lunedì 22 maggio 2023

Nel 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni

Alle sei e quindici del pomeriggio del 22 maggio 1873, moriva nella sua casa di Milano all’età di 88 anni, Alessandro Manzoni. Questi, a parte i disturbi nervosi di cui era affetto («Strano, tortuoso, complesso», lo definì Natalia Ginzburg nella famosa biografia familiare. Carattere impossibile, nevrotico, paranoico: Manzoni aveva il terrore della folla, era vittima di crisi di panico e di vertigini, il «balbettamento organico e nervoso» gli impediva di parlare in pubblico. A Brusuglio passava il suo tempo coltivando e camminando per ore, ma non sopportava la terra bagnata e il cinguettìo degli uccelli), il 6 gennaio era caduto, battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, dove si recava quotidianamente per la Santa Messa, procurandosi un trauma cranico. Si era accorto, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a declinare, fino a cadere in uno stato di catatonia a partire dal mese di marzo. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, quasi un mese prima della morte dello scrittore, che spirò per una meningite contratta a seguito del trauma. Il corpo fu imbalsamato da sette medici incaricati del processo da parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio ed esposto a Palazzo Marino con onori sovrani. Ai solenni funerali del Senatore (Manzoni era stato nominato senatore nel febbraio 1860 per meriti verso la patria), celebrati in duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del Regno. Il giorno stesso della sua morte il Comune di Milano decretò di intitolare allo scrittore scomparso la via del Giardino, nei pressi della quale lo scrittore viveva dal 1814. Alla mattina del 23 maggio erano già murate le targhe di marmo con la nuova intitolazione “Via Alessandro Manzoni” in sostituzione delle precedenti. Nel 1874, nel primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi dirigerà personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la Messa di requiem, composta per onorarne la memoria. A fronte delle solenni commemorazioni istituzionali dell’Italia sabauda, il mondo cattolico espresse, in morte del Manzoni, alcuni dubbi e alcune critiche che, sebbene in modo sotterraneo, arriveranno al primo Dopoguerra, nonostante l’indubbio favore per la di lui grandissima opera e la sua progressiva istituzionalizzazione culturale, voluta dal Fascismo in continuità con l’Italia liberale di fine Ottocento. I gesuiti de La Civiltà Cattolica, ad esempio, che avevano preso le distanze dal Manzoni soltanto dopo che questi ricevette in casa sua con grande affabilità Giuseppe Garibaldi, massone, anticlericale e anticristiano, nel 1862, passarono sotto silenzio la morte del senatore, per poi esprimere critiche alla sua opera, nell’articolo del 26 giugno 1873 e in qualche altro intervento negli anni successivi, sull’onda delle ragionate riserve filosofiche e letterarie espresse fino alla morte (avvenuta nel settembre 1862) dal p. Luigi Taparelli d’Azeglio (peraltro figlio di Cesare, destinatario della celeberrima lettera manzoniana sul Romanticismo). Nel dissidio tra le due anime del cattolicesimo italiano dell’epoca, Manzoni era ritenuto (non senza una dose di giusta ragione) il “cavallo di Troia” tramite cui i liberali avevano potuto attuare la loro politica laicista e l’abbattimento del potere temporale dei papi. A tal proposito don Davide Albertario, molto critico della religiosità manzoniana e fervida penna del giornalismo lombardo, scrisse: «Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l’inganno che la rivoluzione nascondeva alle promesse di unità italiana [...] Egli pertanto non si unì ai difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo, ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso ....» e tuttavia, dalle colonne de L’Osservatore cattolico don Albertario con innegabile pietà cristiana, ricordava il defunto «come uomo buono, anche pio, e nei suoi traviamenti più illuso che colpevole». La mattina del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la salma di Manzoni fu tolta dal colombario e posta nel famedio del cimitero monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di Francesco Barzaghi. Il decennale della morte segnerà una sorta di difesa postuma di Manzoni da parte de La Civiltà Cattolica innanzi al progressivo e pervicace disegno del liberalismo politico e culturale italiano di appropriarsi totalmente dell’opera manzoniana, negandone la radice cattolica, in grazia de Le Osservazioni sulla Morale cattolica - scritte in risposta alle accuse di oscurantismo avanzate alla religione cattolica dal ginevrino Simonde de Sismond nel 1826 - in cui gli stessi gesuiti riconobbero un Manzoni apologeta «.....non solo difesa della sua religione, ma della sua patria, perché tutta la nazione italiana, che si gloria di essere cattolica, restava denigrata dalle calunnie dello storico calvinista». Il clima di transigentismo sortito dopo la Prima Guerra mondiale (esito anche dell’idea sartiana del precedente decennio di deporre definitivamente qualsiasi anacronistica doglianza per la “debellatio” dello Stato Pontificio dalle colonne del quindicinale gesuitico), porterà anche la Chiesa istituzionale a un equo giudizio sull’opera del grande milanese, tanto che nell’Enciclica “Divini Illius Magistri” con cui si chiude il 1929, anno dei Patti Lateranensi, papa Pio XI definirà il conterraneo Manzoni «mirabile scrittore quanto profondo e coscienzioso pensatore». Ancora dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il liberale Benedetto Croce nel 1941, scrivendo per la Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia di Napoli, ricorderà le eccezioni mosse al Manzoni ancora negli anni Venti da un intellettuale cattolico di grande fama, ovvero Giovanni Papini il quale – sulla scorta di critiche mosse all’opera manzoniana, personalmente da Don Bosco nel 1885 – individuava la radice dell’opera manzoniana più nell’illuminismo che nel cattolicesimo, ridotto nella concezione manzoniana ad «un umanitarismo sociale con dei riti da godere più che da approfondire». L’impressione che si ricava dalla foto che ritrae il vecchio don Lisander sul letto di morte, però è la stessa che il Poeta aveva descritto in morte di Napoleone nella celebre ode: il Dio - Signore della storia il quale, sempre e comunque e quali che siano i mezzi che liberamente sceglie per l’unico obiettivo che è la salvezza dell’uomo, come affermato dall’Autore ne I promessi sposi – che atterra e rialza, che dà dolori e consola, si era posto accanto a lui, per consolarlo nel momento solitario del passaggio all’altra riva. Lasciando ai posteri l’ardua sentenza (Fonte: Facebook, 22.5.2023, con lievi modifiche ed adattamenti). 

In ricordo del centenario manzoniano, rilanciamo questo contributo.

Alessandro Manzoni sul letto di morte

Manzoni antirivoluzionario

di Riccardo Pedrizzi

A 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, vogliamo ricordare questo “grande italiano” riproponendo alle nuove generazioni un saggio poco noto scritto dall’Autore, che ci offre efficaci spunti di riflessione. 

Ricorre quest’anno il centocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro Manzoni. Era nato infatti il 7 marzo 1785 e morto il 22 maggio 1873. Non sappiamo ancora se in questo clima di cancel culture ci saranno celebrazioni adeguate per ricordare questo grande italiano. Anche perché c’è stato addirittura chi ha chiesto di eliminare il suo studio dalle scuole secondarie superiori. Certamente, però, non ci capiterà di veder ricordato o solo menzionato, nemmeno dai suoi estimatori, tra le varie opere dello scrittore milanese da salvaguardare e da proporre alle nuove generazioni, il saggio, invero assai poco noto, La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859

Del resto lo stesso autore dei Promessi sposi, che per il più conosciuto e apprezzato romanzo storico si era rivolto, in questo caso forse scaramanticamente o per ostentare modestia, agli ormai famosi “venticinque lettori”, prevedendo l’insuccesso di questa sua ulteriore fatica, nella quale sosteneva, anche per i suoi tempi, delle tesi controcorrente, si augurava di toccare il cielo con un dito, se fosse riuscito «d’attirare un piccolo numero di lettori, non già ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in esame». 

C’è da scommettere, però, che nemmeno ai nostri giorni ciò sia possibile, dal momento che una vera e propria congiura del silenzio è scesa su quest’opera manzoniana. In verità, fin dall’inizio il progetto di mettere a confronto, evidenziandone le differenze, le due rivoluzioni, quella francese e quella italiana, nacque sotto una cattiva stella, tanto da rimanere incompiuto.

Alessandro Manzoni iniziò a scrivere questo saggio quando ormai era già un grande vecchio, circondato dall’ammirazione generale, e subito, perciò, si rese conto che non sarebbe riuscito a portarlo a termine, tanto che acconsentì alle insistenze dell’amico Stefano Stampa di scrivere la prefazione al libro anche prima di completarlo con la seconda parte, relativa alla rivoluzione italiana e ai suoi moti del 1859 [1].

«È necessario, necessarissimo – continuerà a ripetergli Stampa – che prima di andare avanti ancora, tu scriva subito una prefazione che spieghi lo scopo del tuo lavoro». Lo scrittore della Storia della colonna infame la prepara una prima volta, ma ne resta insoddisfatto, poi una seconda, infine una terza. A questo punto cade definitivamente la mano sui fogli e l’intera opera resta incompiuta e vedrà la luce, monca, nel 1889, nel primo centenario del moto rivoluzionario francese, postuma. 

Questa cattiva sorte continua ancora oggi ad accompagnare il volume, se si pensa che anche nel mare di pubblicazioni e di libri che apparvero in occasione del Bicentenario della Rivoluzione francese, è mancata proprio quest’opera.

Oggi sulla Rivoluzione francese si è scritto e si trova di tutto: da testi ormai superati a volumi che in altri paesi sono già caduti nel dimenticatoio, da ricerche rimasticate presentate come nuove, a presunte “rivelazioni” su fatti insignificanti ed ininfluenti, da “intuizioni” spacciate come originali ad interpretazioni datate di avvenimenti e personaggi; eppure solo in qualche occasione è capitato di leggere il titolo del libro manzoniano e men che meno di sentir riecheggiare in convegni o tavole rotonde il suo contenuto e le sue tesi. Per questo non sembra esagerato affermare che, se la lacuna non fosse stata colmata solo un decennio fa dalla casa editrice “Costa & Nolan” di Genova, “il piccolo numero di lettori”, a cui si rivolse il Manzoni, sarebbe stato ancora più esiguo.

Non molti, infatti, sanno che il poeta degli Inni sacri aveva anche scritto questo saggio; solamente alcuni, poi, ne conoscono per sommi capi il succo; pochissimi, infine, hanno letto l’intero volume e tra questi sicuramente il professor Rosario Ameno ed il professor Augusto Del Noce, con i quali ne parlai nel corso di due interviste che mi rilasciarono alcuni anni fa. Entrambi convennero sull’importanza del libro e sulla necessità di farlo conoscere.

Il fatto è che al potere culturale, editoriale e politico non è mai piaciuto dover ammettere, e quindi far sapere al grande pubblico, che uno scrittore del calibro del Manzoni, studiato da tutte le ultime generazioni di studenti, amato da molti di essi, abbia potuto scrivere un’opera nella quale ha documentato e dimostrato, senza mai cadere in un ottuso reazionarismo, che la Rivoluzione francese non era affatto inevitabile; che, invece, sono stati gli uomini, certi uomini, ad inventare “l’inevitabile” (come successivamente affermò, dimostrandone mirabilmente i meccanismi e le tecniche, lo storico e sociologo francese Augustin Cochin); che Luigi XVI non era per niente un re assolutista contrario alle riforme, riforme che anzi aveva proposto alla vigilia della convocazione degli Stati Generali; che il sistema dell’Ancien Régime poteva essere reso più giusto senza provocare il male e i disastri che afflissero la Francia e l’Europa; che la rivoluzione è stata un tutt’uno di illegalità e di terrore e che non può essere suddivisa, come ha tentato di fare qualcuno in malafede, «in due tempi affatto diversi: il primo, di intenti benevoli e sapienti e di sforzi generosi; il secondo di deliri e scellerataggini»; che insomma, l’Ottantanove portò il terrore e «l’oppressione del paese, sotto nome di libertà». 

Manzoni, dunque, contro la Rivoluzione, che ha dato i natali al mondo moderno; Manzoni, come qualcuno ha scritto, contro la storia; Manzoni antirivoluzionario: è un vero e proprio scacco per la cultura ufficiale! Per questo è calata su quest’opera una vera e propria coltre di silenzio.

A questa operazione di occultamento e di rimozione dalla memoria si sono prestati anche molti cattolici. Sia quelli di orientamento liberal-democratico, che avendo da sempre tentato di giustificare e di far apparire compatibile la Rivoluzione e le sue “verità impazzite” con il messaggio evangelico, hanno operato un vero e proprio ostracismo per tutti quegli autori e quei testi che non risultassero funzionali alla strategia di “accomodamento” della dottrina della Chiesa ai valori comuni del mondo. Sia quelli di sponda controrivoluzionaria, che non hanno ancora rimosso o attenuato il vecchio, ottocentesco rancore verso le aperture liberali e le simpatie unitarie del vecchio scrittore. L’operazione, però, che è stata portata a termine intorno a quest’opera, con la congiura di un silenzio così ermetico, avrebbe dovuto far sorgere qualche sospetto o, quantomeno, un minimo di curiosità: invece si va avanti su questa strada e ci si priva, così di tesi e di argomentazioni che potrebbero essere utili per ristabilire finalmente la verità su di una tragedia che continua ad essere avvolta dai “miti” e dalle “leggende” fatte fiorire ad arte da storici e politici di parte.

Scritto con la maestria letteraria che tutti abbiamo avuto modo di apprezzare attraverso le opere più note, il saggio, sostenuto da una documentazione originale e rigorosa, si snoda con la forza appassionata di un romanzo, nel quale si muovono i personaggi, che furono i protagonisti della Rivoluzione, con le loro passioni, i loro pregi e i loro difetti. Anche le similitudini utilizzate dall’Autore risultano, come del resto ciascuno ha potuto sperimentare leggendo le sue opere più note, efficacissime e suggestive come quella, ad esempio, che si riferisce appunto, alla Rivoluzione e che viene ripresa dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica.

«Una rivoluzione... nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle condizioni del potere, o chi ne deve essere investito, ma sia messo in questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che s’intraprende, credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve, col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù, si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e... e a caposcala, al luogo dove si starà di casa, quando s’arriva? Quando, voglio dire, comincia uno stato di cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli casi... fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo può dire ognuno».

L’approfondita indagine psicologica, poi, delle folle e dei singoli personaggi, la colorita descrizione degli scenari ambientali e sociali, il preciso raffronto tra la Rivoluzione americana e quella francese, che non hanno nulla di analogo (come già dimostrò Edmund Bruke), i toni pacati delle argomentazioni, la difesa equilibrata dello stato monarchico e del re di Francia, la partecipazione emotiva ai singoli avvenimenti, la sua rigorosa scelta di campo contro ogni sopraffazione e ogni sopruso, sono, tra gli altri, requisiti che difficilmente si possono trovare in altri testi e che dovrebbero indurre almeno i cattolici a fare di tutto per rompere il muro di omertà e di silenzio che circonda questa “Rivoluzione” di Alessandro Manzoni. 

Nota

Cf R. Pedrizzi, Rivoluzione e dintorni. Dalle prime reazioni all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica, c. XVII: Il Manzoni “antirivoluzionario”, Editoriale Pantheon.

Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, fasc. n. 19, 14.5.2023



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