Sante Messe in rito antico in Puglia

mercoledì 25 aprile 2018

Gli sguardi nostri ed il nostro cuore siano verso Dio! Sul senso della celebrazione "coram Deo" o rivolti a Dio

Oggi, festa di S. Marco Evangelista e Rogazioni di S. Marco o Litanie maggiori, nonché Ottava di S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, si è svolto a Bari il tradizionale pellegrinaggio Summorum Pontificum.
Quantomeno opportuno ci sembra quindi il rilancio di quest’articolo … a tema.

Ambito laziale, S. Marco evangelista, XIX sec., Latina

Giuseppe Faccin, Martirio di S. Marco, 1906, Chiesa di S. Maria della Neve e S. Marco, Conco

Guglielmo Ascanio, S. Marco scrive il suo vangelo, 1929, Perugia























Una foto del pellegrinaggio di quest'oggi inviataci da un nostro amico

GLI SGUARDI NOSTRI E IL NOSTRO CUORE SIANO VERSO DIO!


SUL SENSO DELLA CELEBRAZIONE “CORAM DEO” O RIVOLTI A DIO

di Dñ Julianus della Rovere


Nella mentalità popolare siamo abituati a sentire che prima della riforma di Concilio Vaticano II il sacerdote celebrava la Santa Messa rivolgendo le “spalle al popolo”. Questo modo di celebrare, con altri elementi come la balaustra o il fatto che l’aria del presbiterio era riservata al solo clero, sono stati visti come un elemento di distanza tra clero e gente, una assenza di partecipazione e comprensione del mistero liturgico da parte della gente. Con queste righe ci proponiamo di proporre alla riflessione di chi vorrà continuare la lettura alcuni spunti su come questo pensiero sia profondamente erroneo e non corrispondente al vero. L’oggetto di riflessione è questa posizione del sacerdote “spalle al popolo”, che inizieremo a chiamare “coram Deo“.
In contrario a questa posizione del celebrante potremmo iniziare con l’affermare che Cristo stesso non ha dato le “spalle agli apostoli” nell’ultima cena, pertanto anche il sacerdote non deve o dovrebbe dare le “spalle al popolo” durante la Santa Messa. Inoltre si potrebbe dire che non ha senso affermare che il sacerdote, agendo in persona Christi, dia le “spalle al popolo”. Il popolo, infatti, è “assemblea adunata nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (cfr. Ordinamento Generale del Messale Romano, I, 16; II, 27) e popolo santo di Dio (cfr. LG). In risposta a questa osservazione possiamo affermare che la posizione del sacerdote “spalle al popolo” o “coram Deo” durante la celebrazione della Messa non vuol essere un atto di scortesia nei confronti della gente adunata, ma vuole indicare il senso della preghiera che si sta vivendo e svolgendo: rivolgersi a Dio e rendere uno spazio sacro l’animo dei fedeli convenuti e anche il mondo e lo spazio. Infatti, la preghiera orientata, ovvero quella preghiera che vedeva tutti i convenuti rivolti verso oriente (o verso la Mecca per i musulmani), era già prassi comune nell’antichità e usata anche dal Giudaismo e all’Islam. Le costituzioni apostoliche già impongono che le chiese siano costruite con il catino absidale rivolto ad oriente per via del fatto che, nella preghiera, era prassi comune rivolgersi verso il punto in cui sorge il sole. Altri Padri come Agostino, Origene e Tertulliano sottolineano come la preghiera cristiana abbia una direzione geografica precisa: l’oriente. Infatti, Cristo è il “sole che sorge” (cfr. Lc 2; Mt 24,27) e che viene a portare la salvezza di Dio. Nel testo del profeta Ezechiele la stessa gloria di Dio entra nel tempio dalla porta orientale (Ez 43,1; 44,1-3; 7,1; Zc 3,8). Con ciò si viene a legare l’oriente alla presenza di Dio nel tempio manifestando che solo Dio nel suo Cristo porta la luce vera all’uomo schiavo del peccato e delle tenebre (il cui simbolismo è l’occidente luogo ove il sole tramonta e vi è l’oscurità). Mediate questa simbologia del “coram Deo” viene posto l’accento non solo sul tempo presente che la liturgia ci invita a vivere come presenza viva ed attuale del mistero della Passione e morte di Nostro Signore che, mediante la sua croce, vivifica ed illumina il mondo, ma anche sul contesto escatologico: il Cristo viene dall’oriente per salvarci e per condurci alla vera luce del Padre, egli è la vera luce che guida i passi dell’umanità verso il paradiso perduto a causa del peccato dei progenitori. Circa l’orientamento della preghiera “coram Deo” scrive san Tommaso d’Aquino:
«È preferibile che noi adoriamo con il viso rivolto ad Oriente: primariamente, per mostrare la maestà di Dio che ci viene manifestata attraverso il movimento del cielo che inizia ad Oriente; secondariamente, perché il Paradiso terrestre si trovava ad Oriente e noi cerchiamo di tornarvi; in terzo luogo, perché Cristo, che è la luce del mondo, è chiamato Oriente dal profeta Zaccaria e perché, secondo Daniele, “è salito al cielo, all’Oriente”; infine, perché è da Oriente che Egli tornerà, come dicono le parole del Vangelo di San Matteo: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”».
Tutto ciò può andare a sostegno di quanto detto sinora, nella celebrazione “coram Deo” non vi è una mancanza di rispetto verso la gente convenuta alla preghiera, ma un profondo senso simbolico che vuol rendere la presenza di Dio, la sua azione nella storia e l’attesa del Padre celeste nel suo giudizio ultimo alla fine dei tempi. Oltre a ciò vi è sotteso anche il senso mistagogico, tanto voluto dai Padri dell’assise del Concilio Vaticano II stesso. Teologi e liturgisti del movimento liturgico, fedeli al grido “ad fontes” sono andati a recuperare forme e modi antichi di celebrazione (non sempre erano antichi, ma creati ex novo): il famoso “archeologismo liturgico” di vecchie prassi ormai in disuso da secoli condannato dalla Chiesa mediante la condanna del Sinodo di Pistoia, ed in seguito condannato da Pio XI nella lettera enciclica “Mediator Dei“. Questo recupero ha un po’ tralasciato quello che è stato lo sviluppo che ha avuto il linguaggio liturgico nel tempo pensando che la riscoperta dell’antico avrebbe creato un clima di maggiore comprensione della celebrazione liturgica, ma purtroppo non è stato così e Pio XII ha avuto, nella sua enciclica, lo sguardo lungimirante di chi prevedeva ciò che sarebbe accaduto nel tempo a lui successivo. Tornando al senso mistagogico è possibile creare il collegamento tra lo stile celebrativo “coram Deo” e la spazialità della chiesa che, nel suo modo di essere costruita ripropone in senso figurato il cammino della vita di ogni fedele. Ogni uomo che abbraccia la via della fede mediante il battesimo compie la sa rinuncia alle tenebre del peccato (che abbiamo ricordato essere figurato nella posizione del fonte ad occidente, all’esterno della chiesa o vicino alla porta di ingresso), in questo modo, fatto nuova creatura l’uomo può accedere dal portale che è Cristo (cfr. Gv 10,7-9) e rivolgere la sua vita a Cristo – Dio che ha la sua presenza simbolica nella luce dell’occidente e in seguito, quando i tabernacoli presero il posto centrale sull’altare nel presbiterio, anche nella presenza reale dell’Eucaristia. Attraverso questo linguaggio mistagogico si viene ad illuminare il senso del popolo che cammina attraverso quella che è la sua vita terrena verso il Regno di Dio, verso il paradiso. La mistagogia del cammino fatto da ogni cristiano mediante il battesimo ed il suo ministero e grado nella chiesa diventa raffigurazione terrena di quella chiesa militante, popolo in cammino che, abbattendo il peccato nella sua esistenza umana si rivolge a Cristo che viene come luce di salvezza dall’oriente.
Riassumendo il senso dell’altare rivolto ad oriente e della celebrazione “coram Deo” vuol essere:
1. cosmico sacrale: cioè la liturgia non è solo qualcosa di limitato ai convenuti al Sacrificio dell’Altare, ma essa racchiude non solo i partecipanti, ma all’umanità tutta che apre il cuore a Dio e, non rifiutandolo, si lascia condurre al cielo; ingloba anche quello che è il mondo naturale che attende la venuta di Cristo che rivelerà in modo definitivo la salvezza che ha operato mediante il sacrificio della croce (cfr. Rm 8, 22-27).
2. escatologico: la celebrazione “coram Deo” esprime al meglio, così come abbiamo potuto leggere anche nel pensiero dell’Aquinate, il senso di attesa che ogni cristiano deve possedere in cuor suo sapendo che Cristo viene come sole che sorge per portarci con Lui nel paradiso.
3. mistagogico: ci fa fare memoria, ogniqualvolta entriamo in chiesa, di quello che è il cammino della nostra salvezza che, attraverso il battesimo, rinunzia al peccato per mettersi alla luce di Dio mediante la figura del popolo in cammino verso il Regno che è anticipato dal banchetto al Corpo e Sangue di Cristo (riti di comunione della Messa) a noi donati dopo il Sacrificio della Croce avvenuto sull’altare (parte sacrificale della Messa).
Alle due obiezioni iniziali si può provare a rispondere, in modo non esaustivo, affermando che l’altare verso il popolo come “innovazione” è tratta dal pensiero di Lutero così come viene spiegato anche nel Cerimoniale di Wüttemberg. L’eretico di Sassonia aveva in odio il pensare la messa come sacrificio e desiderava renderla più conforme alla cena in modo da eliminare il senso di Messa come memoriale vivo ed attuale del sacrificio di Cristo sulla croce. Studi come quelli di Klaus Gamber o Mons. Laise o altri studiosi dimostrano come ai tempi di Cristo non vi era l’uso di cenare intorno alla tavola come lo conosciamo noi oggi, ma era invalso l’uso di essere tutti sullo stesso lato del tavolo lasciando il lato libero da commensali per il servizio del personale di sala o dei servi. Attraverso un ricorso maggiore a quello che è il motivo conviviale dell’Eucaristia e nel caso del protestantesimo, si ha la caduta del senso del sacrificio, o meglio del convito sacrificale ove senza la morte dell’Agnello Pasquale che è il Signore Gesù, non vi può essere nessun banchetto. La Messa non è commemorazione dell’ultima cena, ma è il Calvario ove con la morte di Cristo ci viene donato il suo Corpo e Sangue come nutrimento di immortalità; Cristo stesso nel giovedì santo, all’ultima cena, anticipa in senso mistico il suo venerdì santo e comanda di continuare a fare in questo modo. In questa concezione non c’è bisogno dello scambio di sguardi tra celebrante e popolo, ma vi deve essere un unico punto di convergenza della mente, del cuore e degli occhi: la croce e questa ancora viva e presente sull’altare, così la celebrazione “coram Deo” centrerebbe meglio l’attenzione ed eviterebbe che l’attenzione cada sul celebrante o sul popolo.
Alla seconda obiezione si può rispondere affermando che il senso dell’oriente liturgico manifesta in modo eminente il senso del popolo in cammino tanto desiderato dal Concilio Vaticano II. Infatti, il popolo con il sacerdote sono rivolti verso un unico punto che è Dio, essi camminano verso il Regno promesso nelle loro esistenza temporali ed attendono il compimento definitivo di ogni tempo nel quale Cristo verrà come giudice dei vivi e dei morti. Proprio in questo camminare verso Dio si manifesta il “doppio sacerdozio”: battesimale e ministeriale-gerarchico che differiscono per grado ed essenza mettendo in piena luce il senso del sacerdozio ministeriale cattolico romano apostolico. Il sacerdote agisce in persona di Cristo e, come mediatore, offre a Dio la vittima pura, santa ed immacolata che è lo stesso Cristo, egli così rinnova il sacrificio di Cristo in modo incruento ogni giorno ad ogni Messa, ma sale all’altare per portare le preghiere del popolo a Dio, per offrire il frutto del sacerdozio battesimale che è l’offerta di una vita santa a Dio Padre (cfr. Rm 12,1-2). Appare evidente quella che è l’unità tra il popolo ed il sacerdote: egli è uno del popolo costituito per offrire a Dio la vittima perfetta mediante la partecipazione all’unico vero sacerdozio di Cristo, ma anche per portare al popolo i doni di Dio ed il prezioso Corpo e Sangue di Cristo che sarà nutrimento di salvezza e farmaco di immortalità. Inoltre si palesa anche l’unità del popolo di Dio al sacerdote perché che attraverso i differenti ministeri, questi può presentare la sua lode a Dio onnipotente e offrire la sua esistenza vissuta in coerenza alle leggi divine. Nel sacerdote coesistono queste due tipologie di sacerdozio, egli è ministro ordinato di Dio e partecipa dell’unica vera mediazione di Cristo sacerdote (cfr. 1Tm 2,5), ed al contempo è rappresentante agli occhi del Padre divino di tutto il popolo mediante il suo essere battezzato.
La celebrazione “coram Deo” manifesta non una distanza tra il sacerdote ed il popolo, ma mette in evidenza il fatto che egli è colui che agisce come ministro ed ambasciatore di Dio perché costituito sacerdote mediante il sacramento dell’Ordine Sacro, colui che è datore delle cose sacre. Ancora, per il fatto che egli è in testa al popolo di Dio, ne diviene portavoce ed guida verso il Regno riassumendo mediante la figura celebrativa il senso della mediazione sacerdotale cristiana che per secoli ha fatto fiorire tante vocazioni e messo in chiaro che il sacerdote non è “l’operatore sociale” o l'”animatore” della comunità cristiana. In conclusione non possiamo fare altro che auspicare che ci sia una riscoperta del linguaggio simbolico e mistagogico delle forme liturgiche che la Chiesa ci ha tramandato come monumento di fede e storia e che si sono condensate nel rito Gregoriano della Messa e non tanto una proposta di un linguaggio nuovo che inventa segni e linguaggi liturgici magari ripescandoli dalla storia antica ma che nel tempo sono decaduti perché già all’epoca poco fruttuosi spiritualmente o con il pericolo potessero creare delle deviazioni nella fede pregata e creduta dagli uomini. 

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