opera Domini" (Ps. CXVII) - Antifona d'offertorio della messa della III Domenica dopo l'Epifania

“Saule, Saule, quid me perséqueris?” (Act. 9, 4 – Ep.) - IN CONVERSIONE SANCTI PAULI APOSTOLI


Questa commemorazione, che, nel martirologio geronimiano, porta il semplice titolo di Romæ translatio sancti Pauli, manca completamente negli antichi sacramentari e capitolari romani, e sembra essere entrata nell’uso della corte papale soltanto verso il X sec., in seguito all’influenza franca. Il martirologio di san Pietro dell’XI sec., infatti, annuncia al 25 gennaio il natale di san Gregorio il Teologo e quella di san Prisco, poi aggiunge: eodem die conversio sancti Pauli.
Il testo di una messa in conversione sancti Pauli apostoli si trova precisamente, intorno al 700 d.C., nel Messale Gotico (Missale Gothicum, pubbl. da L.C. Mohlberg, Roma 1961, p. 42. Il calendario di san Willibrordo, che risale agli stessi anni, testimonia dell’esistenza della festa in Inghilterra. Fu pubbl. da H.A. Wilson, The Calendar of St Willibrord, Henry Bradshaw Society (H.B.S.), London 1918, p. 3), in cui essa fa seguito a quella della Cattedra di san Pietro, accostamento assai significativo per allontanare l’ipotesi dell’effettivo anniversario della conversione del grande Apostolo delle Genti sulla via di Damasco.
Non è facile determinare la genesi e l’evoluzione di questa festa. È possibile tuttavia che nei martirologi la translatio sancti Pauli si ricolleghi ad una delle ipotesi seguenti:
a) La traslazione del santo corpo dell’Apostolo dal nascondiglio ad catacumbas sulla via Appia alla sua tomba primitiva sulla via per Ostia, dopo che Galliano restituì ai cristiani i loro cimiteri;
b) la riedificazione della sua basilica sepolcrale sulla via d’Ostia, cominciata da Teodosio, proseguita da Valentiniano ed Onorio ed infine completata da san Leone I;
c) una traslazione occasionale della sua statio (natalis) in ragione di qualche ostacolo sopravvenuto – come avvenne un certo anno in cui il papa Leone Magno, essendo assente, i Romani attesero il suo ritorno per celebrare la festa dei santi Pietro e Paolo;
d) infine, ed è quella più probabile, una traslazione qualsiasi nelle Gallie dei veli applicati alla tomba di san Paolo e della limatura delle sue catene. Questi oggetti di devozione erano impropriamente chiamati «reliquie» ed il fatto della loro deposizione negli altari prendeva il titolo di «traslatio», che si inseriva finanche nei martirologi locali: grazie ad una sorta di fictio iuris queste reliquie costituivano un annesso, un’estensione diciamo così del sepolcro dello stesso Apostolo di Roma. L’indicazione Romæ sarebbe penetrata nel Laterculus per l’ignoranza del copista, il quale, leggendo di una translatio sancti Pauli, avrebbe pensato che non poteva convenire che a Roma, al posto di riferirla ad una chiesa qualsiasi, Autun, Arles o qualsiasi altra.
In ogni caso, sia o non sia di origine romana, questa festa invernale di san Paolo si trovò, nelle Gallie, legata a quella della Cattedra di san Pietro, in un’epoca in cui Roma non le celebrava entrambe – e tuttavia la sede apostolica non celebrò mai la traslatio di san Paolo.
Perciò, ci si può domandare: dal momento che la festa è nata in Gallia, si può spiegare la scelta della sua data al 25 gennaio mettendo la Conversione di san Paolo in correlazione con un’ottava della festa della Cattedra di san Pietro, che certe chiese della Gallia celebravano il 18 gennaio? Spiega lo storico Pierre Batiffol (il quale, per alcune sue tesi, fu considerato modernista) in un’opera pubblicata postuma: «les deux fêtes vont de pair: la signification de l’une éclaire la signification de l’autre» (Pierre Batiffol, Cathedra Pétri. Études d’histoire ancienne de l’Église, Éditions du Cerf, Paris 1938, p. 129). L’ipotesi, dunque, può essere accolta, sebbene essa sia lontana dal risolvere tutti i problemi (così Pierre Jounel, Le Culte des Saints dans les Basiliques du Latran et du Vatican au douzième siècle, École Française de Rome, Palais Farnèse, 1977, pp. 218-219).
Poco a poco, però, il significato storico della celebrazione mutò, ed al concetto di una traslazione materiale di reliquie di san Paolo, si sostituì quella di una traslazione o cambiamento psicologico e spirituale sopravvenuto nell’Apostolo sul cammino di Damasco: In vas electionis de persecutore translatus est, direbbe san Girolamo. Così, dalla traslatio fisica si passò alla conversio mistica di Saulo.
La festa della conversione di san Paolo è annotata in questo giorno nel Laterculus di Berna del martirologio geronimiano: Translatio et conversio sancti Pauli in Damasco. Nell’Ordo di Pietro Amelio, nel XIV sec., si attribuisce a questa solennità la prevalenza sullo stesso ufficio dominicale (Ordo Romanus XV, cap. III. De Conversione sancti Pauli, in PL 78, col. 1340B). Peraltro in questo giorno, come il 1° gennaio nell’Ottava di Natale e nelle Ottave dei santi Stefano, Giovanni Apostolo e Santi Innocenti, non si teneva il Concistoro (Ordo Romanus XIV, cap. CI. In quibus diebus et solemnitatibus consueverunt Romani pontifices a consistoriis abstinere, In Januario, ivi, col. 1228B). Inoltre, il papa celebrava di persona e predicava, o lasciava la predicazione ad un cardinale (ibidem, cap. XCVIII. Quibus diebus et solemnitatibus consueverunt Romani pontifices Missarum solemnia in persona celebrare, ivi, col. 1223A).
Nella basilica patriarcale di San Paolo ha luogo in questo giorno una stazione molto solenne e, in assenza del Sovrano Pontefice, in virtù di un’antica tradizione, ratificata da Innocenzo III nel 1203, gli abati di questo sacratissimum monastero, che ha donato alla Chiesa san Gregorio VII, celebrano nel rito pontificale il divino Sacrificio sullo stesso altare papale che ricopre, ancor oggi, la camera funeraria dell’Apostolo (cfr. Rinaldo Fabris, Paolo: l’Apostolo delle Genti, Milano 1997, p. 563). Mentre, in effetti, nelle altre basiliche patriarcali di Roma, il papa non concede ordinariamente il permesso ai rispettivi cardinali arcipreti di celebrare la messa all’altare papale, fa eccezione per San Paolo, in cui, ogni anno, in questo giorno, l’Abate di questo monastero gode del privilegio papale di celebrare la messa pontificale sull’altare che ricopre la tomba dell’Apostolo. Il motivo di una così grande importanza attribuita dalla liturgia alla conversione di san Paolo sulla via di Damasco dev’essere ricercato nell’efficacia apologetica che ebbe un tale cambiamento imprevisto, tanto da potersi dire che, dopo la resurrezione di Cristo, alcun altro prodigio nella storia della Chiesa primitiva, tenuto conto delle circostanze, dimostri meglio la divinità di Cristo che, appunto, la conversione di Saulo.
Questo concetto è ben espresso in un epigramma di papa Damaso (Damaso, Iamdudum Saulus procerum precepta, Carm. VII, De S. Paulo apostolo, in PL 13, 379A-381A): Iamdudum Saulus, procerum præcepta secutus, / Cum Domino patrias vellet præponere leges, /Abnueret sanctos Christum laudasse prophetas, / Cædibus adsiduis cuperet discerpere plebem, / Cum lacerat sanctæ matris pia foedera coecus, / Post tenebras verum meruit cognoscere lumen, / Temptatus sensit possit quid gloria, Christi. / Auribus ut Domini vocem lucemque recepit, / Composuit mores Christi præcepta secutus. / Mutato placuit postquam de nomine Paulus, / Mira fides rerum; subito trans æthera vectus, / Noscere promeruit possent quid præmia vitæ. / Conscendit raptus martyr penetralia Christi, / Tertio, lux cæli tenuit paradisus euntem; / Conloquiis Domini fruitur, secreta reservat, […] / Credentes docuit possent quo vincere mortem. / Dignus amore Dei, vivit per sæcla magister, / Versibus his breviter, fateor, sanctissime Doctor / Paule, tuos Damasus, valut, monstrare triumphos.
Anche san Pier Damiani non è da meno celebrandolo in quest’inno in dimetro giambico: Excélsam Pauli glóriam / concélebret Ecclésia, / quem mire sibi apóstolum / ex hoste fecit Dóminus. / Quibus succénsus æstibus / in Christi nomen sæviit, / exársit his impénsius / amórem Christi prædicans […].

Laurent de la Hyre, Conversione di S. Paolo, 1637, Cattedrale di Notre Dame, Parigi

Pieter Paul Rubens, Conversione di S. Paolo sulla via di Damasco, XVII sec.

Jean Daret, La conversione di S. Paolo, 1647 circa, Musée d'Art Roger Quillot, Clermont-Ferrand


Nicolas-Bernard Lépicié, Conversione di Saulo, 1767


Benjamin West, Pala della Conversione di S. Paolo, 1786, Dallas Museum of Art, Dallas







Esterno ed Interno della casa di S. Anania, dove S. Paolo fu accolto dopo la conversione e dove fu battezzato, Damasco

Cappella di S. Anania, nel 1950, prima delle trasformazioni conciliari