Sante Messe in rito antico in Puglia

domenica 29 gennaio 2017

Vivere nel mondo e peccato in un aforisma di S. Francesco di Sales


San Francesco di Sales era un pastore con il coraggio della verità. A differenza di troppi suoi laudatores

In onore di S. Francesco di Sales, vescovo-principe di Ginevra, confessore e Dottore della Chiesa, che fu animato, per i fratelli, da amore vero, forte, di uomo di carattere, non tenerezza sentimentale priva di nerbo e di sostanza, e la cui festa celebriamo oggi, ricordando la sua opera di missione in terra protestante (cfr. Ermes Dovico, Francesco di Sales, la sua missione in terra protestante, in LNBQ, 24.1.2017), rilanciamo questo contributo.




Sacro Cuore tra i SS. Giovanni evangelista, Margherita Alacoque (o Teresa d'Avila?) e Francesco di Sales

SAN FRANCESCO DI SALES ERA UN PASTORE CON IL CORAGGIO DELLA VERITÀ. A DIFFERENZA DI TROPPI SUOI LAUDATORES


«Centro della sua giornata è la Messa, vissuta intensamente. Allo stesso modo teneva in gran conto il sacramento della Confessione, per sé e per gli altri.
Nel periodo dello Chablais (1594-1598) le sue lettere ci danno uno spaccato della sua anima: retto e inflessibile ma allo stesso tempo prudente e delicato non nasconde i suoi sentimenti ma ha il coraggio della verità.
L’eresia che affligge la Chiesa va combattuta e perciò Francesco conquistò la stima di Beza, il continuatore di Calvino, ma non riuscì a riportarlo in seno alla fede cattolica.
Clemente VIII, Paolo V, Leone XI, il Baronio, il Bellarmino lo ammirarono e stimarono incondizionatamente. Francesco è un oratore nato, non nel senso che comunemente si dà a questa parola ma nella sua migliore accezione poiché il vero comunicatore ha la capacità di parlare “col cuore, mentre la lingua parla soltanto alle orecchie” (sono sue felici espressioni).
I suoi modelli sono san Carlo Borromeo, san Filippo Neri, i Barnabiti, i preti dell’Oratorio. Pronunciò, in 18 anni di ministero, 3 o 4 mila sermoni e scrisse un trattatelo in forma di lettera al vescovo Bourges, Andrea Frémyot, fratello di Giovanna Francesca di Chantal.
Si convince col tempo che anche lo scritto ha i suoi vantaggi: “offre più tempo della voce alla riflessione, per pensare più profondamente”.
Durante la sua missione allo “Chablais” raccolse i suoi sermoni col titolo Meditazioni che chiamò poi Controversie. È evidente in questo libro il suo zelo per la salvezza delle anime e per combattere l’eresia, soprattutto quella degli ugonotti.
Fu allora che un tal Viret, calvinista sfegatato, autore di un velenoso libercolo contro la presenza reale nell’Eucarestia, lo attacca violentemente ed egli allora scrisse una Breve meditazione sul Simbolo degli Apostoli, in cui suffraga  ogni affermazione con citazioni della Scrittura e dai Padri: è con questo criterio o metodo che combatte tutte le opere dei calvinisti.
Quando il Viret osò mettere in dubbio la verginità della Madonna Francesco fece notare l’ignoranza dell’oppositore. Al calvinista Beza propose, per ordine di Clemente VIII, un incontro ma si accorse presto della pervicace ostinazione del suo interlocutore e quando ad Annegasse, a pochi chilometri da Ginevra, ci fu una solenne celebrazione delle Quarantore e i ministri calvinisti ginevrini organizzarono una violenta opposizione, il santo compose un’opera, Difesa dello Stendardo della Croce, che fu pubblicata tre anni dopo, nel 1600, a causa di una seria malattia e di un viaggio a Roma.
Nel frattempo Francesco ricevette nella Città Eterna la nomina di vescovo titolare di Nicopoli (marzo 1599). Compose in quel tempo l’orazione funebre per il Principe di Mercœur, al cui casato era debitore per i benefici ricevuti».

Con i Sacramenti non si scherza. Intervista a don Nicola Bux

Nella festa di S. Francesco di Sales, rilanciamo volentieri quest’intervista a don Nicola Bux, apparsa sul periodico Liturgia ‘culmen et fons’, dicembre 2016, n. 3, anno 9, pp. 13-17.


S. Francesco di Sales offre il carisma alle Visitandine, Vetrata monastero della Visitazione, Denfert-Rocherau, Parigi

Carlo Bononi, Madonna del Rosario con i SS. Domenico e Francesco di Sales, 1650 circa, Bologna

Scuola romana, Predica di S. Francesco di Sales, 1690-99, Pisa

Giovanni Marracci, S. Francesco di Sales, 1690-1710, Lucca

Scuola ligure, S. Francesco di Sales in meditazione dinanzi al Crocifisso, XVIII sec., Genova

Mattieo Bonechi (attrib.), Estasi di S. Francesco di Sales, 1720 circa, Fiesole


Gerolamo Brusaferro, L'apostolo Giacomo tra i santi Lorenzo, Maria Maddalena e Francesco di Sales, 1729, chiesa di San Salvador, Venezia


Giovanni Pietro Salvaterra, SS. Francesco di Sales e Andrea Avellino con angeli, 1743 circa, Verona

Giambettino Cignaroli, Pietro in cattedra con i SS. Paolo, Luigi Gonzaga, Ignazio di Loyola e Francesco di Sales, 1746

Giuseppe Antonio Petrini, S. Francesco di Paola appare a S. Francesco di Sales, 1740-59, Pavia

Giovanni Battista Lampi, S. Francesco di Sales, 1775, chiesa di Santa Maria del Suffragio, Trento

Michelangelo Pittatore, Madonna col Bambino e S. Francesco di Sales, 1855, Asti

Michelangelo Pittatore, S. Francesco di Sales, 1855, Parrocchiale di N. S. di Loreto, Costigliole d'Asti

Giovanni Battista Chiocchetti, S. Pietro liberato dal carcere con i SS. Francesco di Sales e Antonio da Padova, 1875-80 circa, Trento

Ponziano Loverini, S. Giuseppe in trono col Bambino tra i SS. Francesco di Sales e Caterina d'Alessandria, 1894, Basilica di Sant'Alessandro in Colonna, Bergamo

INTERVISTA A MONS. NICOLA BUX

«Con i sacramenti non si scherza»

In relazione al tema di questo nostro numero della rivista: La celebrazione dei Sacramenti, segnaliamo ai lettori un recente libro di Monsignor Nicola Bux dal titolo: Con i sacramenti non si scherza, ed. Cantagalli, 2016.
Il libro è avvalorato dalla prestigiosa prefazione di Vittorio Messori, che fra l’altro afferma: «Alla base di tutto quanto succede nella Catholica ormai da decenni, c’è […] quella “svolta antropocentrica che ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio”. La sociologia invece della teologia, il Mondo che oscura il cielo, l’orizzontale senza il verticale, la profanità che scaccia la sacralità».
A mons. Bux abbiamo rivolto alcune domande per cogliere in ognuno dei sette sacramenti almeno un aspetto su cui riflettere e lavorare per una maggiore qualificazione celebrativa.
A Lui un cordiale ringraziamento, sia per il dono del suo libro, sia per questa intervista concessa alla nostra Rivista, che qui proponiamo ai nostri lettori.

DOMANDE

1. Con i sacramenti i fedeli sono messi «faccia a faccia» con Cristo. Cosa vuol dire?

In occasione del 50° della Costituzione liturgica del concilio ecumenico Vaticano II, mons. Luca Brandolini ha sostenuto che è cambiato il volto della Chiesa (Vita pastorale, 2/2014, p. 54-57), perché questa avrebbe riscoperto una visione teologico-biblica che la liturgia precedente non aveva. Ma, basta leggere i n. 5-7 della Sacrosanctum Concilium, per accorgersi che si rifanno all’ Enciclica Mediator Dei, di Pio XII, la quale rilancia proprio quella visione, attraverso la ‘forma’ oggettiva della liturgia, ossia le cerimonie o riti che dir si voglia; questi termini, indicano l’ordine esigito dal rapporto dell’uomo con Dio, supremo ordinatore, rapporto che si esprime massimamente nel culto; l’ordine, l’ordo o rito, non sta in piedi senza l’apparato giuridico-rubricale. È curioso che si parli di rito anche per il processo civile e penale: la non osservanza delle procedure, lo rende invalido. Sant’Ambrogio è certo che nei sacramenti, di cui consiste essenzialmente la liturgia, noi stiamo ‘faccia a faccia con Cristo’, perché attraverso i riti e le preghiere lo ascoltiamo, lo vediamo, lo tocchiamo, lo percepiamo e lo gustiamo mediante i nostri sensi, tramite i quali il nostro spirito è alimentato e vive. Chi sa di dover stare ‘faccia a faccia’ col Signore del Cielo e della terra, come oserebbe disprezzare il diritto divino e il diritto liturgico che costituiscono le sponde per non cadere nell’idolatria?
Se i liturgisti, a cinquant’anni dal Vaticano II, ritengono che “il problema numero uno per una recezione fruttuosa della riforma era e rimane tuttora quello della formazione a tutti i livelli”, vuol dire che questa non ha ri-formato, cioè ridato forma alla forma di cui sopra, ma addirittura l’ha de-formata qui e là, o per stare all’immagine proposta da Joseph Ratzinger, essa è stata un restauro aggressivo, per cui abbiamo rischiato di perdere l’ “affresco” della liturgia romana. La prima formazione del cristiano viene dalla stessa liturgia: se questa è deformata, essa non avviene. E si comprende pure la fatica dei preti, ai quali è stata demolita la sponda delle vituperate rubriche – il ritus servandus – che garantivano la forma oggettiva e si è preteso che i contenuti teologici, catechetici e pastorali della liturgia potessero ugualmente fluire ed essere ritenuti ‘normativi’. La causa è nell’idea che il nuovo rito doveva apparire completamente diverso dal precedente. La prova della necessità della ‘norma’ è data dal fenomeno che, anche i nuovi libri liturgici, come lamenta Brandolini, hanno incuriosito, come gli antichi, per le novità rituali; così il serpente si è morso la coda.
Lo stare faccia a faccia con Cristo nei sacramenti, in specie l’eucaristia,costituisce la vera ‘partecipazione attiva’, che è data innanzitutto dalla coscienza d’essere parte del suo corpo,prima che di svolgere una parte. Quando Brandolini si duole degli abusi e l’attribuisce alla mancata formazione, dovrebbe riflettere su questo.

2. Il battesimo è la «tessera» per il paradiso. Qual è oggi la sua maggiore criticità sul piano celebrativo?

Talvolta – da un po’ di tempo sempre meno – si mette in risalto l’invasione del secolarismo nella teologia e nella pastorale, quindi nella liturgia riformata dopo il concilio Vaticano II. I liturgisti postconciliari si sono illusi di aver ‘riconciliato’ la liturgia con le istanze della modernità, ed averla introdotta nella postmodernità; perciò ritengono che le tendenze a ritornare al ‘passato’ – che riconducono a una prassi liturgica formalistica, scivolante nell’esteriorità e nello spettacolare – si identifichino con l’antica liturgia. Non si sono accorti che la nuova, dove la fanno da padroni l’intrattenimento, l’animazione, il protagonismo di preti e laici, è ben più esteriore e spettacolare! Proprio questo ha finito per mettere al centro l’uomo ed estromettere Dio, in nome dei mutamenti antropologici. Così, proprio il battesimo è diventato il rito d’entrata nella comunità, che è in parte vero, ma non nella Chiesa cattolica, in terra e in cielo: se il battesimo non servisse a salvarsi, ad arrivare al Cielo, a che servirebbe? Ecco, a mio avviso, il punto critico.

3. La cresima è «l’allenamento alla lotta nel mondo». Che cosa non va?

Lo Spirito Santo – è stato scritto – è il grande assente dalla teologia cattolica, anzi dalla liturgia, dove sarebbe entrato di soppiatto e per caso a conclusione dell’art 6 di Sacrosanctum Concilium. Questo slogan di teologi e pastori nasconde, a mio avviso, la dimenticanza dell’Incarnazione del Verbo, il non volere fare i conti con Gesù Cristo, l’unto di Spirito Santo. Diceva Balthasar che lo Spirito non vuol quasi essere adorato, ma adorare in noi il Padre, per, con e in Gesù Cristo.
Si sa che all’origine della testimonianza da rendere a Cristo 2nel mondo, a cui la Confermazione abilita, c’è lo Spirito, nella cui unità sussiste la Chiesa cattolica. Ora, qualche storico della liturgia, ritiene che la pluralità dei riti, e delle forme all’interno di uno stesso rito, non attenti all’unità della Chiesa. Questo è vero, se il rito e le sue forme esprimono la lex credendi della Chiesa cattolica, altrimenti contribuiscono alla divisione. A questo son stati sempre molto attenti i Padri. Una cosa è l’unità del rito come quello romano, altra cosa sono le consuetudini che possono essere diverse all’interno di questa unità di fede che il rito deve manifestare. Questo, afferma la Costituzione liturgica, è possibile quando non è in questione la fede (cfr. Sacrosanctum Concilium 37-38): a cinquant’anni di distanza, non è essa ad essere in questione? Il passaggio di una ‘unità liturgica’, per es. il Canone Romano, dall’Egitto a Roma, nel senso che è stata tradotta la paleoanafora alessandrina; oppure, la ricezione a Roma e Milano del memento dei morti, della liturgia cappadoce, attribuita a san Basilio, sono esempi di arricchimento, solo perché illustrano l’unica fede. Proprio il timore che l’eresia – che porta poi allo scisma – arrivasse attraverso il rito, ha indotto la Sede Apostolica, a istituzionalizzare la liturgia, nel senso di regolarla giuridicamente, in modo da renderla normativa e ridurre il rischio di interpretazioni ‘creative’ che potessero snaturarla. Non è scontato che i sacerdoti abbiano la capacità mistica per comporre testi ‘cattolici’, cioè che esprimano quella fede che “sempre, dovunque e da tutti” deve essere professata. La ragione sta nel fatto che il culto si chiama anche ‘liturgia’ perché è azione del popolo, cioè un atto pubblico, non privato come una pratica di pietà; per questo lo chiamiamo culto della Chiesa. Non è ‘fissismo giuridico’.

4. L’ eucaristia ci mette «alla Sua presenza». Va tutto bene? Dove intervenire per migliorare?

Si accusa l’antica liturgia di essere barocca, ma quella attuale non è diventata rococò? La processione offertoriale, con di tutto e di più in essa, e la colluvie di interventi e monizioni di preti e laici nella Messa e nei sacramenti, esprimono la ‘nobile semplicità’ (Sacrosanctum Concilium 34)? È più teatrale la Messa in cui sacerdoti, ministri e fedeli sono tutti orientati in modo composto verso la Croce o l’Oriente, oppure quella in cui il prete col microfono scende nell’assemblea come un conduttore televisivo? Se la liturgia del passato era opus cleri, quella odierna lo è di meno? Se quella avveniva nel silenzio ‘arcano e sacrale’, l’attuale non è soggetta alla dittatura del rumore, con la voce alta – che non è lo stesso che ‘chiara’ – gli applausi e l’ilarità? Altro che stupore, accoglienza, adorazione e azione di grazie! Si è pensato di annullare la distanza tra Dio e l’uomo, demolendo la balaustra tra presbiterio e navata, ma si può annullare la distanza tra il cielo e la terra? Sì, se si riceve Gesù Cristo Dio e Uomo, l’unico che rende attuale la liturgia; no, se si ritorna al deismo, in nome dell’indifferenza tra le religioni. Così non va bene.
Poi, c’è chi sostiene che il ‘cerimoniale’ sviluppatosi nel medioevo, abbia allontanato i fedeli dalla comprensione della liturgia, favorendo l’interpretazione allegorica dei riti che farebbe appello alla fantasia dei fedeli presenti (cfr. E. Mazza, Vita pastorale, cit. , p. 59) al fine di riconoscere nella maestosità rituale e del tempio, la maestà divina. Ma, non è la liturgia cristiana erede di quella giudaica, quindi anche dei riti e del tempio di Gerusalemme, che si svolgevano davanti alla Shekinah, alla Presenza divina? Forse la liturgia odierna, con la ‘nobile semplicità’ disdegna appunto la nobiltà che viene dal cerimoniale e dai luoghi di culto artistici? E poi, per esprimere meglio l’obbedienza a Dio, aver adottato nella liturgia romana la genuflessione e le mani giunte, gesti dell’omaggio feudale e della sottomissione al sovrano, non è un esempio di ‘inculturazione’ già nel medioevo? Si ritiene, inoltre, che la devotio moderna sia peggiore della devotio antica, in quanto avrebbe sancito il divorzio tra la preghiera personale e la liturgia pubblica, non solo, ma anche favorito l’allegorismo a partire dagli elementi visivi dei riti e appellandosi alla fantasia. Ma, se il rito comunitario non favorisse la preghiera personale, a cosa servirebbe? E poi, chi conosce le liturgie orientali, in specie bizantina, sa che nel V secolo, Teodoro di Mopsuestia proponeva l’interpretazione allegorica ispirata alla visione della Gerusalemme celeste nell’Apocalisse. Perché ritenere che la pastorale della devotio moderna, imperniata “nel soddisfare l’obbligo di accostarsi ai vari sacramenti”, non attingesse alla liturgia: non ha detto il Signore che chi non sarà battezzato non sarà salvo? Non è un comando: “Fate questo in memoria di me”? L’intimismo religioso o il devozionismo, che la riforma liturgica postconciliare avrebbe superato, è rimpiazzato oggi dalla “creatività selvaggia” e “dal culto dell’emozione”. Dunque, la domanda da porsi è questa: partecipare alla liturgia è introdurre nel mistero? Se è così, la preghiera personale è il segno dell’avvenuta entrata in esso della persona.

5. La riconciliazione: «confessarsi per convertirsi». Ma quante insidie a questo sacramento!

C’è chi ha scritto che l’unica novità osservabile nella celebrazione del nuovo rito del sacramento della penitenza, sembra la sua vistosa diminuzione. Tanto si è insistito sulla partecipazione attiva, che alla fine si è perduto il principale atto di partecipazione alla sequela di Cristo, che è la conversione.
La partecipazione attiva, passando per ritus et preces, non è innanzitutto né soprattutto esterna, ma interiore perché mistagogia della fede. San Paolo non poteva esprimerlo meglio che esortando a offrire noi stessi in sacrificio spirituale, non conformandoci alla mentalità mondana (cfr. Rm 12,1), come postula la Mediator Dei e il movimento liturgico che l’ha preceduta. Invece, è proprio del modo odierno di impostare la liturgia, la preoccupazione di far fare qualcosa ai fedeli. I riti e le preghiere sono la via e il mezzo della partecipazione, ma ciò a cui si partecipa è il ‘mistero della fede’: la morte e la risurrezione del Signore; alla morte e sepoltura col battesimo e il sacramento della penitenza, e alla risurrezione con l’eucaristia. Se i biasimati medievali e i vituperati devoti moderni, non avessero avuto tale senso teologico della liturgia, non avremmo avuto Francesco, Caterina, Ignazio, Teresa, Alfonso, Newman, ecc. Sì, a tale partecipazione si arriva con la conversione e l’imitazione di Cristo: è questo il difficile. Dunque, non si tratta di contrapporre esteriore ed interiore, perché “è l’azione rituale nella sua concretezza e corporeità, il luogo della partecipazione integrale al mistero”(M. Augé, Vita pastorale, cit. , p. 63).
Senza la confessione dei peccati, che è la riforma permanente della nostra vita, diventa impossibile “mettere in atto la riforma del Vaticano II”; e non “perché la nostra cultura liturgica è troppo distante da quella della Chiesa delle origini. Troppo diversa,” altrimenti saremmo di nuovo all’archeologismo.

6. L’unzione degli infermi è «la benefica unzione» della Grazia. Sacramento dei malati o benedizione per tutti?

Se la riforma liturgica, dopo il Concilio, sia stata effettivamente applicata, è una questione permanente tra i liturgisti: sono insoddisfatti dell’applicazione della stessa, perché, dicono, “il popolo non partecipa”. Sono arrivati anche a denunciare la mancata riflessione sulla dimensione antropologica della liturgia, che avrebbe portato da una parte alla negazione del rito e, dall’altra, al suo esasperato e feticistico fissismo. Che dire? Proprio il sacramento dell’unzione esalta questa dimensione – nonostante non la si chiami “estrema”, è ugualmente raro vedere al capezzale del moribondo il prete – nel momento della debolezza corporea: è il sacramento per i deboli (in latino: infirmus): gli infermi. L’”Olio di consolazione” può essere preceduto dalla confessione dei peccati e seguito dal Viatico; tale itinerario di guarigione, dimostra, senza ricorrere allo slogan “la liturgia è per l’uomo e non l’uomo per la liturgia”, che questa deve aiutare l’uomo ad arrivare a Dio, per ottenere la salvezza.

7. L’ordine sacro «per consacrare il mondo». Un dono dall’alto o un incarico sociologico?

Una visione e un esercizio del ministero – si è auspicato da taluno – meno sbilanciati sulla cristologia e quindi sull’istituzione. Che vuol dire? Benedetto XVI scrive: “Il sacerdote è più che mai servo e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a lui. Ciò si esprime particolarmente con l’umiltà con la quale il sacerdote guida l’azione liturgica, in obbedienza al rito, corrispondendovi con il cuore e con la mente, evitando tutto ciò che possa dare la sensazione di un proprio inopportuno protagonismo” (Sacramentum Caritatis, 23). Il rito va interpretato nel senso di adoperare le possibilità diverse offerte dal libro liturgico. Ma l’idea di adattarlo alle circostanze e ai partecipanti, ha favorito gli abusi e la cosiddetta creatività, e riduce il libro a un ‘copione’, contraddicendo l’oggettività della liturgia pubblica e avvicinandola alla devozione privata di singoli e gruppi. Mi domando: non sono costoro a doversi ‘adattare’ alla liturgia divina? L’adattamento è una idea tutta occidentale, estranea alle liturgie orientali: è l’uomo che si deve elevare a Dio, il quale già si è abbassato con l’incarnazione, la katabasi che la liturgia ripropone. La liturgia è la forma dell’incarnazione e redenzione del Signore, non una ‘performance’, o esibizione improvvisata. Proprio questa idea fa eludere le norme, e disprezzare i diritti di Dio nel culto a lui dovuto, giungendo agli “abusi, anche di massima gravità contro la natura della liturgia e dei sacramenti”(Istruzione Redemptionis Sacramentum, 4). Siamo alla situazione odierna.
Checché ne pensi qualche liturgista modernista, il ritus per essere celebrandus deve essere servandus. Dice Gesù: “Chi è più grande: chi è a tavola o colui che serve?” Egli si è fatto servo e anche noi lo siamo e serviamo la liturgia, come indicano i termini usati: ministro, accolito, diacono. Invece, ha molto nociuto al servizio della liturgia, che questa debba essere “animata”; se la liturgia esprime l’obbedienza della fede, ha già l’anima che è data dalla Presenza del Signore, e va servita; questo ci rende figli del Padre, come il Figlio.
Qualcuno pensa che nella liturgia precedente il Concilio, ci si rivolgesse a persone già evangelizzate, sicché non ci fosse bisogno di gesti ‘chiari’; in verità la liturgia è stata sempre un annuncio, ma nessun annuncio nella Scrittura è ‘chiaro’, secondo le categorie razionali, e così la liturgia non può non essere “misteriosa”. Anche la liturgia attuale, sebbene la si ritenga in genere accessibile e comprensibile, non è capita da molti. Certo, il popolo è una presenza accessoria rispetto al Protagonista, al quale è rivolta in definitiva la liturgia. Dunque, nessuna “cortina fumogena” è stata interposta tra la liturgia e il popolo. Vero è, invece, che “la liturgia è come un albero, che è appunto cresciuto nel clima mutevole della storia mondiale, che ha conosciuto momenti di tempesta e periodi di fioritura, il cui sviluppo avviene dal di dentro, dalle forze vitali dalle quali è germinato”(J. A. Jungmann, Eredità liturgica e attualità pastorale, Milano 1962, p 556-557). Il sacerdote, che porta nel suo etimo il prefisso sacer, che sta a ricordare il dono ricevuto dall’alto, deve appunto consacrare il mondo e non conformarsi ad esso.

8. Il matrimonio «elevato a sacramento». È ancora un rito dove Dio è presente e operante?

È paradossale che, nel nostro tempo che vede il formidabile attacco all’istituto matrimoniale, con l’impressionante diminuzione di matrimoni in chiesa, l’attenzione dei riformatori della liturgia, si sia concentrata sulle epiclesi nelle quattro formule della benedizione nuziale, che inizialmente non lo prevedevano. Penso sia imputabile, anche in questo caso, alla teoria dello Spirito Santo ‘grande assente’. È proprio vero, che ridottasi la base imponibile dei fedeli che frequentano la chiesa, si sono moltiplicate a dismisura le ‘istruzioni per l’uso’.
Mentre incombe il relativismo sulla verità della creazione dell’uomo e della donna, quindi sulla concezione della coppia cristiana, mi sembra si debba invece esaltare proprio l’elevazione a sacramento voluta da nostro Signore, secondo il passo paolino di Ef. 5, che lo assimila al mistero del rapporto di Cristo con la Chiesa. Senza nulla togliere allo Spirito Santo, che insieme al Padre opera la santificazione in ogni sacramento, qui è innanzitutto Cristo ad essere presente, come alle nozze di Cana, per mostrare la novità dell’amore coniugale: bere il suo sangue, il “vino nuovo” che ha portato all’umanità. Così, nel matrimonio cristiano, la verità della creazione si unisce alla verità della redenzione, come insegna Giovanni Paolo II.

9. I sacramentali: «l’estensione del senso sacramentale». Perché le benedizioni in una società secolarizzata?

Si dice che l’esperienza del sacro è ambigua, perché l’uomo per un verso ne è attratto, per un altro atterrito, vuoi avvicinarti e toccarlo, hai timore e desideri allontanarti: è il mistero che cogli quando chiudi gli occhi (etimologia del termine greco myo) e non quando li apri; ma quando li apri, devono posarsi su una forma (rito e parola) che riconducano al mistero. Il senso religioso dell’uomo di tutti i tempi e di tutte le religioni, desiderava Dio e cercava un suo oracolo. Il sacro era ambiguo al tempo dei pagani, è ambiguo in tutte le religioni, ma non nel cristianesimo: da quando il Verbo si è incarnato, il sacro si è fatto incontrare ed è presente – è il mistero – il Santo, ben separato dal mondo, nella sua grandezza si è fatto il Dio vicino.
Per questo, il Motu proprio Summorum Pontificum invita a celebrare il Novus Ordo “con grande riverenza in conformità alle prescrizioni”; infatti, il venire meno di tale riverenza e la necessità di riconquistarla, ha indotto a ricorrere al Vetus Ordo. La sacralità dipende dalla riverenza, come insegna Tommaso: “totus exterior cultus Dei ad hoc praecipue ordinatur ut homines Deum in reverentia habeant” (S. Th. , I-II, q. 10, 2, a. 4, co. ): la celebrazione del culto divino è ordinata soprattutto a inculcare negli uomini la riverenza verso Dio. È questa l’ars celebrandi, che “deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredamento e del luogo sacro” (Sacramentum Caritatis, 40). La coscienza del mistero che viene celebrato fa percepire il sacro, cioè la Presenza divina. Così abbiamo la vera liturgia, che nasce dall’atto di fede e ad un tempo la nutre. Perciò, la Chiesa ha voluto estendere il senso sacramentale a molteplici aspetti della vita, per aiutare l’uomo a cogliere la vicinanza di Dio: le benedizioni, gli esorcismi, le esequie, le processioni. . . Il profano si sottrae al sacro, ma si confronta sempre con esso e se non è conquistato, tende a crearsi un suo cerimoniale, come si può constatare nell’inimmaginabile scristianizzazione che caratterizza l’Occidente. Purtroppo la secolarizzazione ha trovato sponda proprio nel neomodernismo che ha conquistato ampi settori della Chiesa. Nonostante tutto, però, il fenomeno della pietà popolare attesta la ricerca del senso cristiano della vita, che è alimentato e sorretto solo dai sacramenti e dai sacramentali. 

sabato 28 gennaio 2017

L’«unità dei cristiani» e la lezione dimenticata di Bonhoeffer

Nella festa del beato Carlo Magno, della natività di S. Agnese, vergine e martire (II memoria di S. Agnese) e di S. Pietro Nolasco, pubblichiamo questo contributo di Franco Parresio.



Jean-Victor Schnetz, Il beato Carlo riceve il beato Alcuino di York ed i suoi monaci, che presentano alcuni manoscritti, 1830, musée du Louvre, Parigi 

Karl Baumeister, Beato Carlo Magno e S. Ildegarda, 1895, chiesa di S. Giovanni Battista, Bussen

La Vergine della Marcede e S. Pietro Nolasco


Juan Luis Zambrano (allievo di Francisco de Zurbarán), Morte di S. Pietro Nolasco, 1634 circa, museo Thyssen-Nornemisza, Madrid

Gaspar de Crayer, S. Pietro Nolasco, 1655 circa, Mudeo del Prado, Madrid


Alonso del Arco, La Vergine della Mercede appare a S. Pietro Nolasco, 1682, Mudeo del Prado, Madrid

Juan de Toledo, S. Pietro Nolasco, 1660 circa, Mudeo del Prado, Madrid

Scuola spagnola, S. Pietro Nolasco, XVIII-XIX sec., collezione privata

L’«unità dei cristiani» e la lezione dimenticata di Bonhoeffer

di Franco Parresio

Nel ricordo della deposizione delle reliquie del santo dottore Tommaso D’Acquino, il sommo teologo, avvenuta nel 1369 a Tolosa nella chiesa a lui dedicata e la cui festa celebreremo il prossimo 7 marzo, nonché al termine dell’Ottavario di preghiera per il ritorno dei dissidenti in seno alla Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica Romana, voglio ricordare la lezione dimenticata del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, ucciso dalla ferocia nazista. E la lezione consiste proprio nel suo forte avvicinamento alla teologia cattolica, professando quanto nel Simbolo Apostolico è detto circa la “Sanctorum communio”. Ecco cosa egli scrisse in una lettera ad amici, che avevano subito un lutto in famiglia:

«Non c’è nulla che possa sostituire l’assenza di una persona cara; non c’è nessun tentativo da fare. Bisogna semplicemente tener duro e sopportare. Ciò può sembrare a prima vista molto difficile, ma è al tempo stesso una grande consolazione, perché, finché il vuoto resta aperto, si rimane legati l’un l’altro per suo mezzo. È falso dire che Dio riempie il vuoto, Egli non lo riempie affatto; anzi lo tiene espressamente aperto, aiutandoci, in tal modo, a conservare la nostra antica reciproca comunione, sia pure nel dolore. Ma la gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa».

Stiamo più che certi che Dietrich Bonhoeffer, se sopravvissuto, avrebbe aderito alla Chiesa di Roma, visto che era profondamente attratto non solo dalla sua teologia (stanco delle cinciscaglie protestanti), ma anche dai suoi riti, tant'è che passava lunghi periodi di ritiro e studio in un monastero benedettino e, recandosi a Roma, frequentava esclusivamente le liturgie capitolari in Santa Maria Maggiore, come apprendiamo dalla biografia che ne ha scritto Eraldo Affinati (Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer, Milano, 2002).
Perciò, non mi trovo assolutamente d’accordo con chi strumentalizza il nome di Bonhoeffer per avvicinare i cattolici alla teologia protestante, perché è vero esattamente il contrario! 
Ricordiamoci: «a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che e la Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica Romana), nulla si trova di più nobile, di più grande, di più divino che quella espressione con la quale essa vien chiamata "il Corpo mistico di Gesù Cristo" [ad definiendam describendamque hanc veracem Christi Ecclesiam — quae sanctā, catholica, apostolica, Romana Ecclesia est —nihil nobilius, nihil praestantius, nihil denique divinius invenitur sententia illa, qua eadem nuncupatur «mysticum Jesu Christi Corpus»]» (Pio XII, enc. Mystici Corporis Christi, 29.6.1943).

Concilio Vaticano II e discontinuità in un aforisma del prof. De Mattei


Cfr. Intervista al prof. Roberto de Mattei sul Concilio Vaticano II ed altro, in Cooperatores Veritatis, 28.1.2017

venerdì 27 gennaio 2017

L'inno cherubico (Cherubikon) nella festa di S. Giovanni Crisostomo

Nella festa di S. Giovanni Crisostomo proponiamo il Cherubikon (χερουβικόν), cioè l'inno cherubico (χερουβικὸς ὕμνος), che fa parte dell'Anafora della Divina Liturgia (della Tradizione orientale), fatta risalire a San Basilio ed alla redazione di San Giovanni Crisostomo del testo liturgico basiliano. 
Qui lo riproduciamo nella versione musicata da Pëtr Il'ič Čajkovskij.





sabato 21 gennaio 2017

Il deandreano Dio di misericordia

Nella festa di sant’Agnese, vergine e martire, rilanciamo questo contributo del prof. Vito Abbruzzi.




Seguace di Sebastien Bourdon, Martirio di S. Agnese, XVII sec., collezione privata

Francesco Furini, S. Agnese, XVII sec., collezione privata


Onorio Marinari, S. Agnese, XVII sec., collezione privata

Anonimo, S. Agnese, XVII sec.

Anonimo, Martirio di S. Agnese, XVII sec., collezione privata


Domenichino, Martirio di S. Agnese, 1621-1625, Pinacoteca Nazionale, Bologna



G. Audran, Riproduzione del quadro del Domenichino del Martirio di S. Agnese, XVII sec., collezione privata

Ambito trentino, Martirio di S. Agnese, 1631 circa, Trento

Giovanni Evangelista Draghi, Martirio di S. Agnese, 1690-1710, Piacenza

Bernardo Lorente Germán, S. Agnese, XVIII sec., collezione privata

Giovanni De Min (attrib.), Martirio di S. Agnese, XVIII-XIX sec., Parrocchia di San Vendemiano, S.Vendemiano



Nicolò Traverso, S. Agnese in gloria, 1790 circa, Chiesa di Nostra Signora del Carmine e Sant'Agnese, Genova

Giovanni David (e Carlo Alberto Baratta), S. Agnese rifiuta le nozze col figlio del Prefetto, 1790-1799, Chiesa di Nostra Signora del Carmine e Sant'Agnese, Genova

Giovanni David (e Carlo Alberto Baratta), Tentazione di S. Agnese, 1790-1799, Chiesa di Nostra Signora del Carmine e Sant'Agnese, Genova


Joseph Désiré Court, Martirio di S. Agnese, 1864, Musée des Beaux-Arts, Rouen


Bottega italiana, S. Agnese, 1890-1910, Piacenza

Il deandreano Dio di misericordia

di Vito Abbruzzi


A giorni il mondo della musica d’autore ricorderà i cinquant’anni della prematura e tragica scomparsa di Luigi Tenco: morto suicida alle prime ore del 27 gennaio 1967, profondamente turbato, dopo la prima serata di Sanremo, per la bocciatura della sua struggente canzone Ciao amore, ciao.
L’occasione è propizia per parlare dell’ambivalente rapporto giustizia-misericordia divina: non sempre ben compreso; anzi, fonte, ultimamente, di non pochi dubbi di carattere biblico-teologico. E lo facciamo alla luce dell’altrettanto struggente canzone Preghiera in gennaio: una sorta di commendatio animae composta e interpretata dal grande Fabrizio De Andrè, per raccomandare al “Dio di misericordia” il suo amico fraterno Luigi Tenco, pesantemente vilipeso, in mortem e post mortem, da quelli che sprezzantemente sono chiamati nella canzone “signori benpensanti”.
Il deandreano “Dio di Misericordia” non è affatto diverso dal “Dio di giustizia”.
Sembra, infatti, che l’espressione “Dio di giustizia” si riferisca a un dio spietato, mentre, al contrario, “Dio di misericordia”, a un dio pietoso. I due concetti non solo non sono confliggenti, ma sono uno espressione dell’altro, come lo stesso Giovanni Paolo II ci ricorda nella sua Catechesi su “Giudizio e misericordia: due dimensioni del mistero di amore”: «A prima vista giudizio e misericordia sembrerebbero due realtà inconciliabili, o almeno la seconda sembra integrarsi con la prima solo se questa attutisce la propria forza inesorabile. Occorre invece capire la logica della Sacra Scrittura, che le lega assieme e anzi le presenta in modo che l’una non possa esistere senza l’altra» (udienza gen. 7.7.1999).
Invocare, dunque, il “Dio di misericordia” – esattamente come fa De Andrè – è affermare la giustizia di Dio, non diversamente dal Salmista che accoratamente prega: «Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa contro gente spietata» (Ps. 42, 1).
Se così non fosse daremmo ragione a chi, come Moshe Idel, il più noto studioso contemporaneo della mistica ebraica, autore de Il male primordiale nella Qabbalah. Totalità, perfezionamento, perfettibilità, pubblicato recentemente da Adelphi (cfr. P. Citati, Il Dio imperfetto degli ebrei, in Corriere della sera, 15.12.2016), sostiene la tesi di un “Dio imperfetto”, perché «luce e tenebre, bene e male insieme; misericordia e giudizio, giustizia e malvagità, paradiso ed inferno; mano destra e mano sinistra» (ivi). Il dualismo verrebbe attenuato e mitigato, giacché, secondo Idel, «il male abita Dio»: un fatto che distingue radicalmente il cristianesimo dall’ebraismo: nel cristianesimo Dio è perfetto, e ignora perfino che qualcuno possa parlare, a suo proposito, di mancanza; nella Qabbalah, Dio conosce la mancanza: egli non sarebbe onnipotente né perfetto. Tesi sostenuta anche da Galimberti quando, parlando del sacro nella cultura ebraica, dice della «con-fusione (syn-bàllein) che regna […] tra il bene e il male» (U. Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, ed. Feltrinelli, Milano 2012, p. 21): «Il sacro è il luogo dell’indifferenziato, dove il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il benedetto e il maledetto si con-fondono» (ivi, p. 9).
La confusione, ahinoi!, non è in Dio, bensì nell’uomo, il quale, nella sua reale imperfezione, non ha capito quanto «dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre. I miei pensieri e i vostri, il mio modo di agire e il vostro sono distanti tra loro come il cielo è lontano dalla terra” » (Is. 55, 9).
Ed ecco perché De Andrè si rivolge direttamente a Dio – a quel “Dio di misericordia” –, chiedendogli giustizia per il suo amico suicida, accogliendo l’anima di lui nel suo «cielo: là dove in pieno giorno risplendono le stelle». E chiedendo questo, egli non forza affatto la mano, dal momento che anche per la Chiesa, che – non dimentichiamolo! – è «madre e maestra» (Giovanni XXIII), «non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2283).
Aveva ragione mia madre: «Gesù non vuol vedere nessuno disperato».