Sante Messe in rito antico in Puglia

giovedì 31 marzo 2016

Con i Sacramenti non si scherza - Presentazione a Roma dell'ultimo libro di don Nicola Bux

Giorni fa, notiziando della pubblicazione dell’ultima fatica di don Nicola Bux, Con i sacramenti non si scherza (Cantagalli, 2016) (v. qui), con introduzione di Vittorio Messori, avevamo preannunciato che il libro sarebbe stato presentato anche a Roma. Per cui, dopo Lecce, in cui la presentazione sarà il prossimo 2 aprile (v. qui), è oggi noto il programma per la Capitale, che riprendiamo dal sito del Coordinamento nazionale Summorum Pontificum.

CON I SACRAMENTI NON SI SCHERZA


Sarà presentato fra breve a Roma il nuovo libro di Don Nicola Bux, Con i sacramenti non si scherza (Cantagalli, 2016), che fa seguito, dopo quasi sei anni, al notissimo Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme, 2010). Come tutti ricordano, il libro del 2010 ebbe un successo editoriale particolarmente significativo, e lanciò tra il grande pubblico un convincente grido di allarme circa la grave perdita di consapevolezza liturgica dilagante nella Chiesa, facendone prendere intelligenza a molti, laici ma anche sacerdoti, e dimostrando in termini accessibili ad ogni lettore la verità della notissima convinzione del cardinal Ratzinger: «la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia».

Non stupisce affatto, dunque, che il libro di Don Bux, pur non essendo specificamente dedicato alla liturgia tradizionale, avesse trovato allora un’accoglienza particolarmente favorevole tra i fedeli legati alla Messa antica; Messa che Don Bux ama sinceramente, celebra spesso e diffonde con passione. D’altra parte, i fedeli del Populus Summorum Pontificum sanno bene, per diretta esperienza, che la liturgia tradizionale è il solo rimedio dimostratosi davvero efficace per contrastare le innumerevoli derive liturgico-teologiche che non lasciano indenni quasi nessuna parrocchia e nessuna celebrazione.

Con questo suo nuovo lavoro, Don Bux giunge ad arricchire ulteriormente la sua denuncia del grave male liturgico che colpisce oggi la chiesa, e che possiamo comprendere, come ci ricorda l’autore, attraverso le parole di Isaia, citate espressamente da Gesù: «questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani» (Is 29,13 in Mc 7,6-7).

Non si tratta, naturalmente, di una denuncia fine a se stessa: lo zelo amaro è quanto di più lontano non solo dagli intenti di Don Bux come autore, ma, soprattutto, dalla sua personalità e dalla carità sacerdotale che lo contraddistingue. Egli è un eccellente diagnosta, e sappiamo tutti come la buona diagnosi sia la premessa ineludibile della cura di ogni malattia, e, quindi, anche delle malattie, spirituali prima ancora che liturgiche, che affliggono la Chiesa. Gli scritti di Don Bux, infatti, indicano anche un indirizzo terapeutico: se per tanti versi ed a tanti pastori sembra oggi indispensabile una Chiesa in uscita, bisogna prestare anche grande attenzione a chi spera, prega e, con l’aiuto del Signore, si adopera perché la Chiesa prima di tutto rientri in se stessa.

Con i sacramenti non si scherza, che si avvale dell’introduzione di Vittorio Messori, sarà presentato mercoledì 6 aprile, alle h. 17,30, presso l’Hotel Columbus, in via della Conciliazione 33, a Roma. Interverranno S. E. Rev.ma il Signor Cardinale Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, S. E. Rev.ma il Signor Cardinale Raymond Leo Burke, Cardinale Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta, e il Dott. Ettore Gotti Tedeschi, che discuteranno del libro con i giornalisti Paolo Rodari, de La Repubblica, e Guillaume Ferluc, di Paix Liturgique (nonché, ci piace ricordarlo, stretto collaboratore del CNSP e Segretario Generale del CISP, che organizza ogni anno il grande pellegrinaggio internazionale a Roma del Populus Summorum Pontificum). L’incontro sarà moderato da Jacopo Coghe, di “Generazione Famiglia”.

mercoledì 30 marzo 2016

Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due

Rilanciamo volentieri, in questo mercoledì di Pasqua nel quale tradizionalmente erano benedetti gli Agnus Dei (nel primo anno di pontificato e successivamente ogni sette anni), quest’interessante contributo tratto da Riscossa cristiana.


Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due

“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28).

di Carla D’Agostino Ungaretti

L’esortazione rivoltaci da Gesù, nel Discorso Apostolico secondo Matteo, è piena di significati e di conseguenze sui quali l’umanità dovrebbe seriamente tornare a riflettere, soprattutto in questa travagliata epoca che ha determinato il trionfo del materialismo e l’affievolimento (per non dire la totale scomparsa) del senso del peccato[1]. Due sono i punti salienti di quell’esortazione: da un lato, l’immortalità dell’anima e da un altro, l’esistenza del demonio e dell’inferno. In questa mia riflessione, non certo da teologa o da esegeta ma da cattolica “bambina”, mi soffermerò sul primo dei due problemi, rimandando il secondo a un’occasione futura, sempre Deo favente.
Con il termine “anima” si intende comunemente l’elemento spirituale dell’uomo che, a differenza di quello corporeo, non conoscerebbe l’esperienza della morte. È un tema particolarmente coinvolgente, oltre che affascinante, perché è strettamente connesso con quello che ciascuno di noi immagina sia il nostro destino escatologico.  Che cosa ci aspetta dopo la morte fisica? L’annientamento eterno, indistinto e inconsapevole, un sonno profondo dal quale non ci sarà risveglio, come sostengono i materialisti e i laicisti più sfegatati (e in questo caso non dobbiamo aspettarci nulla, perché saremo completamente incoscienti), ovvero la sopravvivenza di quella componente totalmente immateriale del nostro essere che i credenti chiamano “anima” e i non credenti “mente”, anche se i due termini non sono esattamente sinonimi? E se c’è una sopravvivenza, ci aspetta il premio per la nostra vita virtuosa e la nostra fedeltà a Dio o il castigo eterno per i nostri peccati? Il problema è enorme e non può essere liquidato tanto facilmente non pensandoci mai come fanno molti, perché allora ci accomuneremmo agli animali[2].
Lo studio dell’anima è affascinante, come dicevo poc’anzi, non solo per l’ “homo religiosus”, ma anche per l’antropologo, perché gli consente di studiare le modalità con le quali l’essere umano di tutti i tempi e di tutte le latitudini ha immaginato il suo destino dopo la morte, segno che l’aspirazione a una qualche forma di immortalità è sempre stata presente nel cuore e nella mente degli uomini. Infatti tutte le civiltà e tutte le religioni ritengono che “qualche cosa” dell’essere umano sopravviva dopo la morte fisica.
Le neuroscienze moderne però creano alcuni problemi al riguardo e pretendono, senza peraltro riuscirci, di trovare soluzioni totalmente materialistiche. Secondo Edoardo Boncinelli, un primo e più naturale significato del termine “anima” sarebbe “una sorta di energia vitale e di principio organizzatore che permea gli esseri viventi,  ne sostiene l’attività e ne coordina le funzioni”[3] . Inoltre egli riporta, condividendola, l’opinione di F. Crick, secondo il quale la parte più immateriale e, innegabilmente, spirituale dell’uomo sarebbe da identificare con la capacità di tradurre un impulso elettrico nel suo significato. La mente – termine che molti preferiscono usare invece di “anima” – trasformerebbe qualcosa di implicito (neurostato) in qualcosa di esplicito(psicostato). Il passaggio da uno stato all’altro è detto “binding”, ma Boncinelli riconosce onestamente che gli scienziati non sanno che cosa sia esattamente, né come avvenga quel passaggio. Se esso si identifica con una presa di coscienza collettiva e può essere interpretato come capacità di dare un significato, allora si può pensare che esso abbia a che fare con la capacità linguistica dell’uomo. Boncinelli distingue l’autocoscienza, cioè la capacità dell’uomo di raccontare in parole quello che sta vivendo, dalla coscienza fenomenica, di carattere cognitivo – affettivo che si fa fatica a comunicare adeguatamente. Poiché il potersi esprimere implica capacità di progettazione e azione, tale capacità secondo lui sarebbe la caratteristica dell’autocoscienza[4].
“Sarà … !” commenta, certamente non persuasa, la vostra amica cattolica “bambina”. Ma piuttosto si domanda: “Chi ha “progettato e instillato” nel cervello umano quell’ “energia vitale, o principio organizzatore” che gli scienziati non sono neppure riusciti a capire come funzioni  e, tanto meno, riuscirebbero a fabbricare  in laboratorio, se non Qualcuno la cui intelligenza trascende enormemente le capacità umane?”  A questa domanda gli scienziati non rispondono.
Ma come è stato trattato nei secoli il problema dell’anima e dello spirito – termini che io, invece, preferisco usare – di quelle parti, cioè,  impalpabili della persona umana che non si vedono ma che è impossibile negare, perché sono sempre stati capaci di produrre effetti straordinari e, loro sì, ben visibili?[5] Al tempo, ormai purtroppo lontano, del mio liceo classico – frequentato come usava una volta, ossia sul serio, e non secondo la deleteria moda post sessantottina – la filosofia greca mi aveva particolarmente appassionato. Infatti, avendo io ricevuto una rigorosa educazione cattolica basata sul Catechismo di S. Pio X – fatto come tutti sanno di domande e risposte, facilissime da memorizzare, che mi aveva insegnato come, dopo la morte, l’anima non muore col corpo, ma va in Paradiso o all’inferno –   inizialmente avevo trovato nei grandi filosofi greci, e soprattutto in Platone, una straordinaria assonanza con il messaggio cristiano, come se Dio avesse instillato in quella grande mente, una sorta di anteprima di quella Parola che sarebbe stata pronunciata secoli dopo.
E infatti un po’ è avvenuto davvero così, anche se soltanto un po’: infatti già Platone, nel Fedone, aveva intuito che l’anima è razionale, spirituale e immortale, tanto che la filosofia patristica aveva trovato nella sua dottrina una straordinaria armonia con la frase di Gesù che ho citato in epigrafe. Ma più tardi, progredendo negli studi e nel cammino di fede, ho capito che le cose non stanno esattamente in questi termini, o meglio l’anima è, sì, immortale, ma è tale perché così Dio, creandola, l’ha voluta e non già perché essa vive, eterna ed increata, nel Mondo delle Idee ed esce dalla sostanza di Dio per entrare in un corpo, come credeva Platone. Secondo lui, filosofo per molti versi affascinante a causa delle poetiche immagini mitologiche di cui si serve per illustrare il suo pensiero, essendo l’anima totalmente distinta dal corpo, l’uomo non può essere costituito da corpo e anima insieme, ma “è” l’anima, e solo quando morendo si sbarazza del corpo, egli può godere del suo destino immortale.
Invece, a differenza di Platone, secondo il pensiero ebraico dell’Antico Testamento Dio crea l’anima dal nulla, ed essa forma un tutt’uno con il corpo. Nell’Antico Testamento non esiste alcuna forma di dualismo tra anima e corpo, infatti sappiamo che per gli antichi Patriarchi l’idea di immortalità e di premio dopo la morte coincideva con la speranza di avere una lunga discendenza. Disse il Signore ad Abramo: “Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande … Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”  (Gen 15, 1 ss). Perciò  in Abramo, nei Patriarchi  e nei libri successivi alla Genesi non si rintraccia una chiara visione della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Anzi: “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità … tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere” , afferma il Qoèlet (Eccle 3, 20)[6] , ma ciò non significa che esso riveli una sorta di antropologia materialistica, perché l’uomo è anche spirito (in ebraico “ruah”). Dio solo è la fonte della vita e l’uomo vive perché ha ricevuto da Lui il soffio vitale, grazie al quale è capace di entrare in relazione con Lui. Ma il termine più usato nella Scrittura è il “cuore”, sede dei sentimenti e dei pensieri, sede della vita, parte del cervello, fattore di unità dell’uomo .“Allevia le angosce del mio cuore / liberami dagli affanni”  implora il Salmo 25, 17 .
Ricordo che al liceo il mio professore di filosofia faceva notare ai suoi allievi il diverso atteggiamento di Socrate e di Gesù di fronte alla morte. Socrate, secondo  Platone, bevve la cicuta deliberatamente e serenamente perché per lui la morte significava liberazione dalla prigionia del corpo; invece Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, ebbe paura  della morte, come ce l’hanno tutti gli uomini di questo mondo. Giunto al Getsemani, “cominciò a sentire paura e angoscia … e diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. (Mc 14, 34). “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … ” (Eb 5, 7). Infatti la morte è un evento orribile perché è la conseguenza del peccato, cioè della disobbedienza volontaria a Dio, pericolo dal quale Dio stesso aveva chiaramente messo in guardia Adamo ed Eva (Gen 2, 17). Il peccato, perciò, ha provocato la morte, cioè la  separazione eterna dal Padre che invece è il Dio della Vita. Gesù accetta la morte solo perché in essa riconosce la volontà del Padre per la redenzione dell’uomo[7]; perciò i cristiani tengono ben distinto il concetto dell’immortalità dell’anima, tipico della filosofia greca, da quello  della resurrezione dei morti che, rispetto al primo,  per opera di S. Paolo, rappresenta un notevole passo avanti.
Anche Paolo, nelle lettere, rivela una visione unitaria dell’uomo che sarebbe composto addirittura da tre elementi: spirito, anima, corpo (1Ts 5, 23). L’unica opposizione che egli esprime è tra quella tra “sarx” (carne), con significato negativo indicante la parte istintuale e passionale dell’uomo, e “soma” (corpo), indicante l’uomo tutto intero, luogo in cui interagiscono la parte materiale e quella spirituale. Nella visione paolina l’uomo è un corpo animato o un’anima in quanto corpo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente , santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Ma il corpo, che è composto di carne e anima insieme, vive in conflitto con lo spirito. Lo spirito spinge l’uomo verso Dio, ma il corpo sente la tentazione della carne: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal 5, 16, 17). Ma come mai avviene tutto questo, dato che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio? Perché la vita  dell’uomo è stata contagiata per sempre dal peccato originale e può guarire e tornare all’originaria comunione con Lui non liberandosi del corpo (come diceva Platone), né con l’osservanza della legge (come nell’Antico Testamento) e tanto meno con le sue sole forze – come sostenevano la gnosi e l’eretico Pelagio, la cui dottrina fu dimostrata totalmente errata sia teologicamente che filosoficamente  da S. Agostino – ma solo per i meriti dell’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.
Ciò nonostante, l’uomo rimane libero di peccare perché in lui rimane sempre la tendenza a soddisfare la carne; perciò la vera liberazione, secondo Paolo, non avverrà dal corpo (come diceva Platone) ma sarà la liberazione del corpo, tutto intero, da ciò che gli impedisce di diventare spirituale, e dalla morte, che è la più temibile conseguenza del peccato. Infatti l’aspetto qualificante del Nuovo Testamento non è l’immortalità dell’anima – sulla quale non si discute perché, come ha detto Gesù,  non può essere uccisa – ma la resurrezione dei corpi.
La visione biblica e patristica dell’uomo presenta di lui una visione unitaria: l’anima conferisce una dimensione all’uomo tutto intero ed è l’uomo tutto intero ad essere redento e salvato nella vita nuova donatagli da Dio attraverso Cristo. Paolo stesso constatò di persona la differenza culturale con l’ellenismo quando si presentò davanti ai colti e smaliziati Ateniesi dell’Areopago per parlare loro della Resurrezione di Cristo: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” gli risposero i più educati, mentre altri lo derisero, “ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti fra questi anche Dionigi  membro dell’Areopago e una donna di nome Damaris” (At 17, 34). Le donne, a cominciare da Maria di Nazareth e da sua cugina Elisabetta, sono sempre state più ricettive degli uomini alla Parola di Dio.
Il Simbolo Apostolico, professione di fede dell’inizio del III secolo, parla di “resurrezione della carne”, mentre il Simbolo Niceno – Costantinopolitano – che recitiamo ogni domenica durante la S. Messa ed è una rielaborazione del primo per opera del Concilio di Costantinopoli del 381- preferisce l’espressione, più completa, “resurrezione dei morti” a significare, cioè, l’uomo tutto intero, composto di anima e di corpo. Infatti nella resurrezione la creazione intera viene ricondotta, per intervento divino, a un nuovo progetto cosmico, nel senso etimologico greco di “ordine”, “armonia”.  “La creazione stessa … nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio … tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto … anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rm 8, 22 ss)[8] .
Allora crolleranno le limitazioni dello spazio e del tempo nelle quali ora viviamo immersi, saremo come apparve Gesù ai discepoli lo stesso giorno  della Resurrezione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”, come fu visto da Tommaso otto giorni dopo, sempre “a porte chiuse”(Gv 20, 19- 26) e vedremo Dio faccia a faccia.
E che ne è dell’anima dopo la nostra morte e finché il resto dell’umanità è ancora immersa nelle dimensioni dello spazio e del tempo? Se l’anima è immortale, come ha detto Gesù, non possiamo credere che muoia anch’essa, così come muore fisicamente il corpo, in attesa di risorgere con esso alla fine dei tempi. La Chiesa ha sempre impegnato la sua autorità di “Mater et Magistra” nell’insegnarci che le anime dei grandi Santi, che in duemila anni di storia hanno vissuto e operato nel solco tracciato dalla Parola di Dio osservandola in grado eroico, ora sono presso di Lui, vedono Lui faccia a faccia e vedono e assistono noi con le loro preghiere. Ma non solo loro, anche se solo a loro è riservato il culto pubblico: il grande mistero della Comunione dei Santi – cioè di tutti coloro, anche i più ignoti, le cui anime si sono salvate – ci insegna che possiamo e dobbiamo pregare per loro, nella certezza che anche loro continuano ad amarci e a proteggerci, come le persone che abbiamo amato e che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio.
Ho condotto questa mia umile e necessariamente incompleta riflessione da cattolica “bambina” sull’anima e sulla Resurrezione promessaci da Cristo, Bibbia alla mano e davanti agli occhi, non certo elaborati trattati filosofici e teologici, ma il testo di filosofia del mio antico liceo classico, come si conviene appunto a una cattolica “bambina”. Perciò non pretendo di aver detto nulla di eccezionale ma, mentre ringrazio il Signore per avermi fatto il dono della fede, spero che Egli  si serva delle mie povere parole per instillare nel cuore e nella mente di chi prova la terribile tentazione del dubbio, qualche piccolo seme di speranza, perché “nella speranza siamo stati salvati … e se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 24 – 25).

[1] Con grande soddisfazione di Eugenio Scalfari che, come grande risultato delle sue frequentazioni personali con Papa Francesco, ha messo più volte in risalto questo affievolimento.

[2] Aldo Grasso riferisce che nell’Enciclopedia Einaudi 1977 – 1982,  monumento allo scientismo novecentesco politicamente corretto, compare la voce “corpo” ma non la voce “anima”, perché (secondo l’editore) compito dell’Enciclopedia è “rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione attraverso conoscenza e scienza” Cfr. IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4. Il Prof. Grasso aggiunge di aver letto la voce “corpo” e di averci capito poco, segno (aggiungo io) che neppure il compilatore di quella voce ha le idee chiare in proposito.

[3] Cfr. E. Boncinelli, I segreti della mente? Molecole, cellule e circuiti nervosi”, IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4.

[4] Cfr. E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli, 2015, pag. 29 e seguenti.

[5] Basti pensare a quello che sono stati capaci di fare in ogni tempo i  grandi Santi della Chiesa, lasciando che lo Spirito Santo guidasse le loro anime sulla strada tracciata da Dio.

[6] Mentre rifletto su questo versetto del Qoèlet, mi viene in mente che esso dovrebbe piacere agli animalisti che, come è noto, negano la superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Chissà che, leggendolo, non arrivino pian piano ad apprezzare la Sacra Scrittura approdando prima o poi al Cristianesimo? Le vie del Signore sono infinite e forse questo potrebbe essere un “preambulum fidei”, come dice S. Tommaso d’Aquino. Ma forse lavoro di fantasia e mi do troppe arie da filosofa consumata …

[7] Anche l’Apocalisse presenta la morte come l’ultima nemica che sarà sconfitta (20, 14).

[8] Questa notissima frase della Lettera ai Romani mi offre lo spunto per un’ulteriore riflessione, forse poco ortodossa, ma allora mi aspetto di essere corretta da chi ne sa più di me. E’ noto che le piante e gli animali non hanno un’anima immortale quindi sarebbero fatti di pura materia, ma se è vero che anche la materia spera di essere redenta alla fine dei tempi, non possiamo sperare che anche per loro, sue creature, Dio abbia progettato una sorta di resurrezione finale, senza ritenere necessario rivelarlo all’uomo? Sono stata molto criticata per questa mia ipotesi, ma io penso che se Dio ha creato il mondo per amore, non può abbandonare nel nulla eterno quelle altre sue creature, ontologicamente  inferiori all’uomo e del tutto incolpevoli del peccato da lui commesso.

martedì 29 marzo 2016

I terroristi? Possono essere di tutto, ma non islamici. Così vuole il “politicamente corretto”

Rilanciamo volentieri questo contributo di Paolo Deotto da Riscossa cristiana, che ci fa rileggere le pagine scritte da San Giovanni Bosco sull’Islam; pagine attualissime alla luce dei recenti attentati di Bruxelles, che hanno dimostrato come l’idea stessa di integrazione – così come concepita nell’ambito occidentale – è fallimentare, fondata com’è sulla debolezza e sul sonno dell’Europa, dimentica delle sue radici cristiane (cfr. L.G., Lo Stato Islamico “mostra i muscoli” all’Europa, debole e addormentata, in Corrispondenza romana, 24.3.2016Stefano FontanaL'Europa è debole dentro, in Chiesa e postconcilio, 28.3.2016; Piero VassalloL’urlo islamico e il cauto bisbiglio dell’Occidente, in Riscossa cristiana, 29.3.2016) ed hanno mostrato come la distinzione tra “islam moderato” ed “islam integralista” sia alquanto artificiosa e, diremmo, innaturale dell’islam stesso (cfr. Sergio Rame, Il divieto choc dei capi islamici: “Non pregate per vittime infedeli”, in Il Giornale, 28.3.2016 ed in Riscossa cristiana, 28.3.2016. V. anche Claudio Cartaldo, Il vescovo ora parla chiaro: “Islam e Corano violenti”, in Il Giornale, 29.3.2016, nonché in Riscossa cristiana, 29.3.2016, che raccoglie le notazioni del coraggioso vescovo polacco monsignor Tadeusz Pieronek).
In senso analogo a Paolo Deotto si esprimeva, nella sua pagina Facebook, lo scrittore Antonio Socci: «BERGOGLIO E WOODY ALLEN
Pur di non parlare di islamismo, cioè dell’ideologia di morte che produce terroristi e stragi in tutto il mondo, papa Bergoglio oggi ha detto: “Dietro gli attentati terroristici di Bruxelles ci sono i fabbricatori, i trafficanti di armi”. E allora all’origine della strage dell’11 settembre ci sono i fabbricanti di aeroplani? E dietro all’Isis che nel febbraio 2015 ha tagliato la testa a 23 cristiani egiziani innocenti, c’è l’industria dell’acciaio che fabbrica le lame? Si resta basiti davanti a tanta superficialità (che serve solo a non dire la verità): IL PROBLEMA E’ L’IDEOLOGIA DELL’ODIO CHE ARMA I CUORI, NON I MEZZI MATERIALI CHE SI USANO! PERCHE’ SI AMMAZZA ANCHE CON LE NUDE MANI O CON LEGGI CRIMINALI E SENTENZE DI TRIBUNALI CHE CONDANNANO A MORTE ASIA BIBI SOLO PERCHE’ CRISTIANA! Se non ci fosse da piangere, perché ci sono tante vittime innocenti, mi verrebbe da dire che Bergoglio per queste baggianate s’ispira a una celebre battuta di Woody Allen: “La psicoanalisi è un mito tenuto vivo dall’industria dei divani”. Più o meno lo stesso concetto e la stessa profondità di giudizio. Ma la tragedia è che Bergoglio non fa il comico. Fa il Papa ...» (v. qui).

I terroristi? Possono essere di tutto, ma non islamici. Così vuole il “politicamente corretto”

di Paolo Deotto

Rileggiamo le chiare parole di San Giovanni Bosco sull’islam.

I morti di Bruxelles e a Pasqua quelli di Lahore. Ma attenzione, non si parli di terrorismo islamico! Al più, si può parlare di “fondamentalisti”, di califfati “sedicenti”. Il conformismo dei pavidi e degli imbroglioni non conosce confini. Di fronte a una galleria di buffonate, in cui si arriva ad addossare la responsabilità del terrorismo ai “mercanti di armi”, rileggiamo le chiare parole di San Giovanni Bosco sull’islam.

Chi non è giovanissimo ricorda il cupo periodo in cui in Italia imperversarono le “Brigate Rosse”, gruppi di terroristi di ispirazione marxista, che colpivano le persone considerate “nemici della classe operaia”, che dopo ogni atto criminale lasciavano scritti in cui spiegavano la loro origine politica, lo scopo delle loro azioni. Eppure in quegli anni il bigottismo dominante prescriveva che le Brigate Rosse dovevano essere “presunte”, anzi, probabilmente erano gli onnipresenti “fascisti” che organizzavano tutto per screditare la sinistra. La quale sinistra, dominata dal PCI, aveva finanziato il Movimento Studentesco e poi le altre varie forme di criminalità che ne erano derivate e in parte si trovava come l’apprendista stregone, ma in parte aveva tutto l’interesse a continuare a favorire il terrorismo per tenere sulla corda gli svirilizzati democristiani.
Comunque i criminali rossi, per quanto si sgolassero a rivendicare la loro origine marxista, “non” dovevano essere rossi.
Ora accade un fenomeno simile per il terrorismo islamico. Naturalmente lo sdegno è unanime, la condanna è unanime, poi il repertorio prevede il dolore, la rabbia e la ferma volontà di non cedere al terrorismo (questa non l’ho mai capita. Cedere cosa?). Ma il repertorio prevede anche che non si parli di terrorismo islamico, che non si faccia l’ovvio collegamento con una pseudo-religione che, nata dalla violenza, esprime violenza. È nella sua stessa essenza. No, siamo in piena orgia di dialogo e quindi, se si parla di califfato, questo è “presunto” (e invece il califfato mondiale è proprio uno degli impegni del bravo islamico), come afferma la signora Boldrini Laura (clicca qui); e aggiunge che per combattere il terrorismo bisogna addirittura favorire l’immigrazione. Certo, la signora Boldrini va capita. È in un’età critica per una donna (55 anni al 28 aprile), le rughe iniziano a farsi strada, in particolare quelle sul collo si fanno più evidenti, e quindi un turbamento generale può facilmente portare a straparlare. Però, le castronerie sono e sempre restano castronerie.
Oppure abbiamo Bergoglio, che ogni tanto condanna le stragi di cristiani, bontà sua, ma si guarda bene dal parlare di terrorismo islamico. Certo, anche Bergoglio va capito, è umano voler difendere i propri amici e quindi cercare di minimizzare o nascondere le loro colpe, ma, suvvia, attribuire la colpa del terrorismo ai mercanti di armi (clicca qui) è un tantino comico. Anzitutto i mercanti di armi hanno il loro vero business nelle grandi forniture. I pochi chili di esplosivo o i pochi mitragliatori con cui fare qualche bella strage rappresentano gli spiccioli e, per la cronaca, restando in Europa, nacque un fiorente mercato d’armi “fai da te” dopo il dissolvimento dell’esercito jugoslavo con relativo saccheggio di armerie. Ma, a parte ciò, non sono certo i “mercanti di armi” a spingere fanatici assassini a farsi saltare in aria. Il delinquente professionale tutela sé stesso. Il delinquente islamico, imbevuto di falsità, arriva a un punto di demenza tale da uccidere uccidendosi.
Su questo tema, abbiamo letto ieri un articolo, in buona parte condivisibile (clicca qui), di Vittorio Feltri. E a proposito delle curiose elucubrazioni da Santa Marta, Feltri scrive:


Comunque sia, il conformismo e l’ignoranza dilaganti impongono di non parlare di terrorismo islamico, perché l’islam è buono, è bello, è bravo. Non è ben chiaro se sia buono, bello e bravo come il luteranesimo, ce lo faranno sapere. Probabilmente sono buoni, belli e bravi ex aequo, perché la nuova religione mondiale è in via di formazione e prevede il “todos Caballeros”. In attesa comunque di aggiornamenti, può essere utile rileggere una sintesi semplice, chiara e senza pruriti buonisti sull’islam. La scrisse San Giovanni Bosco che, essendo cattolico e santo, non aveva paura a parlare chiaro. Parlava chiaro perché gli interessava solo difendere e diffondere la Vera Fede. Non aveva tanti interessi mondani da coltivare, come i quattro cialtroni che in questo tempi sciagurati infestano e distruggono la civiltà.
Pubblichiamo qui di seguito le pagine sull’islam contenute nel libro “Il cattolico istruito nella sua religione”, pubblicato nel 1853 dal Sacerdote Giovanni Bosco, prete cattolico. Nel libro si immagina il colloquio tra un padre e i figli; col padre, che istruisce i figli sulle verità di Fede, interloquisce il figlio maggiore. Buona lettura a tutti, e preghiamo il Signore che ci doni presto santi sacerdoti come Giovanni Bosco.
















lunedì 28 marzo 2016

Le numerose apparizioni di Gesù risorto provano la Resurrezione

Tra le numerose apparizioni e manifestazioni del risorto, vi è stata senz’altro quella a sua Madre.
I Vangeli non menzionano, è vero, alcuna apparizione alla Vergine. Ma si tratta nondimeno di una verità da sempre creduta dal popolo cristiano. Scriveva il grande biblista domenicano Marie-Joseph Lagrange: « La piété des enfants de l’Église tient pour assuré que le Christ ressuscité apparut d’abord à sa très sainte Mère. Elle l’a nourri de son lait, elle a guidé son enfance, elle l’a comme présenté au monde aux noces de Cana, pour ne reparaître guère qu’auprès de sa croix. Mais Jésus a consacré à elle seule avec Joseph trente ans de sa vie cachée : comment n’aurait-il pas eu pour elle seule le premier instant de sa vie cachée en Dieu ? Cela n’intéressait pas la promulgation de l’Évangile ; Marie appartient à un ordre transcendant où elle est associée comme Mère à la Paternité du Père sur Jésus » ; «La pietà dei figli della Chiesa ritiene come certo che Cristo risorto apparve prima alla sua Santissima Madre. Lei Lo alimentò col suo latte, guidò durante la sua infanzia, per così dire, Lo presentò al mondo nelle Nozze di Cana, e non riapparve se non ai piedi della Croce. Ma Gesù consacrò solo a Lei e a San Giuseppe trent’anni della sua vita nascosta: come avrebbe potuto non dedicare solo a Lei il primo istante della sua vita nascosta in Dio? Non c’era interesse a divulgare questo dato nei Vangeli; Maria appartiene a un ordine trascendente, nel quale è associata, come Madre, alla paternità del Padre, in relazione a Gesù» (Marie-Joseph Lagrange, OP, L’Évangile de Jésus-Christ avec la Synopse évangélique, trad. a cura di P. C. Lavergne o.p., Librairie Lecoffre-Gabalda et Cie, Paris, 1954, p. 648-649).
Vi sarebbero, a fondamento, di questo convincimento almeno due ragioni: 1. la prima di ordine, diciamo, affettivo e naturale: Cristo amava profondamente sua Madre e, dunque, non poteva non renderla partecipe (così come del resto l’aveva resa socia e compartecipe della Passione), prima di ogni altra persona, della gioia della Resurrezione; 2. la seconda ragione possiamo definirla di ordine teologico: Maria è stata la prima redenta (in virtù del suo immacolato concepimento) e la prima credente, la quale meditava nel suo cuore, sin dalla divina Infanzia del Redentore, tutti gli avvenimenti che l’hanno interessato. Per questo, essendo la prima credente, anzi, diciamo, il prototipo della perfetta credente, il Signore non poteva far a meno di manifestarsi, prima che alla Maddalena ed agli altri discepoli, a sua Madre.
Anche l’apocrifo Vangelo di Gamaliele (risalente al VI sec.) ed i Padri hanno fortemente sostenuto quest’opinione. Abbiamo testimonianze di sant’Efrem Siro e di san Giovanni Crisostomo. Essi fondavano questa convinzione su un passo del Vangelo matteano (Matth. XXVIII, 1), secondo cui Gesù sarebbe apparso a «Maria Maddalena e l’altra Maria», intendendo per «altra Maria» la Madre di Gesù.
Il santo ortodosso Gregorio di Palamas, nella sua XVIII Omelia sulle Mirofore, ovverosia per la c.d. domenica delle mirofore, nega decisamente che la prima apparizione del Risorto sia stata per la Maddalena, bensì fu a favore della Madre: «… l’annuncio della Resurrezione del Signore prima fra tutti gli uomini, com’era del resto conveniente e giusto, l’ebbe dal Signore la Madre di Dio, ed ella prima di tutti lo vide risorto e godette della sua divina familiarità: né lo vide solo con gli occhi e lo sentì con le proprie orecchie, ma per prima ella sola toccò con le mani i suoi santi piedi, benché gli evangelisti non dicano in modo chiaro tutte queste cose, per non addurre come testimone la Madre e offrire occasione di sospetto agli increduli» (San Gregorio di Palamas, Omelia XVIII sulle Mirofore, § 3, in Georges Gharib – Ermanno M. Toniolo, Testi mariani del secondo millennio. 1. Autori orientali (secc. XI-XX), ed. Città Nuova, Roma, 2008, p. 350).
Con lui anche altri Padri, sia latini sia orientali, hanno affermato questa verità (S. Paolino di Nola, Isacco di Antiochia, Cesario di Arles, Eadmero, Amedeo di Losanno, Onorio di Autun, Giovanni Euchaita, S. Massimo il Confessore, Giorgio di Nicomedia, Simeone Metafraste, S. Bruno di Segni, Ruperto di Deutz, Sicardo da Cremona, S, Gregorio di Nissa, S. Giovanni di Tessalonica, ecc.), sebbene con varie argomentazioni, hanno sostenuto tale verità (cfr. Aristide Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale. Con Maria, dalla Pasqua all’Assunta, ed. Paoline, Milano, 1995, pp. 38 ss. Per riferimenti, v. anche Sergio Gaspari, Testimone privilegiata del Risorto, in Madre di Dio, 2007, fasc.  4; George Gharib, L’Apparizione del Risorto alla Madre e la festa della Risurrezione, ivi, 2006, fasc. 4, che offre anche interessanti spunti legati alla liturgia siro-occidentale).
Anche la Chiesa latina celebra, poi, sin dal termine della grande veglia di Pasqua, il saluto pasquale del Risorto alla Madre con il canto dell’antifona del Regina Coeli (come prescrive la terza Editio Typica del Missale Romanum approvato da Giovanni Paolo II e pubblicato nel 2002).
Il papa Giovanni Paolo II, a sua volta, ha sostenuto in diverse occasioni questa consolante verità (cfr. Omelia della Santa Messa nel Santuario di Nostra Signora de La Alborada, 31 gennaio 1985, § 6; Regina Coeli, 4 aprile 1994; Udienza generale, 21 maggio 1997. V. anche Salvatore Maria Perrella, Maria nel Mistero Pasquale, in L’Osservatore romano, 9.4.2009).
Pure i mistici l’hanno confermata. Ci narra, ad es., dom Prosper de Gueranger che «Nostro Signore ha voluto descrivere, egli stesso, quella scena in una rivelazione fatta a santa Teresa. Si degnò di confidarle che la sua divina Mamma era così profondamente abbattuta, da non resistere ancora molto senza soccombere al suo martirio e che, quando si mostrò a lei, appena uscito dal sepolcro, ebbe bisogno di qualche istante per ritornare in se stessa, prima di ritrovarsi in istato di godere una tale gioia; e il Signore aggiunge che le restò non poco vicino, perché questa sua prolungata presenza le era necessaria».
Nell’odierna festa del Lunedì dell’Angelo, perciò, è indicato rilanciare questo contributo di don Morselli sul tema delle apparizioni del Risorto.





Rogier van der Weyden, Pala di Maria o Miraflores, con scene della Natività, della Deposizione di Cristo e di Cristo risorto appare alla Vergine, 1440 circa, Staatliche Museen, Berlino

Filippino Lippi, Et prima vidit ... - Cristo risorto appare alla Vergine - Intervento di Cristo e della Madre, 1493 circa, Alte Pinakothek, Monaco

Guido Reni, Cristo risorto appare alla Vergine, 1608 circa, Fitzwilliam Museum, Cambridge


Guercino, Cristo risorto appare alla Vergine, 1629, Pinacoteca Comunale, Cento

Le numerose apparizioni di Gesù risorto provano la Resurrezione

di don Alfredo Morselli


Gesù, dopo la sua resurrezione, era apparso molte volte: negli anni successivi, i numerosi testimoni di queste apparizioni, erano rimasti in vita e la loro testimonianza, verificabile e credibile, rafforzava la fede dei primi cristiani. 
Esaminiamo, a questo proposito, 1 Cor 15, 1-28: 
[1] Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, [2] e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
[3] Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, [4] fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, [5] e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. [6] In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. [7] Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. [8] Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. [9] Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. [10] Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. [11] Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto. 

Ad una prima occhiata, potrebbe sembrare che S. Paolo si preoccupi della fede nella Resurrezione di Gesù a Corinto, che volesse rafforzare questo punto della fede: ma i versetti successivi ci indicano che il dubbio di alcuni Corinti è un altro; si tratta della resurrezione dei morti: 
[12] Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?

Il v. 12b, evidenziato in grassetto, rivela chiaramente il dubbio di alcuni (quindi non di tutti) Corinti. 
Tutta l’argomentazione paolina successiva tende a dare una vera e proria dimostrazione teologica del fatto che i morti risorgono. Notiamo bene che la resurrezione dei morti è uno degli articoli della nostra fede “esistenzialmente” più difficile a credersi. Quando ci troviamo davanti ad un cadavere, con i tragici resti di una malattia o di un incidente, bisogna proprio farsi forza per credere che i nostri defunti risorgeranno! 
Detto questo, precisiamo ancora che, per sciogliere un dubbio, è necessario fondare il nostro ragionamento su delle certezze: non possiamo fondarci su un altro dubbio. E qual è la certezza su cui S. Paolo si appoggia per dimostrare che i morti risorgono? Vediamo che l’apostolo parte da due certezze; la prima è un fatto storico; la seconda un principio teologico.
Il fatto storico è la resurrezione di Cristo, il principio teologico è che Cristo è la “primizia” di coloro che risorgono, cioè il primo di una serie. 
Esaminiamo dunque ora lo sviluppo dell’argomentazione paolina: i morti risorgono perché…
1) Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù è certa;
2) Cristo “è primizia di coloro che sono morti” (il primo “frutto” di un intero raccolto).
Se Cristo è veramente risorto - ed è risorto perché lo hanno visto in tanti, molti ancora viventi - e Cristo non risorge solo per conto suo, ma è il primo di una serie, allora tutti i morti risorgono. 
Fatte queste premesse, possiamo ora leggere il seguito di 1 Cor 15: dal v. 13 al 18 vediamo l’insistenza sul primo argomento (Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù) 
[13] Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! [14] Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. [15] Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. [16] Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è veramente risorto - la Resurrezione di Gesù; [17] ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. [18] E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. [19] Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. 

A partire dal v. 20 troviamo il secondo argomento (Cristo primizia) 
[20] Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. [21] Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; [22] e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. [23] Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; [24] poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. [25] Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. [26] L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, [27] perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. [28] E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. 

La teologia paolina sull’unità del genere umano in Adamo e sulla nuova unità in Cristo ci interessa meno, in vista del fine di questo scritto, che è quello di constatare che a Corinto, per provare teologicamente la resurrezione dei morti, viene presentato il fatto della resurrezione di Gesù, un fatto certo, accreditato da molte testimonianze, a più riprese, verificabili, credibili, autorevoli. Per provare il più incredibile dei misteri (la resurrezione dei morti) non può essere portato un argomento dubbio, o un mito; ci vuole una prova certa.
Capiamo allora come l’insistenza sulla parola “apparve” (4 volte) dei primi versetti serve a rafforzare la credibilità dell’argomento decisivo.

Conclusioni 

Siccome per provare la resurrezione dei morti è necessaria una prova certissima, e, per questo scopo, S. Paolo usa come argomento la resurrezione di Gesù, se ne conclude che a Corinto, circa 20 anni dopo la Resurrezione di Gesù, tutti erano sicuri che questa fosse storicamente accaduta
Perché tutti (anche “alcuni” che non credevano nella resurrezione dei morti) ne erano così sicuri?
Perché erano ancora vivi e rintracciabili i testimoni: alcuni Apostoli e “più di cinquecento fratelli” a cui Gesù era apparso “in una sola volta”.