Sante Messe in rito antico in Puglia

venerdì 17 ottobre 2014

I primi cristiani non si risposavano

Interessante saggio storico sulle c.d. seconde nozze in epoca antica.


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I primi cristiani non si risposavano

Uno studioso gesuita sostiene che la storia, non l’apologetica, fonda la disciplina del matrimonio


Dopo l’intervento di Monsignor Zoghby al Concilio Vaticano II, sono stati pubblicati numerosi libri ed articoli che cercavano di rimettere in questione la disciplina della Chiesa cattolica in materia di divorzio e nuovo matrimonio. Molti dei loro autori hanno cercato appoggio nelle testimonianze che restano della Chiesa primitiva e hanno interpretato i testi in questo senso. Spesso si tratta di teologi o di canonisti che non sono specialisti dei primi secoli cristiani e conoscono poco le esigenze del metodo storico. Desiderosi di avere un impatto sul pubblico, essi non sono disposti ad impelagarsi in discussioni che non possono che appesantire il libro e scoraggiare i lettori: fissano pertanto in maniera oracolare il senso di ciascun passaggio senza impegnarsi negli studi necessari. Il risultato, di conseguenza, non soddisfa lo storico, che non può che deplorare l’influenza che tali saggi esercitano sul grande pubblico, attirando vane speranze. Se egli decide di formulare delle precisazioni, non può affatto sperare che arriveranno ad essere note a questo stesso pubblico, anzitutto perché le sue spiegazioni non piaceranno più di tanto e, soprattutto, in quanto esse non saranno lette, esigendo troppo sforzo da parte del lettore medio e anche degli autori in questione, che non ne tengono quasi in nessun conto. Proiettando sullo storico il desiderio di provare una tesi mediante la storia, corroborati in questo dalle moderne filosofie del “sospetto”, tali autori vedono in lui solo un apologista, non capendo che non si possa volere altro se non la dimostrazione di una tesi e che la ricerca storica esige lo sforzo di non partire dal proprio punto di vista e dalle proprie concezioni.
Essi sembrano ritenere, in effetti, che ogni studio che porti a risultati conformi all’ortodossia non può che essere apologetico. Questo aggettivo presuppone che lo storico non abbia fatto il proprio dovere, che era non di provare una tesi ma di rilevare il senso reale dei fatti storici. Sarebbero degli storici “oggettivi” solo coloro le cui conclusioni contraddicono l’ortodossia. Ma, se allora non sono degli apologisti, non potrebbero essere dei contro-apologisti, il che è lo stesso, supponendo anch’essi una tesi preconcetta? Tendere a mantenere una tesi considerata come trasmessa dalla tradizione o volere ad ogni costo rispondere a bisogni contemporanei, non sono, forse, agli occhi dello storico, due atteggiamenti ugualmente sospetti? Sembra esserci una certa contraddizione nell’affermare, da una parte, la sua soggettività e nel manifestare, dall’altra, l’intenzione di adattarsi all’attualità.
Inoltre, la storia si fa solo con documenti esistenti e che si spiegano il più possibile gli uni con gli altri, e non a partire da ipotesi non provate. Si può ben supporre che testimonianze in senso contrario siano scomparse o che pratiche opposte non abbiano lasciato tracce scritte. Ma tutto ciò non conta per lo storico, in quanto egli può studiare solo ciò che è conservato per evitare di cadere nell’immaginario e nell’arbitrario. Si può anche pensare che tutti i cristiani dell’epoca non siano stati dei santi nel loro comportamento matrimoniale, che alcuni si siano sposati dopo aver divorziato e anche che ciò sia stato accettato da alcuni vescovi: la testimonianza di Origene lo dimostra. Ma una cosa è supporlo o constatarlo, e altra cosa è determinare in quale misura la Chiesa, per bocca o per il calamo dei suoi Pastori, dei Padri o dei Concili i cui scritti o canoni non sono pervenuti, accettasse, tollerasse o riprovasse la loro condotta. Si tratta, per lo storico, di due questioni differenti che non vanno confuse.
In una prima parte esamineremo uno ad uno i principi di interpretazione diverse volte invocati, per trovare l’autorizzazione a seconde nozze dopo il divorzio in testi che non lo dicono esplicitamente. Una seconda parte indicherà diversi metodi che impediscono allo storico di considerare seriamente molti di questi lavori.
Il ruolo dello storico è quello di interpretare i passaggi che studia. Ma tale interpretazione deve scaturire dal testo stesso o da un confronto con altri testi dello stesso autore o dello stesso periodo. La sua interpretazione non deve essere proiettata dal di fuori, stabilita a priori a partire dalle sue idee o da quelle del suo tempo. A maggior ragione non deve essere in contraddizione con i dati storici. Ad esempio, è un grave errore contro la storia interrogare uno scrittore su una problematica a lui posteriore e chiedergli di risolvere problemi che egli non si è posto: in seguito a simili errori di metodo spesso è stato possibile accusare ingiustamente dei teologici antichi, e tra i più grandi, di aver professato eresie che erano a loro posteriori, poiché alcune formule da loro ingenuamente impiegate avevano ricevuto successivamente un senso eretico, mentre la loro opera, esaminata nel suo insieme, mostra che essi non erano affatto tentati da questa devia- zione dottrinale. Quanto diciamo della problematica deve intendersi anche dell’ermeneutica: come possiamo interpretare correttamente dei testi di Origene senza conoscere le regole fondamentali della sua esegesi allegorica e del suo comporta- mento di fronte alla Scrittura, così come risultano dalla sua pratica e dalla teoria che a più riprese ne ha fatto?
Si tratta pertanto di far uscire la teoria dai testi e non di piegarli ad una teoria imposta dal di fuori: i principi di interpretazione devono essere giudicati a partire dai testi, alla luce di criteri storici. Troppo spesso, in effetti, tali principi sono presentati come un’evidenza di buon senso: in altri termini, essi riproducono le concezioni di coloro che le impiegano e quest’ultime non concordano necessariamente con quelle dell’epoca alla quale sono state applicate. Oppure derivano da un’idea troppo sommaria del periodo di cui si tratta, e che ha il sapore di uno slogan. Evidentemente non c’è bisogno di provarle, sono dei principi indiscutibili! L’ermeneutica rischia allora di diventare l’arte di trarre da un testo il contrario di ciò che dice.
I cristiani non potevano fare ciò che il diritto civile non contemplava: si tratta del più importante di questi principi. Si presenta sotto forme diverse, alcune delle quali saranno studiate separatamente. Per essere più chiari: “I cristiani non potevano ammettere una separazione che non permettesse nuove nozze, in quanto una tale istituzione era sconosciuta al diritto romano”. Di conseguenza, ogni qualvolta i Padri parlano di separazione per adulterio senza menzionare la possibilità di seconde nozze, la sottintendono certamente. E la loro concezione dell’adulterio doveva essere quella che era per i Romani, differente per l’uomo e per la donna: ritorneremo più avanti su questo secondo punto.
Questo principio è in disaccordo con i dati storici? Dobbiamo sicuramente rispondere di no. Riguardo ai punti sui quali verte la nostra attenzione i Padri si oppongono molto spesso alle disposizioni del diritto romano: per quel che riguarda divorzio e nuove nozze, possiamo vedere proteste simili in Giustino, Atenagora, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Cromazio d’Aquileia, Agostino. Allo stesso modo Lattanzio, Gregorio di Nazianzo, Asterio di Amasea, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Cirro, Zeno di Verona, Ambrogio, Girolamo e Agostino rimproverano, spesso in termini piuttosto accesi, alla legislazione civile la disuguaglianza di atteggiamento nei confronti dell’uno e dell’altro sesso sulla questione dell’adulterio. Una tale constatazione doveva bastare a screditare il principio invocato.
Peraltro il testo che domina tutta la teologia del matrimonio per gli antichi Padri, come per il Gesù dei Vangeli, è Gen 2,22-24: è Dio che porta la sposa allo sposo, come Eva ad Adamo, e che ne suggella l’unione, ed è per questo che quest’ultima è indissolubile. Dio interviene nel matrimonio dei cristiani, che per questo non è più, per loro come per i Romani, un semplice contratto bilaterale la cui rottura per mutuo consenso non comportava alcuna difficoltà; in effetti soltanto il ripudio, che è unilaterale, necessitava per loro di una procedura. Tale concezione cristiana è già ben definita alla fine del II secolo con Tertulliano – Ad Uxorem II,VIII,6 – e rivoluziona tutta l’idea esistente del matrimonio: l’indissolubilità ne è la diretta conseguenza. Come sostenere dopo di ciò che i cristiani non potessero avere del ripudio una nozione diversa di quella del diritto romano?
Alla nostra risposta vengono opposte tuttavia due obiezioni principali. Anzitutto ci si stupisce del fatto che, se è come abbiamo appena detto, gli imperatori cristiani avessero conservato, pur con numerose restrizioni, la possibilità di un nuovo matrimonio. E si pretende anche, paradossalmente, che essi sarebbero testimoni migliori del pensiero della Chiesa degli autori ecclesiastici della loro epoca, quasi tutti, tuttavia, pastori e non puri teorici.
Ma nel IV e nel V secolo l’Impero era popolato solo di cristiani e la legislazione imperiale, fino al compromesso che Giustiniano, nel VI secolo, impose tanto alla Chiesa d’Oriente quanto allo Stato, doveva disciplinare anche i pagani. Malgrado la loro convinzione che Gen 2,24, inserito nel racconto della Creazione, riguarda tutti gli uomini, anche i pagani, i Padri si sono in effetti occupati unicamente delle loro pecorelle: soltanto un Concilio africano chiese che l’indissolubilità fosse og- getto di una legge dell’Impero. Peraltro è difficile pronunciarsi sull’autenticità dello spirito cristiano di certi imperatori del IV e del V secolo. E’ stata anche obiettata la situazione della donna separata, alla quale sarebbe vietato un nuovo matrimonio. Si afferma che le sarebbe stato impossibile vivere sola, in quanto non avrebbe avuto nessuna possibilità di lavorare e guadagnarsi la vita. 
Indipendentemente da questa affermazione, che sembra essere esagerata, questa era anche la condizione delle vedove, di cui la Chiesa non incoraggiava affatto un secondo matrimonio – questa affermazione in generale non è contestata, ma piuttosto eccessivamente sottolineata – era anche il caso delle vergini, la cui esistenza nella Chiesa  del II e del III secolo, prima dell’inizio del monachesimo, è attestata da svariati documenti. Ma noi sappiamo che le vedove bisognose erano soccorse dalla comunità e che le donne ripudiate erano ugualmente assistite. In effetti la Didascalia, nella traduzione siriaca, ma anche nella rielaborazione greca delle Costituzioni Apostoliche, scrive, a proposito delle giovani vedove, che esse non possono essere accolte nell’ordine ecclesiastico delle vedove a causa della loro età, ma che vengono aiutate se sono nell’indigenza: “Se ce n’è una, giovane, che è stata poco tempo con il marito e, essendo il marito morto, o per un’altra causa, si trova nuovamente isolata e resta così sola…”. Ogni donna priva del sostegno di un marito e nel bisogno era pertanto a carico della comunità.
Più in generale il principio che qui discutiamo nega al cristianesimo il diritto di avere la benché minima originalità in rapporto alle istituzioni del tempo. Perché del resto fermarsi a questo e limitarsi al matrimonio? E’ plausibile che, unica nell’Impero, la Chiesa si sia opposta al culto imperiale e abbia manifestato una tale intransigenza nei confronti della religione ufficiale? Se essa aveva accettato gli usi romani in materia di matrimonio, non aveva, forse, più ragione di farlo quando il rifiuto di sacrificare comportava la tortura e la morte? Non bisognerebbe concludere che tutto ciò che è detto dei martiri non può essere altro che falso? Semmai il principio in questione toglie al messaggio cristiano ogni possibilità di originalità.

Henri Crouzel S.I. (1918-2003), è stato docente di Patristica all’Istituto cattolico di Tolosa e all’Università Gregoriana di Roma

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