domenica 12 giugno 2016

Sant’Antonio da Padova campione della fede

Nella vigilia della festa del grande Santo Dottore di Padova, rilanciamo questo contributo di Cristina Siccardi, pubblicato alcuni giorni fa su Corrispondenza romana.

Antonio d'Enrico detto Tanzio da Varallo, S. Antonio da Padova con aspetto adolescente, 1616-18 circa, Pinacoteca civica, Varallo Sesia


Sant’Antonio da Padova campione della fede

di Cristina Siccardi

Fra alcuni giorni, il 13 giugno, sarà la festa di sant’Antonio da Padova, francescano e Dottore della Chiesa: memoria e devozione utili in questi nostri tempi di remissività ecclesiastica all’errore. Ma se la Chiesa annovera un campione della fede come sant’Antonio (Lisbona, 15 agosto 1195 – Padova, 13 giugno 1231) lo si deve proprio alla volontà di san Francesco di convertire le genti e non lasciarle nella menzogna.
Era il 1219 quando il Santo di Assisi organizzò una spedizione missionaria fra i musulmani. Per portare la Buona Novella furono scelti Berardo, Ottone, Pietro, Accursio, Adiuto, i primi tre erano sacerdoti, gli altri erano due fratelli laici. Originari delle terre ternane, furono fra i primi ad abbracciare la vita minoritica, ma furono anche i protomartiri dell’Ordine francescano.
La loro opera di predicazione si svolse nelle moschee di Siviglia, in Spagna. Vennero però catturati, malmenati e condotti davanti al sultano Almohade Muhammad al-Nasir, detto Miramolino; in seguito furono trasferiti in Marocco con l’ordine di non predicare più in nome di Cristo. Nonostante questo divieto i cinque francescani continuarono a diffondere la Verità portata da Gesù Cristo e per tale ragione furono nuovamente imprigionati. Dopo essere stati sottoposti più volte alla fustigazione, furono decapitati il 16 gennaio 1220.
Le loro salme vennero trasferite a Coimbra. Fu allora che Fernando Martins de Bulhões, che aveva precedentemente conosciuto i martiri durante il loro passaggio in Portogallo per essere diretti in Marocco, prese la decisione di entrare tra i Francescani. E divenne Fra’ Antonio, guida mirabile, potente predicatore, convertitore di un numero incalcolabile di anime. Ma il suo segreto era ciò che egli stesso consigliava: «Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L’amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi.».
Senza sosta e forte nel Vangelo, esortava alla pace, alla mitezza, all’umiltà, trattando con particolare severità coloro che chiamava «cani muti», ovvero i detentori del potere e i notabili, che avrebbero dovuto guidare e proteggere le popolazioni, ma presi dai loro interessi economici e mondani non se curavano. Nei Sermoni Fra’ Antonio scriverà: «La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo».
Questo egli insegnava, ma ciò, oggi, scandalizza anche molti pastori della Chiesa, spesso proni e succubi delle follie e dei malesseri del mondo, causati da ideologie materialistiche, contrarie non solo a Dio, ma alla natura del creato e dell’uomo stesso.
Il Santo moralizzò la società, ma fondamentale fu anche la sua predicazione contro i cristiani eterodossi. A quel tempo i movimenti ereticali più importanti erano i Catari (che significa «i puri»), detti anche Albigesi (dal nome della città di Albi, nella Francia meridionale) e i Patarini, diffusi in Lombardia. Essi si caratterizzavano per un profondo desiderio di rinnovamento spirituale, ma la direzione intrapresa era erronea: avevano una visione del Messia come creatura più divina che umana, inoltre erano ostili alle cose terrene, compreso il potere temporale del papato. Non sapevano perciò armonizzare spiritualità e materia, come è proprio del Cattolicesimo.
Di rinnovamento spirituale, nella Chiesa di quel tempo, ce n’era un gran bisogno, ma se da una parte erano emerse le esasperazioni degli eretici che combattevano contro quella Chiesa, posizionandosi dunque al di fuori di essa con ira e livore, dall’altro il Francescanesimo riuscì a rinnovare positivamente e con metodi cattolici quella stessa Chiesa che si era macchiata di errori umani, e lo fece modificandola dall’interno. È proprio nei momenti in cui la Chiesa è in crisi e ha bisogno di essere rivitalizzata che arrivano i rivoluzionari che vogliono smantellare il passato per fare tutto nuovo. Ma il sano rinnovamento poggia il suo stabile perno sulla rocca della Tradizione, unico riferimento, come afferma San Paolo, per trasmettere ciò che i primi Apostoli ricevettero dal fondatore della Chiesa.
Sant’Antonio era molto abile nello smontare le eresie anticattoliche: oltre ad una valente dialettica, possedeva intelligenza, acume e lungimiranza, dimostrando come la riflessione teologica e antieretica era impossibile senza solide basi dottrinali; proprio per tale motivo insistette per ottenere la fondazione, nel 1223, del primo studentato teologico francescano a Bologna, presso il convento di Santa Maria della Pugliola. San Francesco, che pure aveva sperato che la preghiera e la dedizione potessero essere sufficienti per la rigenerazione benefica della Chiesa, si trovò ad approvare l’iniziativa del confratello, che diede un volto dotto all’Ordine: «A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com’è prescritto nella regola».
Terra di predicazione antieretica per Sant’Antonio fu anche la Francia, dove egli giunse nel tardo autunno del 1224, e qui rimase un paio di anni: Provenza, Linguadoca, Guascogna le regioni principali della sua seminagione miracolosa. Mentre gli intellettuali ammiravano in lui l’acutezza dell’ingegno e la bella eloquenza, la sua genuina amabilità recuperava gli erranti, portandoli al pentimento.
Nel novembre del 1225 Fra’ Antonio partecipò al Sinodo di Bourges, convocato dal primate d’Aquitania per valutare la situazione della Chiesa oltralpe e per pacificare le regioni meridionali. All’arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, il Santo, invitato quel giorno a predicare, dichiarò: «Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale… L’esempio della vita dev’essere l’arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna». Quell’Arcivescovo, riportano le cronache, chiese ad Antonio di confessarlo.
Il Provinciale della Provenza, Giovanni Bonelli da Firenze, lo nominò prima Guardiano del convento di Le Puy-en-Velay e poi Custode (Superiore) di un nucleo di conventi intorno a Limoges. Un anno dopo la morte di San Francesco raggiunse Assisi: era il 30 maggio 1227, festa di Pentecoste e giorno d’apertura del Capitolo Generale dell’Ordine, nel quale si doveva eleggere il successore del Santo stigmatizzato. Molti prevedevano l’elezione di frate Elia, Vicario generale di Francesco e missionario in Oriente. Ma il suo temperamento era troppo focoso e così venne preferito il più prudente frate Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna. Quest’ultimo aveva accolto Fra’ Antonio nell’Ordine, stimandolo molto decise di nominarlo Ministro provinciale per l’Italia settentrionale, la seconda carica per importanza dopo la sua. Fu così che Sant’Antonio prese dimora a Padova, dove il suo culto è rimasto vivissimo.
La Basilica di Padova, dove tutto parla di Sant’Antonio e dove vi si recano ogni anno 6 milioni di pellegrini, è maestosa per bellezza e dimensioni, per ricchezze d’arte e per patrimonio catechetico. Così, anche quando narrazioni e spiegazioni non vengono fatte a causa di un dirottamento ideologico acattolico a vantaggio del rispetto umano, architetture, marmi e dipinti sostituiscono le manchevolezze dei responsabili dell’ignoranza religiosa odierna.
Nessuno può restare indifferente di fronte ad opere sublimi come l’Altare maggiore e il presbiterio, dominati dai capolavori di Donatello o come la Cappella dell’Arca, dove vi hanno lavorato i maggiori scultori veneti del Rinascimento (lungo le pareti sono disposti nove rilievi marmorei, con scene della vita e miracoli di Sant’Antonio, mentre al centro sorge l’altare-sepolcro del Santo), oppure come la Cappella del Beato Luca (che si apre nella parete nord della Cappella della Madonna: il Beato Luca da Padova fu discepolo e compagno di Sant’Antonio e probabilmente fu promotore della costruzione della Basilica), o ancora come la Cappella delle reliquie o del tesoro, eretta nel XVII secolo in stile barocco su progetto dell’architetto scultore Filippo Parodi: nelle tre nicchie sono esposti reliquiari, calici, ex voto, autografi di Santi…nella nicchia centrale, in uno spettacolare reliquiario dell’orefice Giuliano da Firenze (1436) è conservata la lingua incorrotta di Sant’Antonio e sotto di esso si trova il reliquiario di Balljana (1981), che custodisce l’apparato vocale del Santo, ritrovato nell’ultima ricognizione.
Le parole che uscivano dalla sua bocca erano richiamo prodigioso per le folle che riempivano le chiese e le piazze. Tra predicazioni ad libitum e molteplici ore nel confessionale, il frate taumaturgo compiva lunghi digiuni e lunghe adorazioni. La sua umiltà e il suo reale amore per Cristo, così come era accaduto per San Francesco, portarono ordine nella Chiesa, che riprese ad essere faro sicuro anche per molte anime che erano entrate in dolorosa e talvolta esacerbata o cinica confusione.

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