Sante Messe in rito antico in Puglia

venerdì 20 maggio 2016

Exsurge, quare obdormis Domine?

Rilanciamo, dopo la relazione del card. Burke, il testo in traduzione italiana del contributo del prof. De Mattei, pubblicato in inglese da Rorate caeli.

Exsurge, quare obdormis Domine?

Riportiamo il testo italiano della relazione tenuta dal prof. Roberto de Mattei al Rome Life Forum svoltosi all’Hotel Columbus di Roma il 6 maggio 2016.

Gesù nel Vangelo si serve di molte metafore per indicare la Chiesa da Lui fondata. Una delle più calzanti è l’immagine della barca minacciata dalla tempesta (Mt. 8, 23-27; Mc. 4, 35-41; Lc. 8, 22-25). Questa immagine è stata spesso utilizzata dai Padri della Chiesa e dai santi che parlano della Chiesa come di una navicella sbattuta dalle onde, che vive si può dire tra le tempeste, senza mai lasciarsi sommergere dai flutti.
Celebre, nel Vangelo, è la scena della tempesta nel lago di Tiberiade, sedata da Nostro Signore: “Tunc surgens imperavit ventis et mari” (Mt. 8, 26). Giotto, durante il periodo del Papato ad Avignone, raffigurò la scena della barca di Pietro nella tempesta in un celebre mosaico che si trovava nel frontone dell’antica basilica di San Pietro, e che ora è nell’atrio della nuova Basilica. Nella quaresima del 1380, santa Caterina da Siena fece voto, di recarsi ogni mattina in San Pietro per pregare davanti a questa immagine. Un giorno, il 29 gennaio 1380, verso l’ora di vespro, mentre Caterina era assorta in preghiera, Gesù, si staccò dal mosaico e pose sulle sue spalle la navicella della Chiesa. La santa, oppressa sotto tanto peso, cadde a terra priva di sensi. Fu questa l’ultima visita a San Pietro di Caterina, che aveva sempre esortato il Papa a guidare con vigore la navicella della Chiesa.
Nel corso di duemila anni di storia, la mistica nave della Chiesa ha sempre affrontato bufere e tempeste.
Nei suoi primi tre secoli di vita, la Chiesa fu duramente perseguitata dall’Impero romano. In quest’epoca, tra san Pietro a Papa Melchiade, contemporaneo dell’imperatore Costantino, si contano trentatré Papi. Sono tutti santi e salvo due che soffrirono l’esilio, gli altri trenta morirono martiri.
Nell’anno 313 Costantino il Grande concesse libertà alla Chiesa e i cristiani, usciti dalle catacombe, iniziarono a gettare le basi di una nuova società cristiana, ma il IV secolo, il secolo della libertà e del trionfo della Chiesa, fu anche il secolo della terribile crisi ariana.
Nel V secolo, l’Impero romano crollò e la Chiesa, da sola, dovette affrontare le invasioni prima dei barbari e poi dell’Islam, che a partire dall’VIII secolo, sommerse terre cristiane come l’Africa e l’Asia Minore, da allora mai restituite alla vera fede.
Nei secoli che vanno da Costantino a Carlo Magno contiamo sessantadue Papi, tra i quali san Leone Magno, che affrontò da solo Attila, il “flagello di Dio”, san Gregorio Magno, che lottò strenuamente contro i longobardi, san Martino I, spedito in esilio in catene nel Chersoneo, san Gregorio II e san Gregorio III, che vissero in continuo pericolo di morte, perseguitati dagli imperatori bizantini. Ma accanto a questi grandi difensori della Chiesa, troviamo anche Papi come Liberio, Vigilio ed Onorio che vacillarono nella fede. Onorio, in particolare, fu condannato come eretico da un suo successore, san Leone II.
Carlo Magno restaurò l’Impero cristiano e fondò la Civiltà cristiana del Medioevo. Però questa epoca di fede non fu priva di piaghe, come la simonia, la dissolutezza morale del clero e la ribellione degli Imperatori e dei sovrani cristiani all’autorità della Cattedra di Pietro. Dopo la morte di Carlo Magno, tra l’882 e il 1046, vi furono 45 Papi e antipapi, di cui 15 deposti e 14 assassinati, imprigionati e esiliati. I Papi del Medioevo conobbero lotte e persecuzioni, da san Pasquale I a san Leone IX, fino a san Gregorio VII, l’ultimo Papa canonizzato del Medioevo, che morì, perseguitato, in esilio.
Il Medioevo ebbe il suo apice sotto il pontificato di Innocenzo III, ma santa Lutgarda ebbe una visione in cui il Papa le apparve tutto avvolto nelle fiamme, dicendole che sarebbe rimasto in purgatorio fino al Giudizio universale, per tre gravi colpe da lui commesse. San Roberto Bellarmino commenta: “Se un Papa così degno e stimato da tutti subisce questa sorte, cosa accadrà agli altri ecclesiastici, religiosi, o laici, che si macchiano di infedeltà?”.
Nel XIV secolo, al trasferimento per settant’anni del Papato ad Avignone seguì una crisi altrettanto terribile di quella ariana, il Grande scisma di Occidente, che vide la Cristianità divisa tra due, e poi tre Papi, senza che si riuscisse a risolvere, fino al 1417, il problema della legittimità canonica.
Seguì un’età che sembrò tranquilla, quella dell’umanesimo, che in realtà preparò una nuova catastrofe: la Rivoluzione protestante del XVI secolo. La Chiesa reagì ancora una volta vigorosamente, ma nei secoli XVII e XVIII si insinuò nel suo seno la prima eresia che scelse di non separarsi dalla Chiesa, ma di rimanere al suo interno: il giansenismo.
La Rivoluzione francese e Napoleone cercarono di distruggere il Papato senza riuscirvi. Due Papi, Pio VI e Pio VII furono esiliati da Roma e imprigionati. Quando, nel 1799, morì a Valence Pio VI, il municipio di quella città lo comunicò al Direttorio, scrivendo che si era sepolto l’ultimo papa della storia.
Da Bonifacio VIII, l’ultimo Papa del Medioevo, a Pio XII, l’ultimo dell’era pre-conciliare, contiamo 68 Papi, di cui solo due canonizzati finora dalla Chiesa, san Pio V e san Pio X, e due beatificati, Innocenzo XI e Pio IX. Tutti si trovarono al centro di furiose tempeste. San Pio V combatté il protestantesimo e animò la Lega Santa contro l’Islam, ottenendo la vittoria di Lepanto; il Beato Innocenzo XI combatté il gallicanesimo e fu l’artefice della liberazione di Vienna dai Turchi nel 1683. Il grande Pio IX resisté impavidamente alla Rivoluzione italiana che, nel 1870, gli strappò la Città Santa. San Pio X combatté una nuova eresia, anzi la sintesi di tutte le eresie, il modernismo, che infiltrò profondamente la Chiesa tra il XIX e il XX secolo.
Il Vaticano II, aperto da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI, si propose di inaugurare una nuova era di pace e progresso per la Chiesa, ma il post-concilio si rivelò uno dei periodi più drammatici nella vita della Chiesa. Benedetto XVI, utilizzando una metafora di san Basilio, ha paragonato il post-concilio una battaglia navale, nel corso della notte, in un mare in tempesta[1]. È questa l’epoca in cui viviamo.
Il fulmine che cadde su San Pietro l’11 febbraio 2013, il giorno in cui Benedetto XVI annunciò la sua abdicazione è come il simbolo di questa tempesta che da allora sembra aver travolto la navicella di Pietro e travolge la vita di ogni figlio della Chiesa.
La storia delle tempeste della Chiesa è la storia delle persecuzioni che ha subito, ma è anche la storia degli scismi e delle eresie che, fin dalle origini, ne hanno minato l’unità interna. Gli attacchi interni sono sempre stati più gravi e pericolosi di quelli esterni. I più gravi di questi attacchi, le due tempeste più terribili, sono state l’eresia ariana del IV secolo e il Grande Scisma d’Occidente del XIV secolo.
Nel primo caso il popolo cattolico non sapeva dove era la vera fede, perché i vescovi erano divisi, tra ariani, semi-ariani, anti-ariani e i Papi non si esprimevano con chiarezza. Fu allora che san Girolamo coniò l’espressione secondo cui “il mondo gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano” [2].
Nel secondo caso il popolo cattolico non sapeva chi fosse il vero Papa, perché cardinali, vescovi, teologi, sovrani e persino santi, seguivano Papi diversi. Nessuno negava il Primato pontificio e perciò non si trattava di eresia, ma tutti seguivano due o addirittura tre Papi e dunque si trovavano in quella situazione di divisione ecclesiale che la teologia definisce scisma.
Il modernismo fu una crisi potenzialmente superiore alle due precedenti, ma non esplose in tutta la sua virulenza perché fu parzialmente debellato da san Pio X. Scomparve per qualche decennio, ma riemerse con forza durante il Concilio Vaticano II. Questo Concilio, l’ultimo della Chiesa, svoltosi tra il 1962 e il 1965, volle essere un Concilio pastorale, ma per il carattere ambiguo ed equivoco dei suoi testi, portò a risultati pastorali catastrofici.
La crisi contemporanea discende direttamente dal Concilio Vaticano II e ha la sua origine nel primato della prassi sulla dottrina affermato dal Concilio Vaticano II.
Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962 enunciò la natura pastorale del Vaticano II, distinguendo tra “il deposito o le verità della fede” e “il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”.
Tutti i venti concili ecumenici precedenti erano stati pastorali, perché avevano avuto accanto a una forma dogmatica e normativa una dimensione pastorale. Nel Vaticano II la pastoralità non fu solo la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio nei modi adatti ai tempi. La “pastorale” fu invece elevata a principio alternativo al dogma. La conseguenza fu una rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità, la trasformazione della pastorale in una nuova dottrina.
Tra i più fedeli continuatori dello “spirito del Concilio” c’è il cardinale tedesco Walter Kasper. È stato proprio a lui che papa Francesco ha affidato la relazione introduttiva del dibattito pre-sinodale, nel Concistoro del febbraio 2014. Il cardine di questa relazione è l’idea secondo cui ciò che deve mutare non è la dottrina sull’indissolubilità matrimoniale, ma la pastorale verso i divorziati-risposati. La stessa formula è stata usata dal cardinale Kasper per commentare l’esortazione post-sinodale di papa Francesco Amoris laetitia. Il cardinale Kasper ha spiegato che “l’esortazione apostolica del Papa non cambia niente nella dottrina della Chiesa o nel diritto canonico, ma cambia tutto[3]. La bussola del pontificato di Papa Francesco e la chiave di lettura della sua ultima esortazione apostolica post-sinodale sta nel principio di un cambiamento necessario non della dottrina, ma della vita della Chiesa. Però, per sostenere l’irrilevanza della dottrina, il Papa ha prodotto un documento di 250 pagine, in cui si espone una teoria del primato della pastorale.
Il 16 aprile, tornando da Lesbo, il Papa ha raccomandato ai giornalisti di leggere la presentazione dell’Amoris Laetitia fatta dal cardinale Schönborn, attribuendogli l’interpretazione autentica dell’esortazione. Nella conferenza stampa in cui, l’8 aprile, ha presentato il documento, il cardinale Schönborn ha definito l’esortazione pontificia innanzitutto “un evento linguistico”. Questa formula non è nuova: è già stata usata da un confratello di papa Francesco, il gesuita John O’Malley della Georgetown University, che nella sua storia del Vaticano II, ha definito il Concilio II come “un evento linguistico[4], un nuovo modo di esprimersi che, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti[5]. Dire evento linguistico, spiega O’Malley, non significa minimizzare la portata rivoluzionaria del Vaticano II, perchè anche il linguaggio ha in sé un insegnamento. I leader del Concilio “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio[6].
La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare, e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina. “Lo stile – ricorda O’Malley – è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza[7].
La Rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato delle parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero fare molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto è certamente una proposizione temeraria, se non eretica. Omettere, o limitare al massimo, ogni riferimento all’inferno non formula nessuna proposizione erronea, ma costituisce un’omissione che prepara la strada ad un errore ancora più grave dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno non esiste, perché non se ne parla, e ciò che è ignorato è come se non esistesse.
Papa Francesco non ha mai negato l’esistenza dell’inferno, ma, in tre anni, ha accennato solo un paio di volte all’inferno, in maniera molto impropria, e nella Amoris laetitia, affermando che “la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno” (§ 296) sembra negare la condanna eterna dei peccatori. Questa ambiguità non ha lo stesso valore pratico di una negazione teorica?
Niente cambia nella dottrina, tutto cambia nella prassi. Ma se non si vuole negare il principio di causalità, su cui si fonda tutto l’edificio della conoscenza dell’Occidente, bisogna ammettere che ogni effetto ha una causa e che da ogni causa derivano conseguenze. Il rapporto tra la causa e l’effetto è quello tra la teoria e l’azione, tra la dottrina e la prassi. Tra coloro che lo hanno ben compreso è il vescovo di Orano, mons. Jean-Paul Vesco che, in un’intervista a La Vie, ha detto che con la Amoris Laetitia “rien ne change de la doctrine de l’Église et pourtant tout change dans la rapport de l’Église au monde[8]. Oggi, ha sottolineato il vescovo di Orano, nessun confessore potrà rifiutare l’assoluzione a chi è in coscienza convinto che la situazione irregolare in cui si trova è l’unica, o quantomeno la migliore possibile. Le circostanze e la situazione, secondo la nuova morale, dissolvono il concetto di male intrinseco e di peccato pubblico e permanente.
Se i pastori cessano di parlare di peccato pubblico e incoraggiano adulteri e concubini a integrarsi nella comunità cristiana, senza escludere loro l’accesso ai Sacramenti, con la pastorale cambia necessariamente anche la dottrina. La regola della Chiesa era: “i divorziati, risposati civilmente, che vivono in concubinato, non possono accostarsi all’Eucarestia”. La Amoris laetitia stabilisce invece: “i divorziati risposati, in alcuni casi, possono comunicarsi”.
Il cambiamento non è solo di fatto, è di principio. È sufficiente una sola eccezione nella pratica, per cambiare il principio. Come negare che questa Rivoluzione nella prassi non sia anche una Rivoluzione nella dottrina? Ma se anche nulla cambiasse nella dottrina, sappiamo che cosa cambierà nella pratica: aumenterà il numero delle comunioni sacrileghe; aumenterà il numero delle confessioni invalide; aumenterà il numero dei peccati gravi commessi contro il VI e il IX comandamento; aumenterà il numero delle anime che vanno all’inferno; e tutto questo accadrà non contro, ma a causa della Amoris Laetitia.
A Fatima, la Madonna mostrò ai tre pastorelli la visione terrificante dell’inferno dove vanno le anime dei poveri peccatori e a Giacinta fu rivelato che il peccato che conduce più anime all’inferno è quello contro la purezza. Chi avrebbe potuto immaginare che al numero già grande di peccati impuri si sarebbe aggiunta la diffusione della convivenza more uxorio, spesso ratificata da un matrimonio civile? E come immaginare che questa condizione fosse avallata da un’esortazione pontificia? Eppure questo è accaduto. E non si può fingere di non vederlo…
La Chiesa ha una missione pratica: la salvezza delle anime. Come si salvano le anime? Spingendole a vivere in conformità con la legge del Vangelo.
Anche il demonio ha un fine pratico: la perdizione delle anime. Come si perdono le anime? Spingendole a vivere in difformità dalla legge del Vangelo. Quando Gesù, dopo la Resurrezione, appare ai suoi discepoli sui monti della Galilea dà loro la missione di battezzare in nome della Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, e di insegnare ad osservare la sua legge, senza trasgredire alcun precetto: “docentes eos, servare omnia” (Mt. 18, 19-20). “Chi crederà e sarà battezzato – aggiunge sarà salvo – chi non crederà sarà condannato” (Mc. 16, 16).
Il compito dei Pastori è di insegnare ad osservare la legge non a disapplicarla, non a trovare le eccezioni per trasgredirla. Chi crede, ma contraddice con le opere la fede in cui crede, sarà condannato, come coloro che, secondo San Paolo, “dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti, abominevoli come sono, ribelli e incapaci di qualsiasi opera buona” (Ad Titum, I, 16).
Per esprimere un giudizio negativo sulla esortazione apostolica Amoris Laetitia non è necessario aver studiato teologia, è sufficiente il sensus fidei che scaturisce dal battesimo e dalla Cresima. Il sensus fidei ci porta, per istinto soprannaturale, a rifiutare questo documento, lasciando ai teologi il compito di applicare adesso le adeguate note teologiche.
Tra eresia e ortodossia esistono molte gradazioni possibili. L’eresia è l’opposizione aperta, formale e pertinace ad una verità di fede. Però esistono proposizioni dottrinali che, pur non essendo esplicitamente eretiche, sono riprovate dalla Chiesa con qualificazioni teologiche proporzionali alla gravità e al contrasto con la dottrina cattolica [9]. L’opposizione alla verità presenta infatti gradi diversi, a seconda che sia diretta o indiretta, immediata o remota, aperta o dissimulata, e così via. Le “censure teologiche” esprimono il giudizio negativo della Chiesa su di una espressione, una opinione o un’intera dottrina teologica Esse riguardano il contenuto dottrinale: proposizioni eretiche, prossime all’eresia, di sapore ereticoerronee nella fede, temerarie; riguardano la forma, per cui le proposizioni sono giudicate equivoche, dubbie, capziose, sospette, male sonanti ecc.; riguardo agli effetti che possono produrre per le particolari circostanze di tempo e di luogo. In tal caso le proposizioni sono censurate come perverse, viziose, scandalose, pericolose, seduttive dei semplici In tutti questi casi, la verità cattolica manca di integrità dottrinale o è espressa in maniera carente e impropria.
In una sua riflessione del 16 aprile 2016, l’abbé Gleize ricorda il §299, dell’Amoris laetitia, secondo cui “Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo” (§299) e commenta: “Nei diversi modi possibili”: perché, dunque, non ammettendoli alla comunione eucaristica? Se non è più possibile dire che i divorziati risposati vivono in una situazione di peccato mortale (§301), in cosa il fatto di donar loro la comunione rappresenterebbe un’occasione di scandalo? E, d’ora in poi, perché rifiutar loro la santa comunione? L’Esortazione Amoris Laetitia va nettamente in questa direzione. Facendo ciò, rappresenta come tale un’occasione di rovina spirituale per tutta la Chiesa, cioè ciò che i teologi designano in senso stretto come uno “scandalo”. E questo scandalo deriva esso stesso da una relativizzazione pratica della verità della Fede cattolica, riguardo la necessità e l’indissolubilità del matrimonio sacramentale[10].
L’Amoris laetitia è un documento scandaloso, dagli effetti catastrofici per le anime.
Non manchiamo di rispetto al papa e tanto meno mettiamo in dubbio il Primato pontificio. Dobbiamo essere profondamente grati al Beato Pio IX per avere definito, nel corso del concilio Vaticano I, due dogmi che ci permettono di affrontare con chiarezza la crisi attuale: il dogma del Primato Romano e quello dell’infallibilità pontificia.
Il Primato di governo del Papa, assieme all’infallibilità del suo Magistero, costituisce il fondamento su cui Gesù Cristo ha istituito la sua Chiesa e sul quale Essa rimarrà salda fino alla fine dei tempi. Questo Primato fu conferito a Pietro, principe degli Apostoli, dopo la Risurrezione (Gv. 21, 15-17) e gli venne riconosciuto dalla Chiesa primitiva, non come un privilegio personale e transitorio, ma come un elemento permanente ed essenziale della divina costituzione della Chiesa.
Non c’è autorità più alta sulla terra del Papa, perché non c’è carica più alta, non c’è missione più alta sulla terra. Quale missione? Quella di confermare i fratelli nella fede, di aprire il cielo alle anime, di pascere gli agnelli e le pecore del gregge di Cristo, unico e sommo Buon Pastore: in una parola di governare la Chiesa.
Il Papa è colui che governa la Chiesa. Questa missione gli deriva dal fatto di essere il successore di san Pietro a cui Gesù affidò la missione di capo visibile della Chiesa. Una missione che trascendeva la sua persona, perché sarebbe stata continuata dai suoi successori.
Il Papa non è il successore di Cristo, è il successore di Pietro e non lo è in maniera immediata, ma attraverso una successione apostolica che, nello spazio di venti secoli, lo lega a Pietro, principe degli Apostoli e primo Vicario di Cristo.
Il Vicario di Cristo è vescovo di Roma perché Roma non è una città o una diocesi come un’altra: ha una vocazione universale. I successori di Pietro sono vescovi di Roma perché per disposizione di Dio, san Pietro è venuto a Roma e morendo in questa sede ha aperto per i vescovi di Roma la successione legittima e ininterrotta del suo primato universale.
Tutti i vescovi hanno la pienezza del sacramento dell’ordine e il Papa, sotto questo aspetto non è superiore agli altri vescovi, è uguale a loro. Ma solo il Papa ha il supremo potere di giurisdizione che gli conferisce un potere pieno, e illimitato sopra tutti gli altri vescovi. È la giurisdizione, non il sacramento, che fa la differenza.
Il Concilio Vaticano I ha stabilito come dogma di fede il Primato universale, pieno e illimitato del papa su tutti i vescovi del mondo. Il primato di giurisdizione è la potestà di governo del Papa e comprende anche la potestà di insegnamento del Papa. Il Concilio Vaticano I, nel 1870, dopo il dogma del Primato romano ha promulgato quello dell’infallibilità di Magistero, a determinate condizioni, del Sommo Pontefice. L’infallibilità è quella prerogativa soprannaturale per cui il Papa e la Chiesa non possono errare nel professare e definire la dottrina rivelata per una speciale assistenza divina, attribuita allo Spirito Santo. E il Papa, che non è infallibile nel governare la Chiesa, può essere infallibile nel suo insegnamento pontificio.
Il Papa non è sempre infallibile. Deve volerlo essere, e se vuole esserlo, deve rispettare determinate regole. Le condizioni dell’infallibilità sono state chiarite dalla costituzione Pastor aeternus. Il Papa deve parlare come persona pubblica, ex cathedra, con l’intenzione di definire una verità di fede e di morale e di imporla come obbligatoria a credere a tutti i fedeli.
Se queste condizioni non sono rispettate non significa che il Papa sbaglia. Dobbiamo avere anzi, di principio una prevenzione a sua favore. Però quando il Papa non è infallibile, può commettere degli errori, nel suo governo e nel suo insegnamento. Il Magistero cosiddetto straordinario, ex cathedra del Papa, è sempre infallibile. Un esempio è costituito dai due dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione. Ma anche il magistero ordinario del papa può essere infallibile, quando ribadisce una verità di fede o di morale che per secoli è stata insegnata dalla Chiesa. È il caso dell’enciclica Humanae Vitae, che non è infallibile per sé, perché non si tratta di un atto ex cathedra del Sommo Pontefice, ma è infallibile nel punto in cui ribadisce la millenaria condanna della chiesa della contraccezione artificiale. Se un insegnamento della Chiesa è universale, non tanto nello spazio, quanto nel tempo, nella durata, quando è confermato dalla Tradizione, significa che è assistito dallo Spirito Santo.
Lo Spirito Santo assiste i cardinali quando in conclave eleggono il Papa e poi, una volta eletto il Papa, lo assiste nell’esercizio del suo governo e del suo Magistero ma, come la storia insegna, malgrado questa assistenza, possono essere stati eletti Papi indegni che nella vita privata possono avere peccato, anche gravemente, così come possono essere stati eletti Papi che hanno errato nel loro governo, e perfino nel loro Magistero; ma questo non deve scandalizzare. Anche se la Provvidenza permette che venga eletto un cattivo Papa, ciò avviene per fini superiori e misteriosi che saranno chiariti solo alla fine dei tempi. Lo Spirito Santo sa trarre il bene dal male.
La salvezza, che i teologi chiamano giustificazione, nasce dal misterioso incontro tra la volontà dell’uomo e la grazia divina. Chi pensa che nella vita di un uomo, per salvarsi, sia sufficiente l’azione dello Spirito Santo, senza la collaborazione della propria volontà. assume una posizione luterana o calvinista. Chi sostiene che il Papa non può sbagliare perché è infallibilmente assistito dallo Spirito Santo, ripete l’errore dei calvinisti sulla grazia.
La papolatria è un peccato perché trasforma Pietro in Cristo. Attribuire al Papa la perfezione e l’infallibilità di ogni atto e parola significa divinizzarlo e la divinizzazione del Papa non ha nulla a che fare con la venerazione che dobbiamo alla sua persona. La devozione al Papa, come quella alla Madonna è un pilastro della spiritualità cattolica. Ma la spiritualità deve avere un fondamento teologico e, prima ancora, razionale. Per venerare il Papa bisogna sapere chi è, e anche chi non è, il Papa.
Il Papa non è, come Gesù Cristo, un uomo-Dio. In lui non c’è una divinità che assorbe l’umanità. Non ci sono due nature, una umana e una divina, in una sola Persona. Il Papa ha una sola natura e una sola persona, umana: è segnato dal peccato originale e al momento della sua elezione non è confermato in grazia. Può peccare e può errare, come tutti gli altri uomini, ma i suoi peccati e i suoi errori sono più gravi di quelli di tutti gli altri uomini non solo per le maggiori conseguenze che hanno, ma perché ogni sua mancanza di corrispondenza alla grazia divina è tanto più grave quanto più grande è l’assistenza dello Spirito Santo che egli riceve.
Ma, oltre al Primato Romano e all’infallibilità, c’è una terza verità di fede, che può essere considerata un dogma, anche se la Chiesa non lo ha mai proclamato con un decreto straordinario. È il dogma della indefettibilità della Chiesa. L’indefettibilità è affermata da Gesù Cristo stesso: quando dice “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa” (Mt.16, 18).
Che cosa significa indefettibilità? Non significa che la Chiesa non può sbagliare. Significa, come spiegano i teologi, che la Chiesa arriverà fino alla fine del mondo identica a sé stessa, senza mutare l’essenza che Gesù Cristo le ha dato.
L’indefettibilità è la proprietà soprannaturale della Chiesa per cui essa non solo non scomparirà, ma non muterà, rimarrà, sino alla fine del mondo così come Gesù Cristo l’ha istituita. La Chiesa rimarrà sempre con le sue caratteristiche, con la sua costituzione, con il suo insegnamento, identica a se stessa: una nella fede, monarchica e gerarchica nella forma, visibilmente organizzata, perpetuamente duratura, identica per tutti gli uomini e per tutti i tempi, senza che nessun conversione o riconversione sia possibile. Il decreto Lamentabilis di san Pio X ha condannato la proposizione 53 dei modernisti secondo cui “La costituzione organica della Chiesa non è immutabile; ma la società cristiana, non meno della società umana, va soggetta a continua evoluzione”.
La Chiesa è indefettibile e tuttavia, nella sua parte umana, può commettere degli errori e questi errori, queste sofferenze, possono essere provocate dai suoi figli e anche dai suoi ministri.
Ciò può avvenire quando si confonde l’istituzione con gli uomini che la rappresentano. La forza del papato non nasce dalla santità di Pietro, così come la defezione di Pietro non significa la sua debolezza. Perché è alla persona pubblica del Papa, non alla persona privata, che Gesù ha rivolto le parole: “Tu sei Pietro e su questa Pietra edificherò la mia Chiesa”.
Il Papa non è Giorgio Bergoglio, né Joseph Ratzinger, ma è prima di tutto, come ci insegna il Catechismo, il successore di Pietro e il Vicario in terra di N. S. Gesù Cristo. Ma ciò nulla toglie alla grandezza e alla indefettibilità del Corpo Mistico di Cristo. La santità è una nota ineliminabile della Chiesa, ma non significa l’impeccabilità dei suoi Pastori, anche supremi, per quanto riguarda non solo la loro vita personale, ma anche l’esercizio della loro missione.
Quando Gesù dice che le porte dell’inferno non prevarranno, non promette l’assenza di attacchi da parte dell’inferno. Egli lascia anzi intravedere l’esistenza di una lotta accanita. Non mancherà la lotta, ma non ci sarà sconfitta. La Chiesa vincerà. L’opera principale dell’inferno è l’eresia. L’eresia non prevarrà sulla fede della Chiesa.
Il dogma dell’indefettibilità ci ricorda due verità: la prima è che la Chiesa vive continuamente nella lotta, sottoposta agli attacchi dei suoi nemici: la seconda è che la Chiesa vince i suoi nemici e trionfa nella storia. Senza lotta però non c’è vittoria e questa è una verità che ci riguarda perché tocca la nostra vita di figli della Chiesa, ma anche semplicemente di uomini.
 La frase “Le porte dell’inferno non prevarranno” è analoga a quella “Infine il mio Cuore Immacolato trionferà” pronunciata dalla Madonna a Fatima. Un evento di cui quest’anno ricorre il 99esimo anniversario.
Il 3 gennaio 1944, la Madonna rivolse parole profetiche a suor Lucia, in preghiera davanti al tabernacolo.
Suor Lucia racconta: “Ho sentito lo spirito inondato da un mistero di luce che è Dio e in Lui ho visto e udito: la punta della lancia come fiamma che si stacca, tocca l’asse della terra ed essa trema: montagne, città, paesi e villaggi con i loro abitanti sono sepolti. Il mare, i fiumi e le nubi escono dai limiti, traboccano, inondano e trascinano con sé in un turbine, case e persone in un numero che non si può contare, è la purificazione del mondo dal peccato nel quale sta immerso. L’odio, l’ambizione, provocano la guerra distruttrice. Dopo ho sentito nel palpitare accelerato del cuore e nel mio spirito una voce leggera che diceva: nel tempo, una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica. Nell’eternità il Cielo!’. Questa parola ‘Cielo’ riempì il mio cuore di pace e felicità, in tal modo che, quasi senza rendermi conto, continuai a ripetermi per molto tempo: il cielo, il cielo!” [11].
Una sola fede, un solo battesimo, una sola Chiesa, Santa, Cattolica, Apostolica”. Le parole della Madonna sono le stesse del papa Bonifacio VIII nella Bolla Unam Sanctam, con cui, alla fine del Medioevo, ha riaffermato l’unicità salvifica della Chiesa: “La fede ci obbliga a ammettere e ritenere che esiste una sola Chiesa, santa, cattolica e apostolica (…) al di fuori della quale non troviamo né salvezza, né remissione di peccati (…) In essa c’è un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo (Ef, 4, 5)” [12].
E l’ultima esclamazione: “il cielo! il cielo!” sembra ricordare la drammatica scelta tra il Cielo, che è il luogo dove raggiungono la felicità eterna le anime che si salvano, e l’inferno, che è il luogo dove soffriranno eternamente i dannati.
La Chiesa non apre le porte dell’inferno, ma quelle del Cielo.
La Chiesa, comprende non solo il Papa e i vescovi, ma tutti i fedeli, religiosi e religiose, secolari e laici. Ad essa viene garantita sino alla fine del mondo l’assistenza divina, la quale non permetterà che essa perisca o si indebolisca. Ciò significa che la Chiesa nella storia può conoscere momenti di smarrimento e di defezione ma, considerata nel suo insieme, non condurrà mai i fedeli alla perdizione.
Gesù, dopo la Risurrezione, appare una seconda volta sul lago di Tiberiade e dice ai suoi Apostoli: “Ecce ego vobiscum sum omnibus diebus, usque ad consummationem saeculi” (Mt. 28, 20). Sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine dei secoli.
Queste parole non solo confermano che la Chiesa è indefettibile, perché è divinamente assistita, ma ci ricordano anche che Dio non ci ha dato una legge impraticabile. Gesù è con noi, ogni giorno, in tutte le situazioni, in tutte le circostanze. Praticare la legge non è impossibile, perché tutto è possibile con l’aiuto della grazia di Dio. È questo che vorremmo che il Papa ci ricordasse, confermandoci nella fede.
Mai come in questo momento sentiamo il bisogno di un punto di appoggio, di una luce che ci orienti, di una roccia a cui ancorarci. E questa roccia non può che essere Pietro. Pietro, non Simone. Di Pietro cerchiamo l’essenza, il significato, l’elemento immutabile. Gli uomini, tutti gli uomini, anche i più grandi, passano. I princìpi restano e tra tutti ve ne è uno che sorregge gli altri: è il Primato Romano. Sappiamo perfettamente che solo una voce suprema e solenne può por fine al processo di autodemolizione in atto: quella del Romano Pontefice, l’unico al quale sia stata garantita la possibilità di definire la Parola di Cristo, facendosi portavoce infallibile della fede. Ma sappiamo che un Papa può contribuire alla auto-demolizione della Chiesa, fino a cadere nell’eresia, e in questo caso la coscienza ci impone di resistergli.
La Amoris laetitia attribuisce alla coscienza un posto fondamentale e insostituibile nella valutazione dell’agire morale (303). Ma la Amoris laetitia svincola la coscienza dall’oggettività della morale, mentre è sulla morale, sulla fede e sulla ragione, che noi vogliamo radicare le nostre scelte. Il lume della fede, come il lume della ragione, non è estrinseco a noi, illumina il cuore e la coscienza di ogni battezzato, perché la coscienza non è altro che la voce della verità nella nostra anima. Per questo l’amore illimitato che portiamo verso il Papa non potrà mai andare contro la nostra coscienza.
Il giorno del giudizio saremo soli davanti a Dio, con la nostra coscienza, senza Papi, né vescovi, senza parenti né amici, senza la possibilità di mentire agli altri e a noi stessi e lo sguardo di Dio trapasserà e illuminerà come una folgore la nostra coscienza. Chi segue la propria coscienza con purezza di intenzione, avendo come criteri di giudizio i dati oggettivi della fede e della ragione, non può sbagliare, perché Dio già la illumina in questa via. La illumina con il dono della fede e con il dono della ragione, su cui la fede si appoggia. Non possiamo fare nulla che vada contro la fede e contro la ragione, nulla che sia in qualche modo contraddittorio, ambiguo, equivoco, perché Dio non è contraddittorio, è luminoso, è semplice, è uguale a sé stesso, nella sua unità e nella sua Trinità.
La barca della Chiesa sembra essere sommersa dai flutti, e il Signore sembra dormire, come il giorno della tempesta sul lago di Tiberiade. A lui ci rivolgiamo dicendogli Exsurge, quare obdormis Domine? Exsurge (Ps. 42, 23). Forse era questo l’appello che gli rivolgeva santa Caterina da Siena, davanti al mosaico di Giotto, in quel lontano gennaio 1380. E forse non è un caso che quest’anno la tradizionale ora di adorazione al Santissimo dei partecipanti alla Marcia per la Vita si svolga nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva dove, sotto l’Altar maggiore, riposa il corpo di santa Caterina da Siena. In quest’ora di adorazione non chiederemo assistenza solo per la Marcia per la Vita, ma per la Santa Madre Chiesa, lanciando anche noi un estremo appello al Signore: “Exsurge, quare obdormis Domine? Exsurge!”.

[1] San BasilioDe Spiritu Sancto, XXX, 77, in PG, XXXII, col. 213.
[2] San Girolamo, Dialogus adversus Luciferianos, n. 19, in PL, 23, col. 171: “Ingemuit totus orbis, et Arianum se esse miratus est”.
[3] Vatican Insider, 14 Aprile 2016
[4] John O’MalleyChe cosa è successo nel Vaticano II, tr. it., Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 313.
[5] Ivi, p. 47.
[6] Ivi, p. 314.
[7] Ivi, p. 51.
[8] http://www.lavie.fr/religion/catholicisme/jean-paul-vesco-dans-amoris-laetitia-le-pape-appelle-a-une-revolution-du-regard-11-04-2016-72152_16.php.
[9] Antonio Piolanti, Pietro ParenteDizionario di teologia dogmatica, Studium, Rome 1943, pp. 45-46.
[10]  Abbé Jean-Michel Gleize FSPX, Amoris Laetitia, considerations on chapter  8, in http://sspx.org/en/amoris-laetitia-sspx-gleize.
[11] Carmelo de CoimbraUm Caminho sob  o olhar de Maria, Ediçoes Carmelo, Coimbra 2012, p. 267.
[12] Bonifacio VIII, Bolla Unam Sanctam, 18 aprile 1302, in Denz-H, n. 870.

Fonte: Corrispondenza romana, 18.5.2016

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