martedì 16 settembre 2014

L'enigma dei due "papi" ed il "papato emerito"

Regnante ed "emerito". L'enigma dei due papi

È una novità senza precedenti nella storia della Chiesa. Con molte incognite ancora insolute e con seri rischi già in atto. Un'analisi di Roberto de Mattei 

di Sandro Magister



ROMA, 15 settembre 2014 – Che la figura di "papa emerito" sia una novità senza precedenti nella storia della Chiesa, "istituita" dallo stesso Benedetto XVI nell'atto della sua rinuncia, l'ha riconosciuto lo stesso papa Francesco, nella conferenza stampa sull'aereo che lo riportava dalla Corea a Roma, lo scorso 18 agosto.
Ciò non toglie che dal punto di vista sia giuridico che dottrinale non sia affatto assicurato che tale nuova figura comparsa nella gerarchia cattolica abbia un reale fondamento.
"I secoli diranno se è così o no. Vedremo", ha detto prudentemente Francesco, pur personalmente entusiasta dell'innovazione.
Tra i teologi e i canonisti, infatti, i giudizi continuano a essere molto discordi. Già due giorni dopo l'annuncio dell'abdicazione, Manuel Jesus Arroba, docente di diritto canonico alla Pontificia Università Lateranense, mise in guardia dall'uso dell'appellativo: "Giuridicamente di papa ce n’è soltanto uno. Un 'papa emerito' non può esistere".
Ma è stato soprattutto un luminare del diritto canonico come il gesuita Gianfranco Ghirlanda, già rettore della Pontificia Università Gregoriana, a confutare la fondatezza della figura del "papa emerito" in un lungo e argomentatissimo saggio pubblicato il 2 marzo 2013 su "La Civiltà Cattolica" e quindi – come per tutti gli articoli di questa rivista – stampato con il previo controllo e l'autorizzazione della segreteria di Stato vaticana:

Al termine del suo saggio padre Ghirlanda tirava questa conclusione:

"L’esserci soffermati abbastanza a lungo sulla questione della relazione tra l’accettazione della legittima elezione e la consacrazione episcopale, quindi dell’origine della potestà del romano pontefice, è stato necessario proprio per comprendere più a fondo che colui che cessa dal ministero pontificio non a causa di morte, pur evidentemente rimanendo vescovo, non è più papa, in quanto perde tutta la potestà primaziale, perché essa non gli era venuta dalla consacrazione episcopale, ma direttamente da Cristo tramite l’accettazione della legittima elezione".

E quindi escludeva che il dimissionario potesse continuare a fregiarsi del nome di "papa", sia pure emerito: 
"È evidente che il papa che si è dimesso non è più papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di vescovo emerito di Roma, come ogni altro vescovo diocesano che cessa".
Poi, però, fu lo stesso Ratzinger ad attribuirsi la qualifica di "papa emerito" e a portarne  in un certo senso le insegne continuando a vestire l'abito bianco.
Anticipò enigmaticamente il senso di questa sua decisione nell'ultima delle sue udienze generali da papa, il 27 febbraio 2013, vigilia della sua effettiva abdicazione: 

"Chi assume il ministero petrino non ha più alcuna dimensione privata. […] La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro".
C'è chi ricorda che Pio XII, quando predispose la lettera di dimissioni da far scattare qualora i tedeschi fossero arrivati da lui per arrestarlo, diceva ai suoi più stretti collaboratori: "Quando i tedeschi varcheranno quella linea, non troveranno più il papa ma il cardinal Pacelli". Ma per Benedetto XVI non era così. Rinunciando, non pensava affatto di poter tornare ad essere "il cardinal Ratzinger". Era ed è sua ferma convinzione che della sua elezione a papa c'è qualcosa che resta "per sempre". Ed è ciò che alcuni studiosi hanno cercato di individuare e di giustificare. Come il professor Valerio Gigliotti, docente di storia del diritto europeo nell'università di Torino, nel volume "La tiara deposta" di cui www.chiesa ha dato conto lo scorso aprile:

O come don Stefano Violi, professore di diritto canonico nella facoltà teologica dell'Emilia Romagna, in un saggio sulla "Rivista teologica di Lugano” dal titolo: "La rinuncia di Benedetto XVI tra diritto, storia e coscienza".
Secondo Violi, abdicando, Benedetto XVI avrebbe sì lasciato l'esercizio attivo del ministero petrino, ma non l'ufficio, il "munus" del papato, irrinunciabile proprio perché affidatogli per sempre con l'elezione a vescovo di Roma e a successore di Pietro.
Chi conosce il Ratzinger teologo sa che egli mai sottoscriverebbe un simile sdoppiamento dell'ufficio papale, che a suo giudizio può essere solo accettato o rifiutato in blocco.
Nulla però egli ha mai detto per chiarire in che cosa allora possa consistere il suo essere "papa emerito" anche dopo l'abdicazione.
L'aggettivo "emerito", preso in prestito dai vescovi dimissionari, non aiuta a capire.
Un vescovo resta vescovo per sempre, in forza del carattere indelebile del sacramento dell'ordine, anche dopo che non governa più alcuna diocesi. E anche un successore di Pietro resta vescovo per sempre, dopo le sue dimissioni. Ma come può restare ancora "papa", dopo che ha rinunciato a tutto, non solo a una parte, di ciò che costituisce lo specifico petrino?
Questo silenzio di Ratzinger lascia libero corso non solo a congetture di dottrina che egli certamente non condivide – come l'invenzione di un carattere indelebile impresso dall'elezione a papa, quasi fosse un atto sacramentale – ma anche al disorientamento di non pochi fedeli, tentati di ritenere che nella Chiesa cattolica possano esserci due papi – magari di diverso grado ma pur sempre più d'uno – e parteggiare per l'uno contro l'altro. La riflessione che segue entra nel vivo della questione e mette in luce la serietà della posta in gioco, sotto il profilo storico, canonico e dottrinale.
Roberto de Mattei, 66 anni, cinque figli, è professore di storia del cristianesimo all'Università Europea di Roma. Dirige la rivista "Radici Cristiane" e l'agenzia di informazione "Corrispondenza Romana". È stato vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche dal 2003 al 2011. È autore del volume "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta", già tradotto in inglese, francese, tedesco e polacco.

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UNO E UNO SOLO È IL PAPA



di Roberto de Mattei


Tra le molteplici e poliedriche dichiarazioni di papa Francesco degli ultimi tempi ve n’è una che merita di essere valutata in tutta la sua portata.
Nella conferenza stampa tenuta il 18 agosto 2014 a bordo dell’aereo che lo riportava in Italia dopo il suo viaggio in Corea, il papa ha tra l’altro affermato:

"Penso che il papa emerito non sia un’eccezione, ma dopo tanti secoli, questo è il primo emerito. […] Settant'anni fa anche i vescovi emeriti erano un’eccezione, non esistevano. Oggi i vescovi emeriti sono una istituzione. Io penso che 'papa emerito' sia già un’istituzione. Perché? Perché la nostra vita si allunga e a una certa età non c’è la capacità di governare bene, perché il corpo si stanca, la salute forse è buona ma non c’è la capacità di portare avanti tutti i problemi di un governo come quello della Chiesa. E io credo che papa Benedetto XVI abbia fatto questo gesto che di fatto istituisce i papi emeriti. Ripeto: forse qualche teologo mi dirà che questo non è giusto, ma io la penso così. I secoli diranno se è così o no, vedremo. Lei potrà dirmi: 'E se lei non se la sentirà, un giorno, di andare avanti?'. Farei lo stesso, farei lo stesso! Pregherò molto, ma farei lo stesso. Ha aperto una porta che è istituzionale, non eccezionale".
L’istituzionalizzazione della figura del papa emerito sembrerebbe dunque un fatto acquisito.
Alcuni scrittori cattolici come Antonio Socci, Vittorio Messori e don Ariel Levi di Gualdo, hanno rilevato il problema posto da questa inedita situazione, che sembra accreditare l’esistenza di una “diarchia” pontificia. Un taglio rivoluzionario con la tradizione teologica e giuridica della Chiesa operato, paradossalmente, proprio dal papa della “ermeneutica della riforma nella continuità”.
Non a caso la "scuola di Bologna", che si è sempre distinta per la sua opposizione a Benedetto XVI, ha salutato con soddisfazione la sua rinuncia al pontificato, non solo per l’uscita di scena di un pontefice avverso, ma proprio per quella “riforma del papato” che egli avrebbe inaugurato con la scelta di assumere il titolo di papa emerito.
L’ermeneutica “continuista” di Benedetto XVI si è capovolta così in un gesto di forte discontinuità, storica e teologica.

La discontinuità storica scaturisce dalla rarità dell’abdicazione di un papa, in duemila anni di storia della Chiesa. Ma la discontinuità teologica consiste proprio nell’intenzione di istituzionalizzare la figura del papa emerito.
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Sono soprattutto autori di linea progressista i primi che si sono affrettati a fornire una giustificazione teorica della novità. Come don Stefano Violi, docente di diritto canonico presso la facoltà teologica dell’Emilia Romagna, con il saggio "La rinuncia di Benedetto XVI tra storia, diritto e coscienza" (“Rivista teologica di Lugano”, XVIII, 2, 2013, pp. 155-166). E come Valerio Gigliotti, docente di diritto europeo all’Università di Torino, con il capitolo che conclude il suo volume "La tiara deposta. La rinuncia al papato nella storia del diritto e della Chiesa" (Leo S. Olschki, Firenze, 2013, pp. 387-432).
Secondo Violi, nella "Declaratio" con cui l'11 febbraio 2013 annunciò la sua abdicazione, Benedetto XVI distingue il ministero petrino, "munus", la cui essenza sarebbe eminentemente spirituale, dalla sua amministrazione od esercizio.
“Le forze – scrive Violi – gli appaiono inidonee all’amministrazione del 'munus', non al 'munus' stesso”. La prova dell’essenza spirituale del "munus" sarebbe espressa dalle seguenti parole della "Declaratio" di Benedetto XVI:
“Sono ben consapevole che questo ministero (munus) per la sua essenza spirituale deve essere compiuto (exequendum) non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando”.
In questo passo, secondo Violi, Benedetto XVI distingue non solo tra "munus" ed "executio muneris", ma anche tra una "executio" amministrativo-ministeriale, che si compie con l’azione e la parola ("agendo et loquendo") e una "executio" che si esprime con la preghiera e il patire ("orando et patiendo"). Benedetto XVI dichiarerebbe di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, ma non all’ufficio, al "munus" del papato: “Oggetto della rinuncia irrevocabile infatti è la 'executio muneris' mediante l’azione e la parola ('agendo et loquendo'), non il 'munus' affidatogli una volta per sempre”.
Anche Gigliotti ritiene che Benedetto XVI, cessando di essere sommo pontefice, abbia assunto un nuovo status giuridico e personale.
La scissione tra l’attributo tradizionale della "potestas" e quello nuovo del "servitium", tra la dimensione giuridica e quella spirituale del papato, avrebbe aperto la via “a una nuova dimensione mistica del servizio al popolo di Dio nella comunione e nella carità”. Dalla "plenitudo potestatis" si passerebbe a una "plenitudo caritatis" del papa emerito: uno status “che è terzo rispetto sia alla condizione precedente l’elevazione al soglio di Pietro sia a quello di suprema direzione della Chiesa: è il ‘terzo corpo del papa’, quello della continuità operativa nel servizio della Chiesa tramite la via contemplativa”.
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A mio giudizio, gli ammiratori di Benedetto XVI devono respingere la tentazione di accreditare queste tesi per volgerle a loro vantaggio.
Tra i cattolici di orientamento conservatore, infatti, alcuni già cominciano a mormorare che, in caso di aggravamento della crisi religiosa in corso, l’esistenza di due papi permetterebbe di contrapporre il papa emerito Benedetto XVI al papa in esercizio Francesco.
Si tratta di una posizione diversa da quella sedevacantista, ma caratterizzata dalla stessa debolezza teologica.
Nei tempi di crisi non bisogna guardare agli uomini, che sono creature fragili e passeggere, ma alle istituzioni e ai princìpi incrollabili della Chiesa. Il papato, in cui per molti versi si concentra la Chiesa cattolica, si fonda su una teologia di cui occorre recuperare i capisaldi. C’è soprattutto un punto da cui non si può prescindere. La dottrina comune della Chiesa ha sempre distinto tra potere di ordine e potere di giurisdizione. Il primo è ricevuto attraverso i sacramenti, il secondo per missione divina, nel caso del papa, o per missione canonica nel caso dei vescovi e dei sacerdoti. Il potere di giurisdizione deriva direttamente da Pietro, che lo ha ricevuto a sua volta immediatamente da Gesù Cristo; tutti gli altri nella Chiesa lo ricevono da Cristo attraverso il suo vicario, "ut sit unitas in corpore apostolico" (S. Tommaso d’Aquino, "Ad Gentes" IV c. 7). 
Il papa non è dunque un supervescovo, né il punto di arrivo di una linea sacramentale che dal semplice prete, passando per il vescovo, ascende al sommo pontefice. L’episcopato costituisce la pienezza sacramentale dell’ordine e dunque al di sopra del vescovo non esiste alcun carattere superiore che possa venire impresso. Come vescovo il papa è uguale a tutti gli altri vescovi.
Ciò per cui il papa sovrasta ogni altro vescovo è la missione divina che da Pietro si trasmette ad ogni suo successore, non per via ereditaria, ma attraverso l’elezione legittimamente svolta e liberamente accettata. Infatti, colui che sale al soglio pontificio potrebbe anche essere un semplice sacerdote, o addirittura un laico, che dopo l’elezione sarà consacrato vescovo ma che è papa non dal momento della consacrazione episcopale, ma dall’atto con cui accetta il pontificato.
Il primato del papa non è sacramentale ma giuridico. Esso consiste nel potere pieno di pascere, reggere e governare tutta la Chiesa, ossia nella giurisdizione suprema, ordinaria, immediata, universale e indipendente da ogni altra autorità terrena (art. 3 della costituzione dogmatica del Concilio Vaticano I "Pastor Aeternus").
Il papa, in una parola, è colui che ha il supremo potere di giurisdizione, la "plenitudo potestatis", perché governa la Chiesa. È per questo che il successore di Pietro è prima papa e poi vescovo di Roma. È vescovo di Roma in quanto papa e non papa in quanto vescovo di Roma.
Il papa cessa ordinariamente dal suo incarico con la morte, ma il suo potere di giurisdizione non è indelebile e irrinunciabile. Nel supremo governo della Chiesa esistono infatti i cosiddetti casi di eccezione, che i teologi hanno studiato, come l’eresia, l’infermità fisica e morale, la rinuncia (cfr. il mio saggio "Vicario di Cristo. Il primato di Pietro tra normalità ed eccezione", Fede e Cultura, Verona, 2013, pp. 106-138).
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Il caso della rinuncia fu trattato soprattutto dopo l’abdicazione dal pontificato di Celestino V, papa dal 29 agosto al 13 dicembre del 1294. In quell’occasione si aprì un dibattito teologico tra chi riteneva invalida quella rinuncia e chi ne sosteneva il fondamento giuridico e teologico.
Tra le numerose voci che si levarono per ribadire la dottrina comune della Chiesa vanno ricordate quelle di Egidio da Viterbo detto Romano (1243-1316), autore di un puntuale trattato "De renunciatione papae", e del suo discepolo Agostino Trionfo d’Ancona (1275-1328), che ci ha lasciato una imponente "Summa de potestate ecclesiastica", in cui viene diffusamente affrontato il problema della rinuncia (q. IV) e della deposizione del papa (q. V). Agostiniani entrambi, ma allievi di san Tommaso d’Aquino, sono ricordati come autori pienamente ortodossi, tra i sostenitori più ferventi del primato di giurisdizione del pontefice contro le pretese del re di Francia e dell’imperatore di Germania dell'epoca.
Sulla scia del Dottore Angelico (Summa Theologica, 2-2ae, q. 39, a. 3) essi illustrano la distinzione tra "potestas ordinis" e "potestas iurisdictionis". La prima, che deriva dal sacramento dell’ordine, presenta un carattere indelebile e non è soggetta a rinuncia. La seconda ha natura giuridica e, non recando impresso il carattere indelebile proprio dell’ordine sacro, è soggetta a venir meno in caso di eresia, rinuncia o deposizione. Egidio ribadisce la differenza che sussiste tra "cessio" e "depositio", alla seconda delle quali il sommo pontefice non può essere sottoposto se non per grave e persistente eresia. La prova decisiva del fatto che la "potestas papalis" non imprime un carattere indelebile è il fatto che, “se così fosse, non vi potrebbe essere successione apostolica fino a che un papa eretico rimanesse in vita” (Gigliotti, p. 250).
Questa dottrina, che è stata anche prassi comune della Chiesa per venti secoli, può essere considerata di diritto divino, e come tale immodificabile.
Il Concilio Vaticano II non ha rifiutato esplicitamente il concetto di "potestas", ma lo ha accantonato, sostituendolo con un nuovo equivoco concetto, quello di "munus". L’art. 21 della "Lumen Gentium", poi, sembra insegnare che la consacrazione episcopale conferisce non solamente la pienezza dell’ordine, ma anche l’ufficio di insegnare e governare, laddove in tutta la storia della Chiesa l’atto della consacrazione episcopale è stato distinto da quello della nomina, ovvero del conferimento della missione canonica.
Questo equivoco è coerente con l’ecclesiologia dei teologi del Concilio e del postoncilio (Congar, Ratzinger, de Lubac, von Balthasar, Rahner, Schillebeeckx…) che hanno preteso ridurre la missione della Chiesa a una funzione sacramentale, ridimensionandone l’aspetto giuridico.
Il teologo Joseph Ratzinger, ad esempio, pur non condividendo la concezione di Hans Küng di una Chiesa carismatica e de-istituzionalizzata, si è allontanato dalla tradizione quando ha visto nel primato di Pietro la pienezza del ministero apostolico, legando il carattere ministeriale a quello sacramentale (J.Auer-J. Ratzinger, "La Chiesa universale sacramento di salvezza", Cittadella, Assisi, 1988).
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Questa concezione sacramentale e non giuridica della Chiesa affiora oggi nella figura del papa emerito.
Se il papa che rinuncia al pontificato mantiene il titolo di emerito, vuol dire che in qualche misura resta papa. È chiaro infatti che nella definizione il sostantivo prevale sull’aggettivo. Ma perché è ancora papa dopo l’abdicazione? L’unica spiegazione possibile è che l’elezione pontificia gli abbia impresso un carattere indelebile, che non si perde con la rinuncia. L’abdicazione presupporrebbe in questo caso la cessione dell’esercizio del potere, ma non la scomparsa del carattere pontificale. Questo carattere indelebile attribuito al papato può essere spiegato a sua volta solo da una visione ecclesiologica che subordini la dimensione giuridica del pontificato a quella sacramentale. 
È possibile che Benedetto XVI condivida questa posizione, esposta da Violi e Gigliotti nei loro saggi, ma l'eventualità che egli abbia fatta propria la tesi della sacramentalità del papato non significa che essa sia vera. Non esiste se non nella fantasia di qualche teologo un papato spirituale distinto dal papato giuridico. Se il papa è, per definizione, colui che governa la Chiesa, rinunciando al governo egli rinuncia al papato. Il papato non è una condizione spirituale, o sacramentale, ma un “ufficio”, ovvero un’istituzione.
La tradizione e la prassi della Chiesa affermano con chiarezza che uno e solo uno è il papa, e inscindibile nella sua unità è il suo potere. Mettere in dubbio il principio monarchico che regge la Chiesa significherebbe sottoporre il Corpo Mistico a una intollerabile lacerazione. Ciò che distingue la Chiesa cattolica da ogni altra chiesa o religione è proprio l’esistenza di un principio unitario incarnato in una persona e istituito direttamente da Dio.
La distinzione tra il governo e l’esercizio del governo, inapplicabile all’ufficio pontificio, potrebbe semmai valere per comprendere la differenza tra Gesù Cristo che governa invisibilmente la Chiesa e il suo vicario che esercita, per delega divina, il governo visibile.
La Chiesa ha un solo capo e fondatore, Gesù Cristo. Il papa è il vicario di Gesù Cristo, Uomo-Dio, ma a differenza del fondatore della Chiesa, perfetto nelle sue due nature umana e divina, il romano pontefice è persona solamente umana, privo delle caratteristiche della divinità.
Oggi noi tendiamo a divinizzare, ad assolutizzare, ciò che nella Chiesa è umano, le persone ecclesiastiche, e invece ad umanizzare, a relativizzare, ciò che nella Chiesa è divino: la sua fede, i suoi sacramenti, la sua tradizione. Da questo errore scaturiscono gravi conseguenze anche sul piano psicologico e spirituale.
Il papa è una creatura umana, sia pure rivestita di una missione divina. L’impeccabilità non gli è stata attribuita e l’infallibilità è un carisma che può esercitare solo a precise condizioni. Egli può errare dal punto di vista politico, dal punto di vista pastorale e anche dal punto di vista dottrinale, quando non si esprime "ex cathedra" e quando non ripropone il magistero perenne e immutabile della Chiesa.
Ciò non toglie che al papa debbano essere resi i massimi onori che possono essere tributati a un uomo e che verso la sua persona si debba nutrire un’autentica devozione, come sempre fecero i santi.
Si può discutere sulle intenzioni di Benedetto XVI e sulla sua ecclesiologia, ma è certo che si può avere un solo papa alla volta e che questo papa, fino a prova contraria, è Francesco, legittimamente eletto il 13 marzo 2013.
Papa Francesco può essere criticato, anche severamente, con il dovuto rispetto, ma deve essere considerato sommo pontefice fino alla sua morte o a una sua eventuale perdita del pontificato.
Benedetto XVI ha rinunciato non a una parte del papato, ma a tutto il papato e Francesco non è papa part-time, ma è interamente papa.
Come egli eserciti il suo potere è, naturalmente, un altro discorso. Ma anche in questo caso la teologia e il "sensus fidei" ci offrono gli strumenti per risolvere tutti i problemi teologici e canonici che in futuro dovessero sorgere.

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