I riti popolari della Settimana
Santa al tempo del coronavirus
di Vito Abbruzzi
Quest’anno l’emergenza coronavirus non risparmia nessuno… persino i sacrosanti riti della Settimana Santa, che, proprio a motivo della loro popolarità, metterebbero a rischio l’incolumità pubblica. E, allora, si preferisce soprassedere e accontentarsi di seguire i riti religiosi in diretta streaming, celebrati a porte chiuse e senza concorso di fedeli. E ciò in ottemperanza all’ultimo Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: In tempo di Covid-19 (II), emanato il 25 marzo scorso (v. qui), sostitutivo del precedente del 19 marzo (neppure più riprodotto nel sito vaticano), che stabilisce da una parte che «i Vescovi e i Presbiteri celebrino i riti della Settimana Santa senza concorso di popolo e in luogo adatto, evitando la concelebrazione e omettendo lo scambio della pace», dall’altra che «i fedeli siano avvisati dell’ora d’inizio delle celebrazioni in modo che possano unirsi in preghiera nelle proprie abitazioni. Potranno essere di aiuto i mezzi di comunicazione telematica in diretta, non registrata»; per quanto riguarda, poi, «le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale, a giudizio del Vescovo diocesano, potranno essere trasferite in altri giorni convenienti, ad esempio il 14 e 15 settembre».
Nel timore, però, che “passato il santo passata la
festa”, in molti ci si sta ponendo il problema di come non far passare del
tutto inosservate proprio “le espressioni della pietà popolare e le processioni
che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale”, e che
caratterizzano tanto i nostri paesi. E, per non far sentire del tutto la loro
assenza, si vorrebbe proporre alle autorità ecclesiastiche e civili di
celebrarle comunque, sebbene in maniera minimale. Mi riferisco a quei paesi
dove i riti popolari della Settimana Santa sono molto sentiti, e – guarda caso
– sono strettamente legati al ricordo delle pestilenze, che li hanno
maggiormente afflitti. Penso a Noicattaro, dei cui riti mi sono occupato negli
anni passati (qui;
qui
e qui):
comunità cittadina che evoca non poco, attraverso quei riti, il dramma da essa vissuto,
poco più di due secoli fa, con l’ultimo caso di peste in Europa (v. qui).
L’allora Noja pagò un prezzo altissimo in termini di vite umane: quasi
un quinto della popolazione morì, seguendo la spietata legge della
discutibilissima immunità di gregge. Sì, perché le autorità borboniche,
per far rispettare le regole della quarantena imposte all’intera comunità nojana,
non si limitarono alla sola istituzione del cosiddetto “cordone sanitario”, ma
dovettero ricorrere alla legge marziale, applicando indistintamente la pena di
morte. Persino un prete, accusato di aver passato un mazzo di carte ad un
gruppo di soldati, venne giustiziato. E a Noicattaro i giustiziati, passati per
la forca, vengono tristemente evocati dal rullante la sera del Giovedì Santo,
nella piazza principale del paese, sotto la torre dell’orologio, dove
certamente era posto il patibolo, suonando di continuo, sino alla mezzanotte,
una melodia inquietante e sinistra, che mette i brividi, perché accompagna la
esecuzione capitale: la condanna a morte di un intero paese, che appieno si
identifica, attraverso quei riti profondamente e intimamente sentiti, col suo Signore,
il quale, “maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello
condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la
sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge
per la sua sorte?” (Isaia 53, 7-8). Quei riti, per i Nojani tutti, sono
più di una semplice espressione della propria pietà popolare: sono un vero e
proprio memoriale. E il non poter in alcun modo esprimere quella loro
struggente pietà, è per essi mortificante.
Lo stesso dicasi dei bravi Barlettani, mestamente
rassegnati al fatto che, per l’emergenza covid-19, non vedranno questa volta sfilare
la lunghissima processione eucaristico-penitenziale del Venerdì Santo (v.
qui),
tanto sentita dall’intera popolazione, che con essa fa memoria della terribile
pestilenza del 1504. Forse non se ne dorranno quanti la trovano antiliturgica
o, come qualcuno molto impropriamente l’ha definita, “illiturgica”. E, invece, essa
è a pieno titolo liturgica, perché prolungamento, extra mœnia, della
solenne processione eucaristica del Giovedì Santo sera, a conclusione della
Messa in Cœna Domini. Infatti, come mi testimoniava un amico di
Barletta, conoscitore da vicino di quella suggestiva processione, nonché memoria
storica delle tradizioni barlettane, essa in origine si svolgeva la tarda
serata del Giovedì Santo; solo dalla metà del ’600, per ordine pubblico – a
motivo della mariuoleria, che si muoveva indisturbata, approfittando del
buio e delle case lasciate incustodite –, essa fu spostata al primo pomeriggio
del Venerdì Santo, esattamente in coincidenza con la pia pratica delle «Tre ore
di Agonia di N.S.G.C.». Ma, non per questo, perdendo il carattere liturgico. Per
essa, addirittura, l’allora arcivescovo titolare di Nazareth, Maffeo Barberini,
futuro papa Urbano VIII, compose il lungo e struggente canto dell’Ante
oculos, ancora oggi cantato dal clero, supportato dal popolo, che, in forma
litanica, risponde: «Miserere nostri, Domine; miserere nostri». Questo
mio amico, parlandomi del dolore suo e dei suoi concittadini della non
effettuazione della processione il Venerdì Santo, si augurava che almeno un
sacerdote, da solo, in quel giorno portasse processionalmente la pisside col
Santissimo Sacramento, nascosto sotto il velo omerale. Sarebbe un segno forte
della presenza in corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore, il quale
non abbandona il popolo dei suoi fedeli.
Ci sono dei particolari di quella plurisecolare
processione che mi hanno da subito impressionato: innanzitutto i quattro
giovani sacerdoti che portano a mano l’Urna contenente il Santissimo
Sacramento: indossano delle dalmatiche settecentesche, davvero uniche nel loro
genere: sono bicolore: rosso e nero: quasi un presagio dell’ultima riforma
della Settimana Santa (anno 1969), che per il Venerdì Santo ha stabilito la
mutazione dei colori liturgici: dal nero al rosso. Ma quel che colpisce di più
è che questi quattro sacerdoti svolgono la loro funzione di urniferari,
camminando per tutto il tragitto scalzi; e con essi i crociferi delle numerose
arciconfraternite e confraternite di Barletta e i turiferari. È un segno forte
della profonda devozione che tutti – ma proprio tutti – sentono… non solo il popolino.
E questo dice perché mai Barletta abbia dato alla Chiesa tantissime vocazioni sacerdotali
e religiose: tanto maschili, tanto femminili. Lo dico con cognizione di causa:
sin da bambino ho frequentato a Conversano la chiesa e il monastero di San
Cosma: una vera e propria enclave barlettana, le cui suore sono tutte figlie
spirituali di Don Ruggero M. Caputo, vissuto e morto a Barletta in concetto di
santità nel giugno 1980.
Fotografie tratte dalla processione del Venerdì santo del 2013. FONTE |
Quello di vedere in processione anche il clero
scalzo è un fatto a cui non si dà sufficiente risalto; quando, invece, andrebbe
sottolineato. Esattamente come si fa per il Venerabile Mons. Giuseppe Di Donna (1901-1952),
vescovo di Andria, il cui gesto di voler andare scalzo un anno alla processione
del Venerdì Santo, in segno di riparazione a un grave delitto commesso proprio
nella sua città episcopale, è rimasto famoso.
Il mio augurio è che tutte “le espressioni della
pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana
Santa e del Triduo Pasquale”, giustamente proibite in questo momento drammatico
di pandemia, non solo non subiscano una diminuzione d’affetto, ma che ne escano
ancor più rafforzate.
Con questo spirito, dunque, viviamo la Settimana
di Passione e la Settimana Santa.
Buona Pasqua.
Apprendiamo con non assai soddisfazione che a Barletta la tradizionale processione eucaristico-pentenziale, seppur in forma minimale, si è svolta. Tutto è andato come ci si augurava: l'arciprete del Capitolo della Concattedrale Santa Maria Maggiore, can. Francesco Fruscio, in piviale con la pisside del Santissimo sotto il velo omerale. Ad accompagnarlo per tutto il tragitto: l'arcivescovo di Trani al suo fianco, che recitava a voce alta le preghiere, un vigile urbano e, dietro, il sindaco con la candela in mano, a testimoniare la fede schietta di una intera comunità cittadina, nel rispetto della laicità dello Stato. Per le foto, v. Barletta Viva, 10.4.2020 e Barlettalive, 10.4.2020 |
Come sempre il prof. Abbruzzi, documentatissimo, ci riporta alle radici delle nostre espressioni di fede, facendocene cogliere il senso profondo che va al di là del mero folklore.
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