Sante Messe in rito antico in Puglia

venerdì 17 aprile 2020

Passata la festa, gabbato lo santo… con buona pace di tutti

Ad una settimana dal Venerdì Santo, volentieri ospitiamo un contributo del nostro Franco Parresio, che giunge "a fagiolo", alla luce anche di un recente articolo de La Gazzetta del Mezzogiorno.

Passata la festa, gabbato lo santo…
con buona pace di tutti

di Franco Parresio

E sì!, si è chiuso da una settimana questo lungo e penoso Venerdì Santo senza le tipiche «espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale» (secondo il diktat vaticano)! E con buona pace di tutti. Delle autorità religiose, in primis.
Un Venerdì Santo da dimenticare!
Si fa per dire.
Un Venerdi Santo, invece, che passerà alla storia, come il Venerdì Nero… che più nero non si può!
Altro che il colore rosso, voluto e imposto dalla riforma della Settimana Santa, in segno di gloria rappresentato dal martirio e dalla regalità di Cristo sulla croce!
Ma quale gloria?!
Questo scorso Venerdì Santo ha dimostrato, invece, in toto, la giustezza del colore nero, così come indicato nelle rubriche preriformate della Settimana Santa, poiché giorno di lutto... e non solo perchè «aliturgico, cioè senza celebrazione del santo sacrificio» (Caronti), ma proprio per non aver potuto vivere «le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale»: una decisione sì giunta dall’alto, ma accolta arrendevolmente dal basso… pro bono pacis.
Dico “arrendevolmente” non perché si voglia sminuire la pericolosità del coronavirus – tutt’altro! –, ma perché non si è voluto – no potuto! – cercare il giusto compromesso con le autorità: e civili e religiose. E il giusto compromesso è, appunto, riuscire ad esprimere comunque la pietà popolare legata ai riti del Triduo Pasquale, ricorrendo a forme minimali, che mettessero d’accordo tutti. Proprio perchè trattasi di pietà; non già di mero folclore! Pietà che, per sua natura, non può essere espressa in un altro periodo dell’anno liturgico, «ad esempio il 14 e 15 settembre», così come proposto dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (qui). E ciò in linea con il popolare detto, che mai come ora ci appare in tutta la sua veridicità: «Passata la festa, gabbato lo santo». Laddove, infatti, il compromesso, pur a fatica, si è raggiunto, non solo si è salvata la pietà del popolo, ma, addirittura questa ne è uscita rafforzata. Valga tra tutti e per tutti il magistrale esempio dato dai Barlettani al mondo intero dacché, proprio grazie alla non rassegnazione dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento, la plurisecolare processione eucaristico-penitenziale non solo si è potuta svolgere nella forma che ci si auspicava, cioè semplice (un solo sacerdote in strada con la pisside), ma addirittura il primo cittadino stesso, che vi è andato dietro con una candela in mano, ed accompagnato dall’arcivescovo di Trani, ha rinnovato con atto formale il «Voto della città di Barletta ai suoi Patroni» proprio nella notte dello scorso Venerdì Santo (v. qui). E non a caso il Comune di Barletta è nella denominazione “Città della Disfida”: disfida tante volte necessaria, per giungere a un ragionevole accordo. Ragion per cui il gettare la spugna equivale non tanto a darla vinta al proprio avversario quanto nel palesare la debolezza propria e delle proprie idee. E, perciò stesso, non avere – nel presente, ma anche e soprattutto in avvenire – alcun potere contrattuale.
Chi, come l’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento di Barletta, è riuscito a spuntarla, ha dimostrato all’universo mondo che la sua è vera pietà. E di esempi oltre quello di Barletta ce ne sono e, per fortuna, pure tanti. Ma chi non ci ha provato nemmeno, ha creato per sé e per quelli dopo di sé un grave precedente, lasciando chiaramente intendere ai profani che la natura di quei riti, pur tanto amati da generazioni e generazioni, e quindi costituenti la tradizione di un paese, è fondamentalmente folclorica più che pietistica. Il messaggio che è passato è che se ne può fare tranquillamente a meno: “Ma sì! Che fa!?” Esattamente come ha ammesso un presidente di una confraternita, dicendosi dispiaciuto tanto di non poter organizzare le processioni quest’anno, ma di essere al contempo ugualmente contento di vedere concretizzata la loro passione e il loro sacrificio, avendo la splendida idea di riunire (virtualmente, si intende) tutti i protagonisti e gli attori, per coinvolgerli in una grande raccolta fondi. L’obiettivo? Acquistare dei ventilatori polmonari, necessari come il pane in questo periodo di emergenza sanitaria. Che dire? Bell’iniziativa, e persino lodevole, ma del tutto fuori luogo per una confraternita, che, in quanto associazione di fedeli, è vero che tra le finalità ha proprio le «opere di pietà o di carità» (can. 298, § 1), ma la carità discreta, non sbandierata – «non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3) –; ché, altrimenti, è filantropia pura e semplice. Non a caso, sin dai tempi antichi, i confratelli si incappucciavano: non solo per andare in processione scalzi o flagellarsi, ma anche per svolgere gli atti di misericordia corporale, tra cui quello di soccorrere i malati e seppellire i poveri morti.
Il mio è tutt’altro che un rimprovero: è piuttosto un dispiacere. Perché così intravedo la fine delle tradizioni: una fine lenta ma inesorabile, perché portate avanti da persone le quali, pur brave e degne di stima, non sfuggono all’impietoso giudizio di essere tacciate di fanaticheria da una parte e di pusillanimità dall’altra. E l’augurio: che tutto questo possa essere di sprone in avvenire, per non finire con l’essere assimilati alla dantesca «setta d’i cattivi, a Dio spiacenti e a’ nemici sui».

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