Sante Messe in rito antico in Puglia

sabato 1 aprile 2017

I Crociferi di Noja, teologi della Croce di Cristo

Oggi è sabato della IV settimana di Quaresima, che, fin dai tempi di Gelasio I, in Roma, era destinato alle sacre Ordinazioni. Siccome però queste importavano il gran digiuno con la Pannuchis presso la tomba di san Pietro, e di regola non si celebravano che all’alba della domenica, così è probabile che in origine questo sabato fosse aliturgico, come sempre si usava quando nell’Urbe seguiva la veglia domenicale.
La messa s’ispira ai pii sentimenti che dovevano provare in cuor loro i catecumeni man mano che si avvicinava il giorno del santo Battesimo. Il brano evangelico odierno tratta dell'illuminazione interiore dell'anima per mezzo della fede e perché i Farisei non vogliono accogliere la testimonianza di Gesù in causa propria, questi appella all'autorità del Padre che lo ha inviato (Gv. 8, 12-20). Questa disputa ebbe luogo nella sala delle offerte, detta, in greco, γαζοφυλάκιον, gazophylacium, per indicare, forse, che la beneficenza e la compassione verso i poveri ci mettono sulla via di trovare Gesù. Beato davvero chi trova Gesù, giacché trova un tesoro. Onde, diceva un Santo: «Gesù mio, chi vuole altra cosa fuori di te, non sa quel che vuole».
Nei lezionari romani del IX sec., si aveva, va detto, oltre a quella prevista per oggi (Is. 49, 8-15), una seconda lettura tratta da Isaia: Omnes sitientes venite ad aquas, chiamata dall’Introito e che sollecitava i catecumeni ad accorrere alla piscina battesimale (Is. 55, 1). Per questo, l'odierno sabato, ultimo di Quaresima prima del tempo di Passione, era detto Sitientes, cioè Assetati.
Se, a detta di Gesù, la casa terrestre del Padre divino non è casa di commercio, meno ancora lo è il paradiso. La grazia non si compra, ma Dio nella sua magnificenza la dà a tutti generosamente. Per divenire quindi santo, basta di corrispondere generosamente alla vocazione divina manifestataci nel santo battesimo, accorrendo lietamente, bibite cum laetitia, alle fonti della grazia che sgorgano dall'Eucaristia. Nell'odierna messa il divin Salvatore insiste in questo suo Invito.
Oggi, prima dei Vespri si coprono le Croci, le icone dell’altare e le immagini dei Santi. La consuetudine tollera, comunque, che si esponga sull’Altare il Venerdì di Passione la statua o l’immagine della Beata Vergine Addolorata. Le immagini delle stazioni della Via Crucis non si velano. Per cui, con la giornata di oggi, entriamo nel periodo di Passione, cioè le ultime due settimane che precedono la Pasqua.
Per questo, quanto mai opportune sono le parole del nostro Abate Emanuele Caronti O.S.B., che avevamo già ricordato nel 2015 (v. qui): «Siamo nella settimana di Passione. Gesù è sotto il torchio, e sotto questo torchio dovrà passare tutta l’umanità redenta, dovremo passare anche noi. Ma la legge del dolore, dura e spietata com’è, nel cuore di Dio si muta in uno strumento di amore infinito. L’anima non progredisce che in proporzione dei suoi sforzi, dei suoi sacrifici, dei suoi patimenti». Sul torchio mistico, v. qui.
Pubblichiamo, quindi, volentieri questo contributo del prof. Abbruzzi, che ci introduce nella I Settimana di Passione dedicato alla tradizionale e suggestiva visita ai Repositori (detti popolarmente "Sepolcri"), la sera del Giovedì santo, da parte dei c.d. crociferi (v. qui): uno dei riti della Settimana Santa a Noicattaro. Le origini di questa processione vengono fatte risalire all'inizio del '700 e denotano, comunque, un'ascendenza spagnola, che l'assimila ai riti che si svolgono nella città di Siviglia: «La processione dei crociferi, a Noicattaro, segna l’apertura delle celebrazioni per la Settimana Santa e il profondo rispetto per la tradizione fa sì che tutto sembri esattamente com’era trecento anni fa. Nella Pasqua del 1713 un nobile spagnolo, ora avvolto dall’anonimato, decise che anche nella sua nuova terra la Passione di Cristo sarebbe stata celebrata come a Siviglia: fu lui il primo ad attraversare le strade del paese con una croce in spalla e a flagellarsi con le catene davanti al Cristo in Croce. Quella che fu una scelta personale divenne presto tradizione popolare: di anno in anno il numero dei fedeli che hanno sollevato la Croce e seguito le orme del loro nobile predecessore è cresciuto e nessuno teme che in futuro la quantità di credenti forti e coraggiosi possa diminuire» (v. qui). Secondo altri, invece, l'origine sarebbe anche più risalente (v. qui).




Autore anonimo, Torchio mistico con i Sette sacramenti con donatore (Filips van Schoonhoven?), chiesa parrocchiale,  Aarschot

Gerolamo Troppa, Torchio mistico, XVII sec., Monastero di S. Chiara, Montecastrilli

Scuola di Quito, Torchio mistico, XVII-XVIII sec.

Giovanni Gasparro, Torculus Christi. Torchio mistico con i SS. Gabriele dell'Addolorata e Gemma Galgani, 2013, collezione privata

I Crociferi di Noja, teologi della Croce di Cristo

di Vito Abbruzzi

Venerdì sera, 24 marzo 2017, nella chiesa degli Agostiniani di Noicattaro (BA), di fronte ad un uditorio numeroso ed attento, Don Nicola Bux ha tenuto una conferenza sull’importanza teologica della plurisecolare tradizione dei Crociferi di Noja, commentando la frase paolina «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Colossesi 1, 24) (cfr. sull'incontro, Valeria Dibenedetto, Chiesa della Lama: incontro sulla figura del Crocifero, in NoicattaroWeb, 3.4.2017).
Si tratta di autentica tradizione – non già di folklore! – che a Noicattaro orgogliosamente ci si tramanda, da tempo immemorabile, di padre in figlio: una tradizione che nasce dal basso (quasi ogni famiglia ha la sua croce e i suoi crociferi) e sempre, in qualche modo, criticata ed osteggiata dall’alto, scambiando quella che è una lodevolissima pratica di pietà popolare con una mera esibizione di forza individuale e collettiva.
No! La pia pratica dei Crociferi di Noja non è quello che i “signori benpensanti” (per dirla alla De Andrè) dicono essere: incuranti che il “mal-essere” dell’uomo moderno ha tra le sue cause prime proprio la desacralizzazione del sacro. E a denunciarlo non è un cattolico tradizionalista, bensì un agnostico: il filosofo Umberto Galimberti, che a questo tema ha dedicato due libri, entrambi pubblicati da Feltrinelli: Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro, nel 2000; Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, nel 2012 (v. qui).
Bisogna interrogare questi tanti anonimi cirenei, che, carichi di una pesante croce – per ore, in silenzio, a piedi scalzi, con una catena di trentatrè anelli (quanti gli anni di Cristo) legata alla caviglia destra, detta “disciplina” – girano incappucciati le chiese del paese, sfidando le imprevedibili avverse condizioni meteorologiche e… umane: fa sempre freddo, spesso piove, qualche anno addirittura nevica; c’è poi il crocifero che si ferisce alla pianta dei piedi, perché qualcuno non si è preoccupato di tener pulito il percorso, seminandovi invisibili oggetti contundenti o taglienti lasciati cadere lì a caso (come, ad esempio, pezzi di vetro di qualche bottiglia di birra fatta andare in frantumi).
Una autentica Via Dolorosa, come a Gerusalemme viene chiamata la storica Via Crucis percorsa da Gesù e ripetuta dai pellegrini cattolici che si recano nella Città Santa.
Ogni crocifero, interrogato sulle motivazioni che lo spinge a caricarsi della croce, in prima battuta dirà che così faceva il nonno e suo padre, e altrettanto intende fare lui: la croce come una sorta di testimone per cementare i legami delle varie generazioni tra di loro, confermando in questo modo la presenza attiva della propria famiglia ad un appuntamento per essa imperdibile: la Settimana Santa, i cui riti di devozione popolare si svolgono a partire dal Giovedì Santo sera (subito dopo la Messa in Cœna Domini) sino alla tarda serata del Sabato Santo (poco prima della Veglia Pasquale). Ma, andando più a fondo, si scoprono tante verità, pregne di teologia, che il singolo crocifero, con semplicità disarmante, racconta: verità scolpite nella propria carne dalla croce, che, ad onta della fatica pazientemente sofferta nel portarla, è e resta il “dulce pondus”, come detto nel canto Crux fidelis: l’inno gregoriano antichissimo e assai bello del Venerdì Santo.
Avendo la fortuna di avere come alunni parecchi ragazzi di Noicattaro che sono crociferi, ho chiesto loro, individualmente, le ragioni profonde che li spinge a fare ogni anno questa esperienza dolorosa ed esaltante allo stesso tempo. Uno, Antonio (diciassette anni), mi ha confidato che tre anni fa ha sentito forte il bisogno di prendere il posto di suo zio, morto suicida, che portava sempre una delle due croci più pesanti del paese (più di settanta chili). Pur non emulandolo, portando la stessa croce (non potrebbe sopportarne il peso), Antonio vive la propria esperienza di crocifero come un modo efficace per espiare anche il peccato dello zio. Durante tutto il tragitto, man mano che la fatica aumenta sino allo sfinimento, nella mente di Antonio si affollano i ricordi più brutti della sua vita, gli errori sin a quel momento da lui commessi, alleggerendosi così dallo schiacciante peso dei rimorsi grazie alla croce portata – ora su una ora sull’altra spalla, e mai poggiata per terra – con ammirevole dignità.
La lezione di Antonio è esattamente quella del discepolato di Cristo, che consiste appunto nel prendere la propria croce, smettendo di pensare solo a se stessi (cfr. Luca 9, 23), che poi si traduce, nella vita di tutti i giorni, nel portare i pesi gli uni degli altri (cfr. Galati 6, 2). E in questo i Nojani – a prescindere dall’essere crociferi o meno – sono di esempio. Come Stefania (diciassette anni), anch’ella mia alunna, la quale si è molto legata ad una sua compagna di classe di Conversano: Arianna, molto provata dalla malattia della sorella, che giovanissima sta lottando con un tumore. Il conforto che Stefania sta dando ad Arianna è encomiabile: dorme addirittura a casa dell’amica, quando la sorella di questa, con i suoi genitori, è a Milano per le cure chemioterapiche. E così non la lascia e non la fa sentire sola. Stefania è diventata per Arianna una seconda sorella. Per non dire poi di un mio ex alunno, sempre di Noicattaro, che tutti i pomeriggi andava a recitare il Rosario da suo zio, gravemente ammalato di SLA, dedicandogli due ore del suo tempo. Anche questo è portare la croce! E col sorriso! Infatti, non conosco una popolazione più gioviale di quella nojana: la simpatia suscitata anche dall’incomprensibile eppure fortemente espressivo vernacolo fa dei Nojani doc persone facete e argute. Come Giuseppe, mio ex alunno diplomatosi lo scorso anno, non a caso crocifero: una miniera inesauribile di risate. Ancora adesso lo ringrazio per avermi fatto ridere di gusto. E proprio per questo mi manca.
Un’altra lezione, ricevuta sempre da Antonio, è che, come Gesù non si scelse la croce da portare, altresì il crocifero: accetta in silenzio quella che al momento il responsabile delle croci gli porge, sempre proporzionata al suo fisico: chi vuol strafare, pretendendo una croce che non gli si confà, prima o poi viene meno, non senza l’altrui dileggio, ben conoscendo, da bravi contadini qual sono i Nojani, che «nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Luca 9, 62).
Un altro alunno, Michele (sedici anni), anch’egli crocifero per tradizione familiare, mi ha fatto comprendere – meglio di tanti teologi – il valore salvifico della Croce di Cristo. Alla mia domanda: «Ma Gesù avrebbe potuto salvarci con una modalità diversa da quella della Croce?», egli candidamente mi ha risposto: «No. La Croce è l’unica via possibile di redenzione per l’uomo». E ha ragione! Come dargli torto? I sindonologi insegnano che strumento più perfetto per mettere a morte un uomo mediante una lunghissima e dolorosissima agonia è stata ed è proprio la croce: strumento di infamia e di maledizione ben collaudato dai Romani nei confronti dei peggiori criminali – o presunti tali – non cittadini di Roma (come, ad esempio, gli schiavi). E invero «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno» (Galati 3, 13). Ma il legno della Croce da maledizione è divenuto per noi strumento di benedizione: «albero beato, ai cui bracci fu appeso il prezzo del riscatto del mondo» (inno Vexilla Regis). «Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza» (Ebrei 2, 10).
I Crociferi di Noja, dunque, quali veri teologi della Croce di Cristo. Una teologia, la loro, per niente accademica, testimoniata molto efficacemente nella personale ed intima assimilazione al Cristo crocifisso, facendo proprie le parole di San Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2, 20).
Alla domanda di Gesù «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18, 8), io non ho dubbi a rispondere che a Noicattaro certamente Egli, nostro signore e salvatore, la troverà, e la troverà in abbondanza… sino alla noja.






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