martedì 16 settembre 2014

Quasi un secolo dopo il genocidio armeno, questo popolo è ancora massacrato in Siria

Pubblichiamo volentieri dal blog Ora pro Siria, sebbene risalente al febbraio scorso ma ancora oggi attualissimo, la traduzione in italiano di un articolo, pubblicato sul The Indipendent della fine del 2013, in cui l'attuale martirio del popolo siriano cristiano viene giustamente affiancato a quello del genocidio armeno, che si consumò giusto un secolo fa e che vide milioni di vittime sacrificate dalla barbarie islamica. Queste ultime saranno canonizzate dalla Chiesa armena apostolica.

Questa immagine, scattata da un giornalista tedesco e conservata negli archivi del Vaticano, documenta il massacro delle donne cristiane armene nel deserto di Deir ez-Zor - Siria, il 24/04/1915 durante il genocidio da parte dei soldati turchi.

Genocidio armeno e genocidio siriano

Quasi un secolo dopo il genocidio armeno, questo popolo è  ancora massacrato in Siria

di Robert Fisk

E ora, quasi sotto silenzio nei media, i loro luoghi sacri sono stati profanati

Proprio oltre 30 anni fa, ho tirato fuori dal terreno le ossa e i crani delle vittime del genocidio armeno su una collina situata al di sopra del fiume Khabur, in Siria. Erano persone giovani – i denti non erano deteriorati – ed essi erano soltanto alcuni del milione e mezzo di armeni massacrati durante il primo Olocausto del ventesimo secolo, la distruzione di un popolo, deliberata, pianificata dai turchi Ottomani nel 1915.
Era difficile trovare queste ossa perché il fiume Khabur – a nord della città siriana di Deir ez-Zour – era cambiato. Erano così tanti i corpi ammucchiati nella sua corrente, che le acque andavano a est. Il fiume aveva alterato il suo corso. Però gli amici armeni che erano con me hanno presso i resti umani e li hanno sistemati nella cripta della grande chiesa armena di Deir ez Zour dedicata alla memoria di quegli armeni che erano stati uccisi – si vergogni lo stato turco “moderno” che nega ancora l’Olocausto – in quell’omicidio di massa su scala industriale.
E ora,  quasi non citati sui media, questi campi di uccisioni di massa sono diventati i campi delle uccisioni di massa di una nuova guerra. Sopra le ossa dei morti armeni si sta combattendo il conflitto siriano. E i sopravvissuti, discendenti dei cristiani armeni, che hanno trovato rifugio nelle vecchie terre siriane, sono stati costretti a fuggire di nuovo – in Libano, in Europa, in America. Proprio la chiesa dove le ossa degli armeni assassinati hanno trovato il loro presunto luogo finale di riposo, è stata danneggiata durante la nuova guerra, sebbene nessuno conosca i colpevoli di questa azione.
Ieri ho telefonato al Vescovo Armasi Nalbandian di Damasco che mi ha detto che, mentre la chiesa a Deir ez-Zour era davvero stata danneggiata, la cripta era rimasta intatta. La chiesa stessa, ha detto, era meno importante del ricordo del genocidio armeno – ed è questo ricordo che  potrebbe essere distrutto. Ha ragione. Ma la chiesa – un edificio non bellissimo, devo dire – è tuttavia un testimone, un monumento che ricorda l’Olocausto degli armeni, e ogni pezzetto è sacro quanto il monumento Yad Vashem alle vittime dell’Olocausto in Israele. E sebbene lo stato israeliano, con una infamia equivalente a quella dei turchi, sostenga che il genocidio armeno non è stato un genocidio, gli israeliani stessi usano la parola Shoah -Olocausto – per le uccisioni degli armeni.

Ad Aleppo, una chiesa armena è stata  danneggiata  dal Libero esercito siriano, i ribelli “buoni” che combattono il regime di Bashar al-Assad, finanziati e armati dagli americani e anche dagli arabi sunniti del Golfo. 
Però a Raqqa, la sola capitale regionale che è stata del tutto conquistata dall’opposizione in Siria, i combattenti Salafiti hanno distrutto la Chiesa cattolica dei Martiri e hanno incendiato i suoi arredi. 
E – Dio ci risparmi il pensiero – molte centinaia di combattenti turchi, discendenti degli stessi turchi che hanno tentato di distruggere la razza armena nel 1915, si sono ora uniti ai combattenti affiliati ad al-Qa’ida che hanno attaccato la chiesa armena. La croce in cima alla torre campanaria è stata distrutta per essere sostituita con la bandiera dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
E non è tutto. L’11 novembre, quando il mondo rendeva omaggio ai morti della Grande Guerra, che non aveva dato agli armeni lo stato che si meritavano, una bomba da mortaio è caduta fuori dalla Scuola Nazionale armena dei Sacri Traduttori, a Damasco,* e altre due sono cadute su degli scuolabus, provocando la morte di due scolari armeni: Hovahannes Atokanian e Vanessa Bedros. Il giorno dopo, i passeggeri armeni  di un autobus che viaggiava da Beirut ad Aleppo, sono stati derubati sotto la minaccia delle armi. Due giorni dopo, Kevork Bogasian è stato ucciso da una bomba di mortaio ad Aleppo. Il bilancio delle vittime  armene  in Siria è soltanto di 65, ma suppongo che potremmo calcolarlo in 1.500.065. Più di cento armeni sono stati rapiti. Gli armeni, naturalmente, come molti altri cristiani in Siria, non appoggiano la rivoluzione contro il regime di Assad, anche se  non potrebbero certo essere chiamati sostenitori di Assad.

Fra due anni commemoreranno il centesimo anniversario del loro Olocausto. Ho incontrato molti sopravvissuti, oramai tutti morti. Però lo stato turco, con il suo appoggio all’attuale rivoluzione in Siria, celebrerà la sua vittoria a Gallipoli in quello stesso anno (1915),  una battaglia eroica in cui Mustafa Kemal Ataturk ha salvato il suo paese dall’occupazione alleata. Anche gli armeni hanno combattuto in quella battaglia – con l’uniforme dell’esercito turco, naturalmente – ma scommetterò quanti dollari volete che nel 2015 essi non saranno ricordati dallo stato turco che doveva così presto distruggere le loro famiglie.


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Ecco l'articolo originario in inglese:

Nearly a century after the Armenian genocide, these people are still being slaughtered in Syria

And now, almost unmentioned in the media, their holy places are also being desecrated

Robert Fisk

The Armenian St. Kevork Church (Saint George) is seen in the northern Syrian city of Aleppo, on October 30, 2012, after it was burnt during fighting between rebel fighters and Syrian government forces

Just over 30 years ago, I dug the bones and skulls of Armenian genocide victims out of a hillside above the Khabur River in Syria. They were young people – the teeth were not decayed – and they were just a few of the million-and-a-half Armenian Christians slaughtered in the first Holocaust of the 20th century, the deliberate, planned mass destruction of a people by the Ottoman Turks in 1915.
It was difficult to find these bones because the Khabur River – north of the Syrian city of Deir ez-Zour – had changed. So many were the bodies heaped in its flow that the waters moved to the east. The very river had altered its course. But Armenian friends who were with me took the remains and placed them in the crypt of the great Armenian church at Deir ez-Zour, which is dedicated to the memory of those Armenians who were killed – and shame upon the “modern” Turkish state which  still denies this Holocaust – in that industrial mass murder.
And now, almost unmentioned in the media, these ghastly killing fields have become the killing fields of a new war. Upon the bones of the dead Armenians, the Syrian conflict is being fought. And the descendants of the Armenian Christian survivors who found sanctuary in the old Syrian lands have been forced to flee again – to Lebanon, to Europe, to America. The very church in which the bones of the murdered Armenians found their supposedly final resting place has been damaged in the new war, although no one knows the culprits.
Yesterday, I called Bishop Armash Nalbandian of Damascus, who told me that while the church at Deir ez-Zour was indeed damaged, the shrine remained untouched. The church itself, he said, was less important than the memory of the Armenian genocide – and it is this memory which might be destroyed. He is right. But the church – not a very beautiful building, I have to say – is nonetheless a witness, a memorial to the Holocaust of Armenians every bit as sacred as the Yad Vashem memorial to the victims of the Jewish Holocaust in Israel. And although the Israeli state, with a shame equal to the Turks, claims that the Armenian genocide was  not a genocide, Israelis themselves use  the word Shoah – Holocaust – for the Armenian killings.
In Aleppo, an Armenian church has been vandalised by the Free Syrian Army, the “good” rebels fighting Bashar al-Assad’s regime, funded and armed by the Americans as well as the Gulf Sunni Arabs. But in Raqqa, the only regional capital to be totally captured by the opposition in Syria, Salafist fighters trashed the Armenian Catholic Church of the Martyrs and set fire to its furnishings. And – God spare us the thought – many hundreds of Turkish fighters, descendants of the same Turks who tried to destroy the Armenian race in 1915, have now joined the al-Qa’ida-affiliated fighters who attacked the Armenian church. The cross on top of the clock tower was destroyed, to be replaced by the flag of the Islamic State of Iraq and the Levant.
Nor is that all. On 11 November, when the world honoured the dead of the Great War, which did not give the Armenians the state they deserved, a mortar shell fell outside the Holy Translators Armenian National School in Damascus and two other shells fell on school buses. Hovhannes Atokanian and Vanessa Bedros, both Armenian schoolchildren, died. A day later, a bus load of Armenians travelling from Beirut to Aleppo were robbed at gunpoint. Two days later, Kevork Bogasian was killed by a mortar shell in Aleppo. The Armenian death toll in Syria is a mere 65; but I suppose we might make that 1,500,065. More than a hundred Armenians have been kidnapped. The Armenians, of course, like many other Christians in Syria, do not support the revolution against the Assad regime – although they could hardly be called Assad supporters.
Two years from now, they will commemorate the 100th anniversary of their Holocaust. I have met many survivors, all now dead. But the Turkish state, supporting the present revolution in Syria, will be memorialising its victory at Gallipoli that same year, a heroic battle in which Mustafa Kemal Ataturk saved his country from Allied occupation. Armenians also fought in that battle – in the uniform of the Turkish army, of course – but I will wager as many dollars as you want that they will not be remembered in 2015 by the Turkish state which was so soon to destroy their families.

Hitchhikers’ guide to  bad old Iran


While we all bask in the glow of happy relations with Iran, it might be well to read – in four months’ time, unless their publishers have the common sense to bring it forward – a remarkable book by Shane Bauer, Josh Fattal and Sarah Shourd. 
They – and you may not remember this – were the hitchhikers who “strayed” into Iran in 2009 from Iraqi Kurdistan. Sarah (pictured below with Shane) was released first and she called me on the phone to talk about her fiancé, Shane, and to ask if The Independent could help secure the two men’s release. We published some of Shane’s journalism – I made a point of telling the Iranian ambassador in Beirut to read it – and, with or without The Independent’s help, they were both released. I was delighted.
They had been arrested during the presidency of the lunatic Ahmadinejad, and it’s clear from their book that they were lured over the border by Iranian frontier guards. One of them eventually emailed Sarah that this was the case.
But their incarceration, their vicious solitary confinement – a form of torture if ever there was one – and their relations, not just with their fellow condemned prisoners but with their guards, is a remarkable story.
Sarah quickly worked out, back in freedom, that the US government was not their natural friend; there are some sharp words about the “peacemaker” Dennis Ross.  A good book – which I rarely say – and it’s called A Sliver of Light.  A Fisk read. 

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