sabato 28 marzo 2015

È lecito ad un cristiano partecipare attivamente a riti non cattolici, come ad es., la c.d. pasqua ebraica? - 2° parte

Prima parte pubblicata QUI

4. A suggello di quanto in precedenza ricordato può farsi riferimento al Magistero della Chiesa.
Il punto di partenza non può non essere costituito da alcuni Concili, essenzialmente locali, svoltisi nei primi secoli di vita della Chiesa.
Nel Concilio di Elvira, così, furono stabilite alcune disposizioni riguardanti i rapporti dei cristiani con gli ebrei, proibendosi i matrimoni misti tra cristiani e giudei, il pranzo con i giudei e si condannarono duramente gli adulteri che si registravano tra cristiani e donne giudee (cann. 16, 50, 78, in J. D. MansiSacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Graz, 1960, II, pp. 8; 14; 18. Cfr. A. M. RabelloGiustiniano, Ebrei e samaritani alla luce delle fonti storico-letterarie, ecclesiastiche e giuridiche, vol. I, Milano 1987, pp. 65-66). Nel Concilio di Antiochia, i Padri conciliari proibirono ai cristiani di pranzare con gli ebrei durante la Pasqua (can. 1, in Mansiop. cit., II, p. 1307). A Laodicea, in apposito concilio, si proibì ai cristiani il riposo durante il sabato – secondo l’uso ebraico; nonché la celebrazione delle feste giudaiche e la consumazione di pane azzimo durante la Pasqua (cann. 29, 37, 38, in Mansiop. cit., II, pp. 569; 572). I Concili di Orléans, poi, facevano riferimento, con riprovazione, ad individui che avevano persuaso i cristiani a festeggiare il giorno del Signore alla maniera giudaica e ad astenersi da ogni opera (cann. 19, a. 533); 14 e 33, a. 538); 30 e 31, a. 541).
Nel secondo Millennio, vi è un ulteriore e chiaro pronunciamento nel Concilio di Firenze, sotto papa Eugenio IV, nella Bolla Cantate Domino sull’unione con i copti (giacobiti) e gli etiopi, del 4 febbraio 1442 (o 1441 secondo la datazione fiorentina).
In tale documento, che ha indubbio valore dogmatico, il Concilio esaminava specificatamente la situazione di quelle popolazioni che, benché cristiane monofisite, erano ancora legate a certe prescrizioni giudaiche (seguendo in ciò l’eresia di Paolo di Samosata: cfr. EusebioHistoria ecclesiastica, 7, 30, in PG, XX, col. 709-711), sebbene non riponessero in queste alcuna speranza di salvezza né vi ricollegassero un valore salvifico. In special modo, queste erano aduse praticare la circoncisione: usanza molto radicata in Africa e dura a morire ancor oggi in quelle regioni.
Ecco quanto prescriveva il Concilio: «La Chiesa crede fermamente, professa e insegna che le prescrizioni legali dell’Antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, sacrifici sacri e sacramenti, proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché adeguate al culto divino in quell’epoca, dal momento che è venuto il nostro Signore Gesù Cristo, da esse prefigurato, sono cessate e sono cominciati i sacramenti della nuova alleanza. Essa insegna che pecca mortalmente chiunque ripone, anche dopo la passione, la propria speranza in quelle prescrizioni legali e le osserva quasi fossero necessarie alla salvezza, e la fede nel Cristo non potesse salvare senza di esse. La Chiesa non nega tuttavia che nel tempo che intercorre tra la passione del Cristo e la promulgazione dell’Evangelo, esse potessero osservarsi, anche se non fossero ritenute necessarie alla salvezza. Ma dopo l’annuncio del Vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna» (H. DenzingerEnchiridion Symbolorum – definitionum et declarationum de rebus fidei et morum 37, a cura di P. Hünermann, Bologna, 19962, n. 1348).
Il Concilio, dunque, affermava solennemente che l’ebraismo veterotestamentario conosceva dei sacramenti, la cui caratteristica è di agire ex operae operato, vale a dire a prescindere dalla condizione soggettiva e dalla fede di chi l’amministra. Questi sacramenti furono sostituiti da quelli della Nuova ed Eterna Alleanza.
Congregazione generale del Concilio di Trento
nella chiesa di S. Maria Maggiore
,
Castello del Buonconsiglio, Trento
Il Concilio di Trento nella XXII sessione del 17 settembre 1562 chiaramente affermava questa verità con specifico riguardo all’Eucaristia: «Questa [cioè l’offerta della Nuova Alleanza, ndr.] … era raffigurata da diversi tipi di sacrifici: essa che raccoglie in sé tutti i beni significati da quei sacrifici, come perfezionamento e compimento di tutti quelli» (H. Denzingerop. cit., n. 1742).
Lo stesso Concilio di Firenze, nella Bolla Exsultate Domino, sull’Unione con gli armeni, del 22 novembre 1439, affermava che i sacramenti dell’antica legge «non producevano la grazia, ma prefiguravano soltanto che questa sarebbe stata concessa per la passione di Cristo» (ibidem, n. 1310). A differenza di essi, quelli della Nuova Alleanza «contengono in sé la grazia» e la «comunicano a chi li riceve degnamente» (ibidem). Cfr. però S. Tommaso d’AquinoSumma Theol., III, q. 62, a. 6; ibidem, q. 70, a. 4, per il quale «nella circoncisione, quale segno della futura passione di Cristo, veniva conferita la grazia … in quanto era simbolo della fede nella passione futura di Cristo, nel senso che l’uomo ricevendo la circoncisione dichiarava di abbracciare tale fede; o direttamente, come facevano gli adulti, o per mezzo di altri, nel caso dei bambini. … E quindi, poiché il battesimo, a differenza della circoncisione, opera strumentalmente in virtù della passione di Cristo, il battesimo imprime il carattere che incorpora l’uomo a Cristo e conferisce più grazia della circoncisione: maggiore è infatti l’effetto di una realtà già presente che quella della sua speranza».
Compiutosi il sacrificio della Croce, in altre parole, i riti che lo prefiguravano hanno perso significato, giacché si è resa presente la realtà che essi rappresentavano e prefiguravano. Appare implicito, quindi, che il parteciparvi comporta una negazione della fede cristiana, in quanto sottintende la professione di una fede in un messia venturo, non riconoscendosi Gesù quale Cristo Signore.
Proseguiva il Concilio, nello stesso documento: «Essa [cioè la Chiesa], quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo ed esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali. Comanda dunque, senza eccezioni, a tutti quelli che si gloriano del nome di cristiani di non praticare la circoncisione sia prima che dopo il battesimo perché, anche se uno non vi ripone alcuna speranza, non può in alcun modo essere praticata senza perdere la salvezza eterna» (H. Denzingerop. cit., n. 1348, cit.).
L’assise conciliare, pertanto, espressamente vietava ad una persona che si “gloriasse del nome di cristiano”, di sottostare o riprodurre le prescrizioni giudaiche. Specificatamente si riferiva, è vero, all’usanza della circoncisione, anche se chi l’avesse praticata non vi avesse riposto alcuna speranza salvifica. Questa pratica, però, nell’Antico Testamento prefigurava il Battesimo; era una sorta di sacramento ebraico (Papa Innocenzo III nella Lettera Maiores Ecclesiae causas all’arcivescovo Imberto di Arles, alla fine del 1201, scriveva che «… il battesimo è subentrato al posto della circoncisione … Perciò, come l’anima del circonciso non andava perduta dal suo popolo, così, colui che sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo, otterrà l’ingresso nel regno dei cieli»: H. Denzingerop. cit., n. 780), così come, mutatis mutandis, la cena pasquale ebraica prefigurava l’Eucaristia. La Chiesa, perciò, logicamente, afferma che queste pratiche costituiscono un grave peccato mortale (cui si ricollega la perdita della salvezza eterna). Ciò a prescindere dalla credenza che un soggetto possa avere in siffatte usanze.
Quel che salva è la fede in Cristo (unitamente alle opere, è evidente). Ripetere quei riti e sacramenti veterotestamentari conduce ad un rinnegamento di tale professione di fede.

5. La fede in Cristo è necessaria alla salvezza, dunque.
Pure i giusti dell’A.T. avevano questa fede in Cristo (venturo). Sono tali, infatti, perché hanno creduto e sono stati “preparazione” di Cristo, poiché tutto nell’A.T. è in funzione del Nuovo e i santi ed i profeti dell’antica Legge credevano in Cristo venturo. Questa è una verità professata sin dal sinodo di Arles nel IV sec. d.C. Se ne ha una prova nelle stesse parole di Gesù su Abramo, laddove egli pone in risalto la credenza d’Abramo distinguendola da ciò che credevano (o meglio non credevano) gli ebrei del suo tempo (e quelli d’oggi ...) (cfr. Gv 8, 39 ss. V. anche Gv 5, 46-47).
Non a caso i Padri della Chiesa chiaramente affermavano degli ebrei sino al tempo di Gesù, non corrotti dalla corrente del fariseismo e delle altre sette, che essi erano cristiani se non di nome, almeno in via di fatto, perché credevano nel Cristo venturo: così lo erano i grandi santi dell’ebraismo come anche i profeti. S. Gregorio di Nazianzio, per citare solo un nome, dichiarava, parlando dei Maccabei (ma il discorso può essere reso più ampio), che «nessuno di coloro che han raggiunto la perfezione prima della venuta di Cristo, l’ha raggiunta senza la fede in Cristo. Il Logos (Cristo) fu apertamente annunciato in seguito, a suo tempo: ma anche prima fu conosciuto dalle anime pure, com’è chiaro dai molti che prima di quello ne furono onorati» (S. Gregorio NazianzenoDiscorso in lode dei Maccabei, XV, 1-2). Un altro autore ecclesiastico notava che «Se qualcuno dicesse che tutti costoro [cioè gli antichi Patriarchi, ndr.], celebrati per la loro giustizia, da Abramo stesso fino al primo uomo, erano cristiani di fatto, se non di nome, non andrebbe lontano dalla verità. ... Da ciò appare chiaro che la forma di religione più antica, anteriore a tutte le altre, è quella praticata da uomini pii ai tempi di Abramo, ed ora annunciata a tutte le genti dagli insegnamenti del Cristo. ....» (EusebioStoria ecclesiastica, I, 4, 4 ss.).

6. Ultima questione: si potrebbe obiettare che la partecipazione è necessaria o, quantomeno, opportuna, ritenendo gli ebrei (di oggi) nostri “fratelli maggiori”, in nome del dialogo interreligioso.
Mettendo da parte che non vi può essere alcun autentico dialogo interreligioso se non nel ritorno di tutti gli erranti (eretici, apostati e scismatici) (c.d. teologia del ritorno) e nel raggiungimento dei non credenti della fede in Cristo – e non già in una riunificazione sincretista di fedi e religioni (giacché ciò comporterebbe la creazione di una chiesa “nuova”, che non è quella fondata da Cristo) – , v’è da notare che la suddetta dizione di “fratelli maggiori”, talora abusata, non implica affatto una partecipazione ai loro riti, né suggerisce questo. Si tratta di un’evidente forzatura!
Maurycy Gottlieb, Ebrei Ashkenaziti in preghiera
in sinagoga in occasione dello
Yom Kippur, 1878,
Museum of Art, Tel Aviv
Si tratta di un’espressione cortese, ma che, di là dalla sua correttezza teologica e storica (di cui, in ogni caso, si dubita) (cfr. più esaurientemente J. NeusnerEbrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune, Cinisello Balsamo, 2009, passim), non raccomanda né legittima la partecipazione attiva ovvero la cooperazione ad un rito estraneo ed anzi incompatibile con la fede cattolica. Sotto altro profilo, non è vano notare, peraltro, che rappresenta un grave errore insistere sulla derivazione “ebraica” della Pasqua cristiana, giacché ciò sembrerebbe quasi suggerire la partecipazione ad essa. In verità, non vi è nulla che colleghi l’attuale giudaismo farisaico al cristianesimo. Si tratta di realtà ben diverse! Obiettare dicendo che Gesù, per gran parte della sua vita, festeggiò la Pesach è un falso argomento: è vero, egli come pio israelita fu ligio ai dettami della legge (antica) finché questa fu in vigore.
Sul punto ebbe modo di rispondere adeguatamente il Crisostomo in uno dei suoi Logoi kata Ioudaiôn, erroneamente qualificati come “antisemiti”, ma in realtà contro i cristiani giudaicizzanti: «Se Cristo celebrò la Pasqua con loro, non fu perché noi pure la celebrassimo coi giudei, ma per passare dall’ombra alla luce della verità. Fu circonciso, osservò il sabato e ne celebrò la festività, mangiò il pane azzimo e tutto questo lo compì a Gerusalemme; tuttavia noi non siamo più tenuti all’osservanza di questi obblighi, come proclama Paolo quando dice: “Se ti farai circoncidere, Cristo non ti servirà più a nulla” (Gal 5, 2) e sugli azzimi: “Celebreremo la solennità non con l’antico lievito, né con il lievito della malizia e dell’iniquità, ma con gli azzimi della sincerità e della verità” (1 Cor 5, 8). Ma per qual ragione, in quel tempo, Cristo si comportò in tal modo? Perché l’antica Pasqua era l’immagine della Pasqua futura; poi fu necessario aggiungere la verità all’immagine e, dopo aver mostrato l’ombra, nella stessa cena, introdusse la verità. In seguito, mostrata la verità, l’ombra scompare, e non ha più ragione d’essere. Non voler dunque oppormi questo argomento, ma piuttosto dimostrami che Cristo ha comandato che così fosse. Perché io dimostro il contrario: cioè che Cristo non solo non comandò che queste festività fossero osservate, ma anzi ci ha affrancati da questo obbligo» (S. Giovanni CrisostomoSermo III Adversus Iudaeos, III, 9 – IV, 1).
Il grande Patriarca di Costantinopoli è radicale sul punto: «… So che molti rispettano i Giudei e pensano che i loro riti odierni sono degni di stima; per questo sono incitato a cercare di sradicare completamente tale dannosa opinione. … A colui che ha abbandonato Dio che speranza di salvezza rimane? Se Dio lascia un luogo questo diventa dimora di demoni. Ma dicono di adorare anch’essi il Signore. Lungi da noi il dire questo: nessun giudeo adora Dio. Chi lo dice? Il Figlio di Dio. “Se aveste riconosciuto il Padre mio avreste riconosciuto anche me. Ora voi non avete riconosciuto né me né il Padre” (Gv. 8, 19). … No, Dio non vi è adorato, statene lontani. È di conseguenza il luogo dell’idolatria; tuttavia alcuni frequentano tali luoghi come se fossero sacri» (Sermo I Adversus Iudaeos, III, 1-3).
In secondo luogo, non deve farsi l’errore di ritenere che l’ebraismo mosaico, alle cui prescrizione si attennero Gesù, Maria e gli Apostoli, fosse quello farisaico del tempo ovvero quello talmudico-farisaico. Questo, infatti, è l’ebraismo di una setta (peraltro riprovata da Gesù), non già quello mosaico ed autentico fondato sulla Torah e sulla tradizione orale della Cabala pura (o verace) (da non confondersi con la Cabala spuria, esoterica e satanica. Di quella verace, invece, ne parlano i Santi e Dottori della Chiesa: cfr. S. Tommaso d’AquinoSumma Theol., II-II, q.2, a.7). La riprova migliore, che differenzia l’ebraismo puro (vero antenato del Cristianesimo) e l’ebraismo nato dal fariseismo, è che quest’ultimo ha sostituito allo studio biblico lo studio delle prescrizioni talmudiche e rabbiniche, tanto da dichiarare lo stesso Talmud superiore persino alla Torah, anteponendosi in tal guisa tradizioni umane alla Legge di Dio. Nel trattatello Babha Metsia, fol. 33a, leggiamo: «Coloro che si dedicano alla lettura della Torah esercitano una certa virtù, ma non moltissima; coloro che studiano la Mischnah esercitano una virtù per cui riceveranno un premio; coloro, comunque, che si impegnano nello studio dalla Gemarah esercitano la più alta virtù».
Isidor Kaufmann, Ritratto di rabbino con lo scialle da preghiera (tallit),
XX sec., collezione privata
Similmente, nel trattatello Sopherim, XV, 7, fol. 13b: «La Torah è come l’acqua, la Mischnah il vino, e la Gemarah vino aromatico». Nel trattatello Sanhedrin, X, 3, fol. 88b: «Colui che trasgredisce le parole degli scribi pecca più gravemente che chi trasgredisce le parole della legge».
Nel libro Mizbeach, cap. V, infine, troviamo la seguente opinione: «Non c’è niente che sia superiore al Santo Talmud».
Già, nel Vangelo, Gesù, del resto, rimproverava i farisei: «trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, 8).
Se essi dessero rilievo allo studio biblico, senz’altro gli ebrei di oggi riconoscerebbero Gesù quale loro Messia … . Di qui l’incredulità, che nasce dalla superbia umana: «Il peccato dell’incredulità nasce dalla superbia, che suggerisce all’uomo di non piegare la propria intelligenza alle regole della fede, e alla sana interpretazione dei Padri [‘Padri’ come Abramo, Isacco e Giacobbe per la Sinagoga; come Giustino, Crisostomo o Cirillo d’Alessandria per la Chiesa, ndr.]. Perciò san Gregorio afferma che “dalla vanagloria nascono le stravaganze dei novatori”» (S. Tommaso d’AquinoSumma Theol., II-II, q. 10, a. 1, ad. 3).

Augustinus Hipp.

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