Sante Messe in rito antico in Puglia

martedì 30 novembre 2010

Esperienza in salita


di Riccardo Rodelli

Anche quest'anno ho potuto partecipare all’esperienza degli esercizi spirituali, secondo il metodo di S. Ignazio. Metodo che prevede una preghiera fondata  sull’utilizzo delle tre potenze dell’anima: memoria, intelletto e volontà. Queste forze vengono incanalate, dopo l’orazione preparatoria (breve preghiera con cui si chiede a Dio la grazia, perché tutte le nostre facoltà siano dirette a Lui) in quella che è la composizione di luogo,cioè l’immaginazione dei luoghi, dei posti, dei colori e rumori, dei profumi e delle voci in cui Gesù ha vissuto.

Ritornando alla vita di tutti i giorni, quella composizione di luogo che facevo facilmente durante gli esercizi e che mi permetteva di “vedere” con gli occhi del cuore Gesù nei momenti focali della sua venuta sulla terra, sembrava inefficace perché distratta da mille problemi, da mille persone, da mille immagini.

E così è stato finchè non sono tornato in Chiesa.

Ho l’onore di servire messa nella forma straordinaria del rito “antico”, come se la Chiesa fosse antica o moderna, passata o futura; la Chiesa è presente! Così come Cristo è quello di ieri, di oggi,di sempre.

La messa nel rito tridentino, facilita quella composizione di luogo e questa facilita la preghiera. Quello che ho notato, anche a mie spese,  è che serpeggia una presunzione nella preghiera,  come se di quest’arma potentissima potessimo disporne a nostro piacimento con semplici e poveri mezzi. La preghiera viene dall’alto (come tutto del resto). Gesù nel discorso della montagna (Matteo 5,1-7,28) insegnò ai discepoli a pregare, così con la Trasfigurazione sul monte Tabor (Luca 9,29-31.33.35) Gesù nel mostrarsi con Mosè ed Elia, mostra la continuazione tra il vecchio e il nuovo testamento. Si sale per pregare, si sale per contemplare, e nella strada del Golgota, si sale per soffrire…

Ed è proprio nella messa “in latino” che questo avviene, avviene in questa processione di anime all’altare di Cristo, dove il sacerdote/pastore  sul “monte” o il celebrante/Cristo sul “Golgota”, conduce il pascolo al punto più alto per il contatto con Dio per compiere il più alto dei sacrifici. Questo è il compito del Sacerdote, condurre le pecore al buon pastore e lo fa stando davanti a loro per mostrare meglio la via.

Tanto il monte, quanto il Golgota, quanto l’altare stesso non sono punti di rottura con l’assemblea, ma sono punti di unione con Dio. Se il sacerdote ci volge le spalle e si pone su qualche scalino più in alto, non è per staccarsi dall’assemblea, ma per avvicinarsi di più a Dio. Bisogna pensare che la Messa non è per noi, ma per la gloria di Cristo per due ordini di motivi. Per quanto riguarda il primo, la Santa Messa viene celebrata indipendentemente dalla presenza o meno dell’assemblea; per quanto riguarda il secondo, Cristo non ha bisogno di noi, così come non aveva bisogno di noi sulla croce, ma siamo noi che necessitiamo di Lui.

La messa per come spesso viene concepita  è una piramide rovesciata, dove al vertice si pone un’assemblea che per la maggior parte ritiene che la messa della domenica sia una rivisitazione della cena del giovedì santo, dove ci sono dei commensali un po’ scocciati di essere invitati sempre lo stesso giorno, allo stesso pranzo. E’ ovvio che dopo un po’ tutto perde  il più alto e sublime significato.
La messa tridentina, offre la facilità della preghiera attraverso la composizione di luogo, perché ci permette di comprendere quello che realmente è accaduto il Venerdì Santo e che realmente accade in modo incruento quella domenica, nel  momento in cui il Sacerdote pronuncia l’Hanc igitur.

Come i dieci comandamenti non devono essere considerati un fine, ma un mezzo, così la celebrazione deve essere concepita, come del resto tutti i sacramenti, il mezzo per il fine ultimo, Dio.

Immaginare che su quell’altare ci sia Cristo in croce, non è una piacevole suggestione dello spirito, un dolce sussulto del cuore, ma la reale presenza cui ci troviamo ad essere spettatori. Noi rimaniamo spettatori dell’unico sacrificio che ha salvato l’umanità. Come Renè Girard disse più volte e cioè che tutte le religioni esigevano per la salvezza dei popoli, sacrifici di vittime innocenti, così qui è Dio stesso che si fa sacrificio. La salvezza passa attraverso questo sentiero in salita, tortuoso, scivoloso  e impervio. Riflettiamo sul fatto che il dono che ricevettero gli apostoli, nello stare sotto la Croce con Maria spetta anche a noi, pensiamo che neanche gli angeli, possono godere del ricevere il corpo di Cristo, pensiamo che quel Dio che muore e che risorge, quel Dio che soffre e si umilia, è quell’Ostia che il sacerdote consacra e consegna nella vera comunione, vera non perché fatta da commensali, ma perché voluta e retta da Cristo.

Nessun commento:

Posta un commento