sabato 31 dicembre 2016

31 dicembre 1930-2016 - 86° anniversario dell'enciclica "Casti connubi" del Sommo Pontefice Pio XI

Un nostro amico ci ha ricordato un'importante ricorrenza odierna.
Il 31 dicembre 1930, infatti, Sua Santità Papa Pio XI, di v.m., pubblicava l’enciclica “Casti connubii” sul Matrimonio cristiano. Il Sommo Pontefice esponeva con chiarezza adamantina la vera dottrina di Gesù Cristo e della Chiesa sul Sacramento del Matrimonio, sui beni di esso, sui diritti e doveri degli sposi e sulla guerra che ad esso vien mossa dai nemici di Dio. Si condannavano infallibilmente l’abominevole delitto dell’aborto e le pratiche anticoncezionali.

Canto del "Te Deum"






Cf. Plenary Indulgence reminders: Te Deum on Dec. 31, Veni Creator on Jan. 1, in Rorate caeli, Dec. 31, 2016 


Viktor Mikhaylovich Vasnetsov, Dio degli eserciti, 1885

Vladimir Lukič Borovikovskij, Trinità con Dio Padre che contempla il Figlio morto, 1820 circa, Galleria di Stato Tretyakov, Mosca


Mikhail Vasiliev, Dio degli eserciti, XIX sec., Galleria di Stato Tretyakov, Mosca

venerdì 30 dicembre 2016

Contemplando il Presepio

Rilanciamo volentieri quest’articolo del prof. De Mattei sulla contemplazione e devozione del Presepio, che pure quest’anno, in occasione del Natale, è stato più volte profanato in tutta Italia (cfr. La notte di Natale presepi profanati in tutta Italia, in Corrispondenza romana, 28.12.2016). Ma l’aspetto drammatico è che quest’anno, a differenza di altri, le profanazioni sono avvenute, in misura maggiore, e forse più eclatante, persino da uomini del clero un tempo cattolico, nei fatti, però, veri atei o agnostici, presi dalla prurigine delle novità e del dialogocismo, dimentichi che il Presepe è ben più di una mera “sceneggiata” come vorrebbero i modernisti (cfr. Paolo Deotto, Basta con gli oltraggi al presepe!, in Riscossa cristiana, 10.12.2016; A Potenza il presepe islamico: Madonna col burqa sposata con Mustafa, in Imolaoggi, 23.12.2016; Nino Materi, "Maria nel mio presepe ha il burqa perché la religione è dialogo", in Il Giornale, 28.12.2016; Don Franco: “Maria nel mio presepe ha il burqa perché la religione è dialogo”, in DirettaNews24, 28.12.2016; Potenza. Il Presepe "islamico" con la "Madonna" velata, in blog MiL, Messa in latino, 28.12.2016; Il parroco: "Ecco perchè ho messo il burqa alla Madonna", in Libero, 28.12.2016; Camillo Langone, La Madonna del presepe con il burqa, in Il Foglio, 29.12.2016; Giuliano Guzzo, Via il presepe col burqa, ma la confusione resta, in blog Giulianoguzzo, 29.12.2016. Qui le foto della profanazione del presepe in chiave islamica).
Certo, se si riducesse il Presepio a mero momento emozionale ed artistico, potrebbero anche aver ragione i nostri a cercare forme artistiche vieppiù ardite. Ma il Presepio è questo? Certamente, una carica sentimentale ce l’ha; suscita indubbiamente dei sentimenti di tenerezza e di intima interiorità, ma ciò dipende dal fatto che esso riproduce visivamente il Mistero, cioè la nascita secondo la carne del Verbo di Dio incarnato, dinanzi al quale tutti dovrebbero stupire. Questi furono i sentimenti che mossero S. Francesco d’Assisi, allorché nel Natale del 1223, a Greccio, volle rappresentare la Natività nella Grotta, realizzando il primo Presepio.
Oggi, invece, perso il collegamento con questo Mistero, si perde anche il vero significato del Presepio, giungendosi anche a realizzarsi quelle forme estreme, che abbiamo segnalato.



"Presepe" dell'anno 2015 nel chiostro di Palazzo di Città del Comune di Corato (BA)


"Presepe" dell'anno 2016 nel chiostro di Palazzo di Città del Comune di Corato (BA)

Contemplando il Presepio

di Roberto de Mattei

La devozione al Santo Presepio è una devozione per tutti i tempi, ma particolarmente per quelli difficili in cui viviamo. Con la parola Presepio non intendiamo solo, nel senso stretto del termine, la mangiatoia in cui venne deposto Gesù Bambino, che si venera a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore, conosciuta per questo come S. Maria ad praesepem. Oggetto della nostra venerazione è il grande scenario della Natività di nostro Signore, come è stato rappresentato, da tanti devoti ed artisti nel corso dei secoli.
Lo scenario che contempliamo in amoroso silenzio ci presenta un evento che è, allo stesso tempo, storico ed eterno. È uno scenario storico, non mitico o fantasioso, perché rappresenta ciò che avvenne realmente, il 25 dicembre dell’anno 753, o 748, come sostengono alcuni, dalla fondazione di Roma, in un preciso luogo storico, una grotta di Betlemme, in Palestina. Rifiutiamo la distinzione modernista tra il Gesù storico e il Gesù della fede e affermiamo prima di tutto una verità storica. Su questo fondamento storico si appoggia la nostra fede, che è l’assenso razionale che prestiamo alle parole del Vangelo. A queste parole, divinamente ispirate, la Sacra Tradizione della Chiesa ha aggiunto altri elementi che concorrono ad offrirci il quadro completo di quanto avvenne a Betlemme tra il 25 dicembre e l’Epifania.
Lo scenario storico ha anche una sua esemplarità perenne. Davanti a noi non è solo la Sacra Famiglia, ma un microcosmo che dalla nuda terra della Grotta si estende al firmamento stellato. Tutta la natura inanimata rende gloria al suo Creatore con la sua sola presenza. Il bue, l’asinello e le pecore rappresentano il mondo animale che dà gloria al Signore attraverso la sua sottomissione all’uomo, re del creato. I Pastori e i Re Magi offrono l’immagine di una società gerarchicamente ordinata che converge nell’adorare Gesù.
I Cori Angelici, anch’essi gerarchicamente ordinati, adorano e riveriscono il loro Signore. Con il bagliore che irradiano e il tripudio dei loro canti, gli Angeli trasfigurano l’atmosfera. È grazie ad essi che la capanna si trasforma in una reggia, la paglia splende come oro purissimo, le pietre brillano come rari gioielli. Maria e Giuseppe al centro della scena, ci offrono il modello di un’assoluta conformità alla Volontà divina, di una perfetta adorazione del Mistero dell’Incarnazione, di un’unione mistica trasformante con l’uomo-Dio che diviene visibile. Gesù Cristo regna sulla mangiatoia, che è il suo trono di amore. Ma il mistero di amore è anche un mistero di giustizia.
Il Presepio, osserva il padre Nepveu è anche il Tribunale di Giustizia di Gesù, perché egli vi pronunzia la sentenza che un giorno sarà pronunziata contro il mondo: Vae Mundo (Mt 18, 7): guai a chi segue il mondo! Guai ai superbi, ai sensuali, agli effeminati, perché il loro è uno stato di opposizione allo stato di Gesù nel Presepio. Gesù nel Presepio è la Verità che dissipa le tenebre in cui sono immersi gli erranti; è la Via che conduce coloro che hanno perso il cammino; è la Vita che viene infusa in chi decade e muore.
Gesù sa ciò che noi non sappiamo, può ciò che noi non possiamo, ci muove a offrirgli quell’amore che vogliamo dargli, ma di cui non siamo capaci. Amiamo Gesù nel Presepio e amiamo il Presepio in Lui. Odiamo con quell’odio che significa radicale separazione dal male e totale unione al bene, tutti coloro che odiano il Presepio e vorrebbero bandirlo dalle nostre città e dalle nostre case. Combattiamo per difendere il Presepio perché combattiamo per difendere la Civiltà cristiana di cui il Presepio è modello.
Nel Presepio regna l’ordine, che è la retta disposizione delle cose, e perciò regna la pace, che è la tranquillità dell’ordine. Il Presepio si oppone al caos contemporaneo e prefigura l’ordine sacrale del Regno di Maria che la Madonna ha promesso a Fatima. Alla vigilia delle lotte che ci attendono nel 2017 il nostro cuore riposa in questi giorni nel Santo Presepio.

La luce delle menti

Sempre in tema, rilanciamo questo contributo di P. Vladimiro Caroli, in ideale continuazione con quello precedente del prof. Abbruzzi.

La luce delle menti

di P. Vladimiro Caroli O.P.

«È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà» (Tt 2, 11-12).

«Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9).

Di quale luce ha bisogno l’uomo in questo Natale? Infatti, il mondo oggi non ci insegna a cercare una luce da accogliere, ma ci dice che noi siamo già adulti e illuminati.
L’uomo del Natale di oggi, non ha bisogno della luce, perché tutto ciò che fa è già giusto, perché l’unica cosa necessaria è essere adulti e indipendenti da Dio. È questo il motivo per il quale Adamo diede il morso al boccone della sua caduta: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio» (Gn 3, 5). Ed è per questo che il mondo oggi pensa di avere già la luce e che non ci siano conseguenze buone o cattive nelle azioni degli uomini.
Ma non è questa la luce di cui l’uomo ha bisogno. Infatti, esiste un’empietà da rinnegare (cfr. Tt 2, 12) e una luce nuova da accogliere nella mente, una Luce apparsa a Natale per portare la Grazia e la Verità.
A dire il vero, una certa luce l’uomo l’ha ricevuta già quando fu creato, perché l’uomo è dotato di ragione ed essa è una luce. Infatti, solo in apparenza sembra che oggi nessuno si renda conto dell’esistenza di colpe da farsi perdonare davanti a Dio o pene da subire a causa delle proprie azioni cattive. Ma in realtà sappiamo ancora dire quando un albero è buono e fa frutti buoni. E sappiamo giudicare anche le azioni: riconosciamo, infatti, quando un’autista guida bene o da folle; riusciamo a distinguere, dunque, il bene dal male sia negli eventi fisici e naturali che in tutto ciò che dipende dall’uomo. E questi due tipi di male non sono uguali.
C’è il male che vediamo in un cane privo d’un occhio e questo lo si potrebbe chiamare peccato della natura, come lo chiamavano alcuni antichi e santi. E questo della natura è un peccato che è una pena, perché a quel cagnolino manca qualcosa… eppure non ha nessuna colpa, poverino.
In effetti è vero. Il punto è proprio questo: la colpa è un male diverso che non riguarda i peccati della natura, ma solo quelli fatti dall’uomo. Questo è quel male che San Paolo chiama «empietà» (Tt 2, 11) e che la grazia di Dio «apparsa» (ib.) a Betlemme ci insegna a rinnegare, perché la grazia intende guarirci dalla colpa e portarci così alla «salvezza» (ib.).
Ma la colpa, come detto, è un male diverso, esiste solo negli uomini ed è forse importante che ci sforziamo di ricordare una cosa: perché la colpa contraddistingue noi uomini rispetto alle altre creature?
Perché solo gli uomini si «accorgono di essere nudi» (Gn 3, 7), cioè che le loro azioni sono integre e senza difetti di produzione, oppure che mancano di qualcosa necessario a renderle integralmente buone. L’uomo è capace di ciò perché la Legge eterna ha posto nell’uomo un metro speciale e interno per misurare le proprie azioni. Questo metro è la ragione e l’uomo può misurare così i propri atti e vedere che sono buoni o mancanti. Neanche i grandi della terra sfuggono a questo metro. Disse, infatti, Dio a un grande re: «Sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante» (Dn 5, 27).
Giudice severo la ragione, specialmente quando si troverà davanti a Dio, perché la ragione davanti a Dio è come la luce degli occhi davanti a uno specchio purissimo.
Tuttavia, così come la ragione rimprovera l’uomo per le sue colpe, così lo loda quando agisce secondo la misura giusta e con azioni meritevoli. Perciò, gli uomini meritano o demeritano davanti a Dio.
Poiché, però, la ragione è un dono di Dio, il sommo metro di giudizio è Dio. Perché «ciò che di Dio si può conoscere» (Rm 1, 19) non soltanto Egli lo ha «manifestato» (ib.) nelle Sue «opere» (ib.), prima ancora che il Verbo si incarnasse a Betlemme; ma anche perché la ragione o «intelletto» (ib.) che Egli ci ha donato è capace di leggere dentro le opere da Lui create ricavarne un’idea di alcune «perfezioni invisibili» (ib.) di Dio, come la Sua Legge e la Sua «eterna potenza e divinità» (ib.). Solo così la ragione è una maestra e una regola naturale donataci da Dio con la creazione.
Ma oggi gli uomini si ricordano della ragione a puntate alterne. E così, quando compiono il male o quando i «re della terra» (Sal 2, 2) fanno leggi contro il ben dell’intelletto, costoro stanno nei fatti rifiutando di ascoltare la ragione umana e anche quella divina, allo stesso modo in cui uno squattrinato rifiuta di pensare ai creditori o un uomo assai ingrassato rifiuta la bilancia.
Al contrario, le persone si ricordano molto più volentieri di essere padrone e responsabili delle proprie azioni, quando ciò significa ricevere lodi per i meriti. Ma anche questo è a volte solo un modo «per essere lodati dagli uomini» (Mt. 6, 2). Sicché lo fanno per gli uomini e non per il bene della ragione e di CHI gliela donò. E così rischiano di allontanarsi dai beni dell’anima anche quando compiono azioni ragionevoli, perché le compiono agli occhi del mondo e non agli occhi di ciò che è bene davanti a Dio.
Oggi, allora, gli uomini accettano di ascoltare la ragione a puntate alterne. Che pena! È come se un cane si privasse di un occhio “a puntate”. Ma nel cane ogni male è un’imperfezione non voluta, perciò è una pena, ma non una colpa.
Per noi uomini invece non è così. Per questo il re Davide canta: «Non siate come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza; si piega la loro fierezza con morso e briglie, se no, a te non si avvicinano» (Sal 31, 9).
Ma c’è una notizia nuova in ogni Natale: dalla stirpe di Davide è nato un bimbo; il Verbo stesso di Dio si è fatto carne ed è apparsa per noi «la grazia di Dio […] che ci insegna a rinnegare l’empietà» (Tt 2, 11-12) e dona luce nuova alle menti e vera pace nel cuore.
Sarebbe davvero rischioso rifiutare anche questa Luce, che non è più solo naturale, come la nostra ragione, ma è una Luce di Grazia e di Verità.

Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio, Adorazione dei pastori, 1687, museo della Chiesa di S. Fedele, Milano

Jacques Stella, Adorazione degli angeli, 1635, Lione

Gerard van Honthorst (Gerrit van Honthorst) detto Gherardo delle Notti, Adorazione del Bambino Gesù, 1620 circa, Galleria degli Uffizi, Firenze

Gerard van Honthorst (Gerrit van Honthorst) detto Gherardo delle Notti, Adorazione dei Pastori, XVII sec., Pommersches Landesmuseum, Greifswald

Gerard van Honthorst (Gerrit van Honthorst) detto Gherardo delle Notti, Adorazione dei Pastori, XVII sec., collezione privata

Il Sol invictus e il “Prologo” di San Giovanni

Volentieri rilanciamo questo breve saggio del prof. Abbruzzi.

Il Sol invictus e il “Prologo” di San Giovanni

di Vito Abbruzzi

Ho già ampiamente trattato in due articoli precedenti la questione della nascita di Gesù Cristo, sostenendo la veridicità del 25 dicembre, coincidente con la festa pagana del Sol invictus (La vera data del Natale. Le falsità degli altri, in questo blog, 25.12.2010; La data (in)certa del Natale, ivi, 1.1.2013). Alle prove da me già portate se ne aggiunge ora un’altra molto interessante: quella del Prologo di San Giovanni, in cui leggiamo: «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta [et lux in tenebris lucet, et tenebræ eam non comprehenderunt]» (Gv 1, 5).
Come si può ben notare, la citazione è tratta dalla nuova traduzione ufficiale della Bibbia, approvata dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2008. Quantunque ci siano non poche riserve verso questa traduzione, alquanto infelice rispetto alla precedente del 1974, finalmente con essa si è resa giustizia al Prologo giovanneo in lingua italiana, utilizzando termini appropriati sotto il profilo semantico, e non più approssimativi, fonte di equivoci biblico-teologici. Nella Bibbia CEI del ’74, infatti, il brano sopra riportato è così tradotto: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta». A parte quel “ma” (congiunzione avversativa) inesistente, la frase così maldestramente tradotta sembra alludere alla lotta tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, quando, invece, quest’ultimo altro non è che «carenza del bene che si presenta come privazione: allo stesso modo che chiamiamo cecità la privazione della vista» (San Tommaso, Summa Theol., I, q. 48 art. 3). Le tenebre, dunque, come assenza di luce e non già come antagoniste di essa. Se, infatti, «la luce splende nelle tenebre», è più che logico che queste ultime non possano non accoglierla, o ammetterla (come erroneamente traduce anche l’autorevole Mons. Antonio Martini nel 1778): l’ammettono e basta; anzi fuggono alla vista di essa, come detto nella stessa Liturgia delle Ore: «Notte, tenebre e nebbia, fuggite: entra la luce, viene Cristo Signore. Il sole di giustizia trasfigura ed accende l’universo in attesa» (inno delle Lodi del mercoledì).
E, allora, è più che giusto ribadire la veridicità del fatto che «la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta», affermando la coincidenza – non affatto casuale – della nascita del Salvatore, quale vero Sol invictus, col solstizio d’inverno.
Se vale l’antico adagio “nomen est omen” (il nome è presagio), in Gesù, Salvatore, vale doppio con la ricorrenza del suo Natale il 25 dicembre, ricordando a ciascuno di noi che Egli è «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9).

Giovanni Antonio Santarelli, Bambinello Gesù, XVIII-XIX sec., Santuario, Manopello

Daniel Gran, Gloria del neonato Cristo in presenza di Dio Padre e dello Spirito Santo, XVIII sec.,  Annakirche, Vienna

martedì 27 dicembre 2016

Il Natale delle due Terese

Nella festa di S. Giovanni apostolo ed evangelista, rilanciamo questo contributo.

Ambito friulano, S. Giovanni evangelista, XIX sec., Udine

Ambito friulano, S. Giovanni evangelista tra le SS. Lucia ed Apollonia, XIX sec., Udine

Ambito veronese, SS. Rita da Cascia e Giovanni evangelista, 1890-1910, Verona

Sante Calcagni, S. Giovanni evangelista, XIX sec., Vicenza

Bernard Lemercier e Philippeaux, S. Giovanni evangelista, 1875-99, Bergamo

Bottega di Luigi Guacci, S. Giovanni evangelista, XIX sec., Avezzano

Il Natale delle due Terese

di Cristiana de Magistris

Non vi è cosa che riesca più difficile all’uomo moderno, il cosiddetto cattolico “adulto”, quanto esercitarsi nelle piccole virtù, nel silenzio e lontano dagli sguardi umani, avendo per testimone Dio solo. Non senza ragione il Signore volle darci il Suo esempio affinché più facilmente potessimo seguire questa via. Ecco perché è necessario tenere i nostri occhi per tutta la vita fissi sugli “abbassamenti di Betlemme”.
A questa scuola fu istruita la grande riformatrice del Carmelo, S. Teresa d’Avila, e ad essa volle che attingessero i figli e le figlie del Carmelo. Si racconta nella vita della Santa che un giorno, nel monastero dell’Incarnazione di Avila, mentre stava scendendo le scale, incontrò un bel bambino che le sorrideva. La Santa, sorpresa di vedere un bambino all’interno della clausura del Monastero, gli chiese: “E tu chi sei?”. Ma il bambino rispose con un’altra domanda: «E tu chi sei?». La Santa replicò: «Io sono Teresa di Gesù». Il Bambino, con un sorriso ampio e luminoso, le disse: «Io sono Gesù di Teresa».
A questo emblematico episodio si può far risalire la speciale devozione che la grande Riformatrice del Carmelo ebbe per l’Infanzia del Signore. In tutte le sue fondazioni non mancarono mai le statue di Gesù Bambino, delle quali la Santa ere particolarmente devota. Si tramanda che ne avesse diverse. Aveva, per esempio, un Bambino al quale ricorreva quando desiderava che piovesse o non piovesse; un altro a cui si rivolgeva quando doveva pagare dei debiti e non sapeva come pagarli, e così via.
Ognuno dei “suoi” Bambini aveva il suo compito! Voleva, inoltre, che le austerità del Carmelo durante il tempo natalizio fossero temperate e rallegrate con canti di esultanza e pie ricreazioni. Non solo. Per accrescere la gioia spirituale delle monache, la Santa soleva comporre versi da cantare portando in processione le statue della Madonna e di S. Giuseppe attraverso il Monastero. Una volta insegnò alle monache più anziane a cantare il ritornello di un canto da lei composto che diceva: Destatevi, Sorelle mie! Ecco viene la Vergine, che ha dato alla luce il suo Figlio e suo Dio. Piena di devozione e di gioia, la Santa chiedeva alle suore di dare ospitalità al Divin Bambino, alla Sua Santa Madre e al suo sposo S. Giuseppe, di cui era particolarmente devota.
La devozione della Santa al Divin Infante fu anche testimoniata da un miracolo, avvenuto nel Carmelo di Toledo, dove la statua del Piccolo Gesù – portata dalla Santa stessa in occasione della fondazione di quel Monastero nel 1569 – pianse quando la grande Riformatrice doveva lasciare il Monastero.
Così è scritto nel museo del convento che custodisce questo tesoro: «Il giorno 8 giugno 1580, Santa Teresa si congedava dalle sue religiose di Toledo per recarsi a Segovia. Il cuore naturalmente affettuoso della Santa soffriva molto in questi congedi, soprattutto quando pensava che non avrebbe rivisto le sue figlie. Quella volta né lei né le sue amate religiose si sbagliavano, perché tutte presentivano che la Madre era giunta al termine del suo viaggio terreno. Secondo una pia tradizione, perfino un’immagine del Bambino Gesù si associò al dolore delle monache, versando lacrime quando la Santa abbandonò il suo amato convento di Toledo. Da allora questa immagine viene chiamata con il soprannome affettuoso di ‘Niño Lloroncito’».
La devozione alla santa Infanzia si radica, dunque, nell’esperienza mistica della Riformatrice spagnola. Passando attraverso le figure di altre illustri figlie del Carmelo, come la Venerabile Margherita del SS. Sacramento (1619-1648), del Carmelo di Beaune, e Suor Maria di S. Pietro (1816-1848), del Carmelo di Tours, che contribuirono a sviluppare e diffondere tale devozione, essa approda infine al piccolo Fiore di Lisieux, S. Teresina, destinata dalla Provvidenza ad essere la Maestra della “Piccola Via”, sulle orme del Bambino di Betlemme. 
L’ascesa verso il monte della perfezione iniziò per la piccola Teresa in tenera età. Ma fu nel Natale del 1886 che, accogliendo nel suo cuore il Dio fattosi uomo, questa tenera fanciulla, che, come scrisse ella stessa, piangeva per dei nonnulla, sperimentò un radicale “cambiamento” della sua vita o, piuttosto, quella che definì la sua «completa conversione». «In un istante – scrisse – l’opera che non ero riuscita a fare in 10 anni, Gesù la fece accontentandosi della mia buona volontà».
Era la notte di Natale. Dopo la Messa di mezzanotte, nella quale aveva “avuto la felicità di ricevere il Dio forte e potente”, «Gesù, il Bambino piccolo e dolce, trasformò la notte dell’anima mia in torrenti di luce». Ripensando a quel momento, Teresa scrisse: «In quella notte nella quale Gesù si fece debole e sofferente per mio amore, Egli mi rese forte e coraggiosa».
Da quella notte Teresa camminò nella via del Signore con più lena e si sentì più sicura. «Dopo quella notte benedetta – ricorda –, non sono stata vinta in nessuna battaglia, ma ho camminato di vittoria in vittoria e ho iniziato, per così dire, una corsa da gigante».
Ogni anno festeggiava con la più grande devozione il 25 marzo – racconta la sorella Celina – perché, diceva, «questo è il giorno, nel quale Gesù, nel seno di Maria, è stato il più piccolo». Ma amava in modo del tutto particolare il mistero del presepe. È qui che il Bambino Gesù le rivelò tutti i suoi segreti sulla semplicità e sull’abbandono. Su immaginette natalizie che lei stessa dipingeva, scriveva con passione questa frase di san Bernardo: «Gesù, chi ti ha fatto così piccolo? L’amore!».
Il suo nome, Teresa del Bambino Gesù, che scelse fin dall’età di nove anni, resterà il suo costante programma di vita a cui si sforzò di restare fedele fino all’epilogo della sua breve vita. Più tardi, sotto un’immagine di Gesù Bambino scriverà questa frase: «O piccolo Bambino, mio unico tesoro, mi abbandono ai tuoi divini capricci, non voglio avere altra gioia che quella di farti sorridere. Imprimi in me le tue grazie e le tue virtù infantili, affinché il giorno della mia nascita al Cielo, gli angeli e i santi riconoscano nella tua piccola sposa: Teresa del Bambin Gesù».
È dal Bambino di Betlemme che la piccola Teresa attinse lo spirito d’infanzia, che era per lei soprattutto spirito d’umiltà e di piccolezza. Non perdeva occasione nella sua vita quotidiana al Carmelo per esercitarsi in questa “piccola via” e per istruirvi le altre.
Ecco come la sorella Celina sintetizza questa “via diretta per il Cielo”. Poiché la Santa si sentiva incapace di percorrere il duro cammino della perfezione, si sforzò di diventare sempre più piccola, affinché Dio si prendesse completamente cura delle sue cose, e la prendesse tra le sue braccia, come succede nelle famiglie per i bambini più piccoli. Voleva essere santa ma senza diventare grande, poiché, come le piccole malefatte dei bambini non fanno adirare i genitori, così le imperfezioni delle anime umili non possono offendere gravemente il buon Dio, e gli errori non saranno imputabili loro come colpa, secondo le parole della Scrittura: «Ai piccoli si perdona per pietà».
Di conseguenza si guardava bene dal desiderare di sentirsi perfetta e che gli altri la considerassero come tale, perché sarebbe cresciuta e Dio l’avrebbe lasciata camminare da sola. «I bambini non lavorano per farsi una posizione – diceva –; se sono saggi, lo fanno per far contenti i loro genitori. Allo stesso modo, non occorre lavorare per diventare santi, ma per fare piacere a Dio». “Forse – diceva a Celina – un padre sgrida il suo bambino quando egli si accusa da se stesso, o gli infligge un castigo? No davvero, ma se lo stringe al cuore».
E riportava la seguente storia ascoltata da bambina. Un re, in una partita di caccia, inseguiva un coniglio bianco, che i suoi cani erano sul punto di raggiungere, quando la bestiola, sentendosi perduta, ritornò indietro rapidamente e saltò tra le braccia del cacciatore. Costui, commosso da tanta fiducia, non volle più separasi dal coniglio bianco e non permetteva a nessuno di toccarlo, riservandosi di nutrirlo. «Così – commentava Teresa – il Buon Dio farà con noi se, perseguiti dalla giustizia figurata dai cani, cercheremo scampo nelle braccia stesse nel nostro Giudice!».
È tutta qui la sapienza della Santa di Lisieux. Essa consiste nel riconoscere, accettare, perfino amare la propria debolezza, senza tuttavia sottovalutare la corrispondenza personale. Essa non scusa il peccato ma vuole che, perdendo ogni illusione su se stessi, non confidando nei propri meriti, non appoggiandosi sulle proprie forze, l’anima si getti con slancio nell’amore misericordioso di Dio. La “piccola dottrina” della Santa di Lisieux non fa del peccato una semplice debolezza e della debolezza quasi una virtù, come spesso accade ai nostri giorni.
Tutt’altro. Le esigenze ascetiche della perfezione cristiana non subiscono nella sua “piccola via” alcun alleggerimento: non v’è in essa alcuna ombra di quietismo. «Occorre – diceva la Santa – fare tutto quello che è in noi, dare senza contare, rinunziare a sé costantemente, in una parola, provare il nostro amore con tutte le buone azioni in nostro potereMa, in verità, poiché tutto questo è poca cosa, è necessario confessarci servi inutili dopo aver fatto tutto quanto credevamo di dover fare, sperando tuttavia che il buon Dio ci darà per grazia tutto ciò che desideriamo. È quanto sperano le piccole anime che corrono sulla via dell’infanzia: dico corrono e non si riposano». Questo atteggiamento di povertà spirituale rende profittevoli anche le cadute. Scriveva: «I bambini cadono spesso, ma sono troppo piccoli per farsi un gran male».
Insegnava questa sapienza alle sue consorelle specialmente nel giorno di Natale quando – sull’esempio della sua Santa Madre – si industriava a scriver poemetti e ad organizzare pie ricreazioni, come quella nella quale un immaginario Angelo veniva a chiedere a ciascuna monaca di accogliere al Piccolo Gesù che, fattosi uomo, ha trovato sulla terra solo freddezza e indifferenza: «Le vostre carezze – cantava il messaggero celeste –, e lodi, e tenerezze, siano per il Bambinello! Bruciate d’amore, anime accese; ché un Dio s’è fatto mortale per voi. Stupendo mistero: chi vien mendicando è l’eterno Verbo! Sorelle mie, non temete, avvicinatevi, ed una ad una offrite a Gesù il vostro amore; saprete la sua santa volontà. V’insegnerò ciò che più brama il Bambinello in fasce, a voi che, pure come gli Angeli, avete in più che potete soffrire. Sempre, mai sempre, il vostro patire, e le gioie, siano per il Bambinello! Ardete d’amore, anime accese; ché un Dio s’è fatto mortale per voi. Stupendo mistero; chi vien mendicando è il Verbo eterno!».
Certamente – nota Celina – Teresa avrebbe gustato, se l’avesse conosciuta, questa preghiera di Bossuet: «Gran Dio… non lasciate giammai che alcuni spiriti, di cui alcuni si annoverano tra i dotti, altri tra gli spirituali, possano essere accusati al Vostro terribile tribunale di aver contribuito in qualche modo a chiuderVi l’accesso in non so quanti cuori, perché Voi volevate entrarvi in un modo la cui semplicità li urtava […]; piuttosto fate in modo che, diventando tutti piccoli come fanciulli, come Gesù Cristo comanda, noi possiamo entrare una buona volta per questa piccola porta, per poterla poi mostrare agli altri con più sicurezza e con più efficacia. Così sia».
Niente di strano se, alla sua ultima ora, questo grande prelato francese, che con la sua eloquenza aveva incantato intere platee, abbia pronunciato queste commoventi parole: «Se potessi ricominciare a vivere, non vorrei essere che un piccolo fanciullo che dà sempre la mano al Bambin Gesù».
È la lezione delle due Terese per questo Santo Natale.

Fonte: Corrispondenza romana, 21.12.2016

lunedì 26 dicembre 2016

Un Campari con... Giovanni Gasparro

Nella festa del Santo Protomartire Stefano, rilanciamo quest’intervista al nostro amico artista Giovanni Gasparro.

Ambito umbro-toscano, Lapidazione di S. Stefano, XVII sec., Città di Castello

Francesco Cappella, S. Stefano in atto di ricevere il martirio, 1761-65, Chiesa dei SS. Bartolomeo e Stefano, Bergamo

Ambito emiliano, Martirio di S. Stefano, XIX sec., Bologna

Giovanni Battista Epis, Martirio di S. Stefano, 1852, chiesa di S. Stefano, Villa di Serio

Un Campari con ... Giovanni Gasparro

a cura di Alessandro Rico 

Giovanni Gasparro è nato a Bari, ha studiato al liceo artistico ‘De Nittis’, si è diplomato nel 2007 all’Accademia di belle arti di Roma in pittura. Di lui Vittorio Sgarbi dice “giovane valentissimo con una carica di passione e di vitalità che lo ha portato a dipingere 18 pale, prove di un impegno formidabile. Per San Giuseppe Artigiano la scelta di un autore figurativo è la prova di una visione liturgica ed estetica in ordine agli scritti di Papa Benedetto XVI che indicano in modo molto chiaro quale debba essere la funzione delle opere d’arte in una chiesa: una funzione eminentemente liturgica”. Incuriositi dal fatto che esista un artista sacro contemporaneo, lo abbiamo intervistato.

Esordiamo chiedendoti non, banalmente, cosa è per te l’arte, ma cosa è oggettivamente l’arte. 

L’arte è una delle manifestazioni più nobili che distingue l’uomo dalla bestia. È l’insieme codificato di tutte le capacità creative che esprimono la natura del pensiero in forme visibili, sonore, performative e testimoniano l’essenza del tempo in cui sono state concepite. Non a caso l’immagine di un “fondo oro” rimanda inevitabilmente ad un contesto di Sancta Dei Civitas medioevale italiana, tanto quanto la musica di Offenbach è prepotentemente identitaria e diviene paradigma perfetto della società francese della fine XIX secolo. L’evoluzione del pensiero critico che ha declinato il senso di tèchne, ovvero il complesso di regole e codici atti a rappresentare un dato naturale e realistico, in una creazione che sia l’espressione originale dell’artista, è alla base della concezione attuale delle arti e dell’evoluzione del concetto del “bello”, nelle sue differenti teorizzazioni ed espressioni estetiche, così difformi a seconda dei contesti spazio-temporali.

Perché nell’era contemporanea l’arte è così decaduta?

Il decadimento estetico contemporaneo è connaturato con il decadimento morale ed il rinnegamento di Dio, perpetrato in forme embrionali sin dal XVI secolo, ed evolvendo nel pensiero di Lutero e Calvino, Diderot e Voltaire, Kant ed Hegel, sino alle forme più abominevoli e triviali della nostra età.
Il “bello” per come lo concepiscono ancora gli spiriti nobili, è l’espressione dello splendore del vero e del bene. San Tommaso d’Aquino, nel solco del pensiero aristotelico, intuisce che ciò che è presente nell’intelletto è necessariamente percepito sensorialmente, in prima istanza. A differenza degli animali, l’uomo è in grado di saggiare le delizie della bellezza, riconducendole ad un senso più alto, ovvero a Dio. Nella Summa Theologiae identifica il bello come la sintesi di vero e di bene. Verum, bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza. Questi sono i caratteri costitutivi del Dio dei cattolici, inteso come Divina perfezione, e per l’appunto la somma di ogni bellezza, verità e bontà. Una società che rifiuta Dio, inevitabilmente, rifiuta la Bellezza più autentica, ed essendo l’arte l’espressione dell’epoca che la produce, oggi non si può che assistere a questo decadimento. Il sistema ideologico postmoderno, tanto quanto quello truffaldino di complicità fra critica e mercato dell’arte, hanno inaugurato la stagione del De Immundo, per dirla come Jean Clair.

Nella maggior parte delle tue opere hai scelto di trattare il tema del sacro. È possibile, nell’era del secolarismo, produrre arte sacra, cioè dipinti e decorazioni che non abbiano solo un valore strumentale, ma assoluto?

L’arte dovrebbe avere sempre, in senso costitutivo, questo anelito all’assoluto. Dirò di più, oggi si evita persino la creazione di manufatti artistici che possano durare nel tempo perché concepiti con materiali effimeri. Si è scelto in modo programmatico di impedire ad essi di avere una durata temporale più estesa di qualche stagione. Non lasceremo molto ai posteri. In questo panorama desolato, partorito dopo lo spartiacque del ready-made di Marcel Duchamp, è ancora possibile produrre arte sacra. È un dovere morale. Posso certamente testimoniare le difficoltà di inserirsi in un sistema espositivo, mecenatizio, storico-critico, commerciale, ma in termini estetici ed intellettuali, con ricadute inevitabilmente spirituali, è doveroso sfidare il secolarismo imperante con una nuova stagione d’arte sacra. La avverto come una sorta di missione per scardinare il sistema. È la mia personale controrivoluzione. Va detto che per arte sacra si intende l’arte concepita per un contesto liturgico, quindi per le chiese, sicché va distinta dall’arte di ispirazione religiosa in senso lato. Ne consegue che le problematiche restano correlate alle richieste della committenza tanto quanto alla sensibilità delle maestranze artistiche.

Nei tuoi quadri raffiguri i soggetti rappresentando diverse posture delle loro mani, quasi come in una fotografia scattata in movimento. Che cosa vuoi comunicare? Che ruolo hanno per te le mani nell’espressione artistica?

Le mani sono idealmente portatrici di un linguaggio non verbale, strumentale nella resa pittorica che si esprime per figure.
Nei miei dipinti sono ripetute in modo multiforme, rimandando idealmente ad antiche iconografie sacre del XV secolo, dalla Pietà di Lorenzo Monaco del 1404 e quella del Maestro della Madonna Strauss, entrambe nelle collezioni delle Gallerie dell’Accademia di Firenze, Il Cristo in Pietà nel pannello centrale del trittico di Domenico di Michelino al Musée des Beaux-Arts di Chambéry o il Cristo deriso fra san Domenico e la santa Vergine in meditazione della cella numero sette nel convento di San Marco a Firenze, opera ad affresco del Beato Angelico. 
Molti storici dell’arte hanno evidenziato il legame estetico con il Futurismo. Se per Balla e Boccioni la moltiplicazione delle figure era puro esercizio ed analisi meccanica del movimento dei corpi, per la mia pittura, la frammentarietà e la moltiplicazione connotano una percezione spirituale diversificata più che una analisi fisica del movimento. I futuristi avevano il culto del progresso e della macchina. La mia latria è riservata a Dio.

Della decadenza dell’arte contemporanea fa parte, purtroppo, anche l’arte sacra, spesso e volentieri con il consenso della Chiesa stessa, che autorizza la realizzazione di edifici orrendi, o impiega arredi e oggetti sgraziati e dozzinali. Quali sono le cause di questa involuzione? Il Concilio Vaticano II ha una responsabilità?

La Chiesa cattolica, negli ultimi cinquant’anni, si è mondanizzata in modo preoccupante. Come appena detto, se l’arte è l’espressione e la proposizione figurata della cultura della società che l’ha generata, l’arte sacra è la traslazione in figura della Chiesa che l’ha commissionata. Quello che sperimentiamo in modo tangibile, in questi ultimi decenni, è un progressivo processo di protestantizzazione in campo dottrinale, liturgico, pastorale. La deriva ecumenico-sincretista, l’incredulità malcelata riguardo la Presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo nelle Sacre Specie, davanti alle quali non ci si inginocchia più, si traduce chiaramente nelle nuove forme artistiche e negli “adeguamenti liturgici” scellerati seguiti alla riforma liturgica di Paolo VI e Bugnini, rei di aver snaturato centinaia di presbitèri e altari antichi, sacrificato balaustre ed inginocchiatoi. 
Le architetture tradiscono una chiara volontà di protestantizzare il culto e la liturgia cattolica. In numerose chiese dove si è proceduto con adeguamenti liturgici o in quelle costruite negli ultimi anni, soprattutto in area belga, tedesca ed austriaca, ma ormai anche in Francia, Italia (chiesa di San Fedele a Milano, chiesa del “monastero” di Bose) e Spagna, gli altari sono posti al centro, sottendendo un concetto luterano di “sacerdozio universale”. L’altare assume la foggia di tavolo perché non è più concepito come ara sacrificale per il sacrificio incruento di Cristo che si rinnova nella Santa Messa. Diviene una mensa per la cena, nell’accezione analoga a quella del porcus saxoniaeNelle arti figurative, la Chiesa ha sposato l’aniconismo più estremo, spogliando le cappelle delle immagini che in passato avevano anche una funzione chiaramente didattica e catechetica, traducendo in figura le Verità rivelate dei Testi sacri. La biblia pauperum ha lasciato il posto a Croci senza il Santo Corpo di Nostro Signore. Eppure la Chiesa cattolica, sin dal secondo Concilio di Nicea, nel 787 d.C., ha inteso ribadire che le immagini sacre sono elementi irrinunciabili della devozione, non certamente come oggetto del culto (latria), ma come strumento di ausilio ad essa. Lo hanno ribadito numerosi santi e romani Pontefici. La stessa incarnazione di Nostro Signore legittima la riproposizione visibile, in forme d’arte, della Sua immagine. Il Cattolicesimo è l’unica religione monoteista che ha un marcato senso iconico, a contrario dell’Ebraismo e dell’Islam e delle varie sette ereticali protestanti. Per questo siamo debitori verso il Cattolicesimo, altrimenti non avremmo avuto né Ghiberti, né Michelangelo né Francesco Solimena.
Le arti sacre sono sempre state un valido strumento di proselitismo, per la salvezza delle anime, ispirando un autentico sensu fidei. Capirà che da quando lo stesso concetto di proselitismo è stato derubricato, tacciandolo addirittura di essere “il veleno più forte verso l’ecumenismo”, dalle più alte gerarchie cattoliche, che senso mai potrà avere l’arte sacra se non quello di diventare arredo alla stregua del design? L’arte cattolica, come le Verità rivelate, dovranno essere sacrificate al nuovo culto sincretista, lodato dai poteri forti.
Il Concilio Vaticano II, pur essendo un concilio pastorale e non dogmatico, ha assunto, nella mentalità del clero attuale, i connotati di un superdogma che azzera tutto il Magistero e la Tradizione. Chiaramente, non ha suggerito esplicitamente di rinnegare le forme artistiche del passato per convertirle nelle attuali soluzioni controverse. Ad ogni modo ha numerose responsabilità intrinseche, sia come evento storico che nei contenuti dei documenti prodotti. Nei testi conciliari, i cenni alle questioni artistiche ed iconografiche sono esigui, ma come la gran parte delle costituzioni e degli altri documenti partoriti nell’assise, il linguaggio è ambiguo, demandando a terzi le responsabilità delle scelte da operare. I pronunciamenti immediatamente precedenti di San Pio X, Pio XI e Pio XII, riguardo le arti e la musica sacra, mostrano chiaramente che il problema del Vaticano II è riferibile al linguaggio non definitorio, più che ad un’annosa questione ermeneutica. Se un pronunciamento non intende definire, lascia inevitabilmente spazio all’arbitrio, generando l’anarchia. I risultati in termini estetici sono sotto gli occhi di tutti. Persino le frange moderniste, all’interno della Chiesa, si mostrano perplesse dinanzi allo scempio di certe architetture o cicli decorativi. Dai frutti valutiamo gli intenti primigeni conciliari.
Nella contemporaneità, molte forme d’arte sacra hanno assunto valenze gnostiche, al pari di certe teologie osannate da stampa, università, editoria, omelietica e catechesi parrocchiali sedicenti cattoliche. Ovviamente l’arte sacra può evolvere in senso iconografico e stilistico. I secoli passati hanno sedimentato opere d’arte sacra notevolmente diverse. Il Cattolicesimo non ha imposto la fissità iconografica dell’oriente ortodosso che produce ancora oggi icone aderenti ai caratteri formali dei primi secoli. Nella storia dell’arte sacra cattolica c’è evoluzione stilistica ma senza rinunciare alle prerogative formali iconiche che facilitino l’azione cultuale, le esigenze catechetiche e l’adesione alle sacre scritture. Oggi gli artisti sono abbandonati ad un culto autoreferenziale della propria arte, a cui le esigenze del sacro debbano soggiacere. La committenza ecclesiastica, ridestatasi iconoclasta o al massimo filo-bizantina (le icone moderne appaiono ormai in ogni chiesa), appare lassista, talvolta per ignoranza o senso di inferiorità verso gli artisti (in seminario non si studiano più queste discipline), in altri casi per non apparire arroccata su posizioni rigide. Il più delle volte disattende al proprio compito di guida, ahimè, per malafede. Ringraziando il Signore, non mancano sacerdoti e vescovi ancora virtuosi per Fede e cultura. 

Qual è la funzione della bellezza nella liturgia? C’è la speranza che il rito torni a essere bello e non sciatto, disordinato, popolato di schitarrate e cori stonati? 

San Giovanni Maria Vianney, patrono e modello dei sacerdoti, come San Carlo Borromeo e San Pio da Pietrelcina, sceglievano i vasi sacri ed i paramenti più belli e preziosi da usare nella liturgia, pur vivendo, in privato, volutamente, ai limiti dell’indigenza, perché erano coscienti che questo fosse giusto come atto di lode a Dio, nel momento più sacro, del Sacrificio eucaristico. Allo stesso modo, questa scelta appariva loro come uno strumento di elevazione spirituale per i fedeli, perché enfatizzava l’importanza e la sacralità dell’atto compiuto sull’altare, aiutandoli a comprendere questioni dogmatiche più complesse da intuire
La sciatteria ed il pressapochismo che accompagnano le liturgie postconciliari, sono al limite della blasfemia perché sottendono un diniego sostanziale del Sacramento che si celebra.
Questo fenomeno estraneo alla Tradizione bimillenaria della Chiesa è conosciuto come Pauperismo, l’antica eresia condannata sin dai tempi dalla Chiesa dei Santi Apostoli e persino da quel San Francesco d’Assisi che imponeva, nella Regola ad uso dei frati, di usare “calici e pissidi preziose” per custodire le Sacre Specie. Cosa direbbe oggi il santo umbro dei tabernacoli costruiti nelle forme più improbabili o delle pissidi in terracotta e legno? Cosa potrebbe pensare dei paramenti dozzinali e dei bicchieri di plastica usati come pissidi nelle Messe, alla presenza di Papa Francesco, celebrate per la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, lui che faceva ricamare i paramenti in filo d’oro dalle clarisse?
Ad ogni modo, sbaglierebbero quanti volessero individuare nel periodo dell’attuale pontificato, l’unica nota dolente in termini dottrinali piuttosto che liturgici.
La deriva attuale è il naturale punto d’approdo di un percorso di secolarizzazione della Chiesa, che ha avuto come imput epocale proprio il Concilio Vaticano II (serpeggiando clandestinamente anche prima del Concilio, nelle frange moderniste) e si è sviluppato a fasi alterne, con note più o meno dolenti, durante tutti i pontificati post-conciliari. 
Lex orandi, lex credendiSe è vero che il modo in cui preghiamo tradisce ed estrinseca quello in cui crediamo, la nostra Fede dev’essere diventata alquanto carnascialesca
Personalmente, ho riscoperto una devozione più autentica proprio da quando ho cercato una liturgia che fosse un ausilio all’orazione. Nel panorama attuale, fortemente diversificato, in cui ogni sacerdote inventa azioni liturgiche arbitrarie, ho scoperto nel santo rigore del Messale di San Pio V, una fonte inesauribile per appagare questo mio afflato trascendente. Il Vetus Ordo Missae, in latino, mai abrogato dalla Chiesa Cattolica, purtroppo pesantemente osteggiato e vilipeso con l’avvento della Messa di Paolo VI, ha ridestato la Fede di moltissimi cattolici, perlopiù giovani, dal 2007, anno del Motu Proprio Summorum Pontificum, con cui Benedetto XVI ribadì la legittimità all’antico rito.
Evito digressioni in ambito musicale perché non mi competono, ma ovviamente, la questione è sostanzialmente analoga a quella del decadimento delle arti figurative. Se per Aristotele, ne La politica, “Talune forme di musica rendono ignobili”, a maggior ragione durante la Santa Messa, da quando si è abbandonato il repertorio sublime del gregoriano e della polifonia, come l’uso dell’organo, così intrinsecamente aderenti al Messale di San Pio V, lo scadimento nella trivialità delle canzonette di derivazione pop non poteva che giungere al suo livello più infimo.