mercoledì 19 dicembre 2018

Commento al cap. III della Sacrosanctum Concilium in occasione della III Antifona Maggiore

In questo giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i Vespri, al Magnificat ed al versetto alleluiatico del Vangelo è la III: O Radix Jesse.







Proseguiamo la lettura della Sacrosanctum Concilium, pubblicando il commento al suo cap. III di don Matteo de Meo.

Commento al capitolo III della Costituzione Sacrosanctum Concilium

di Don Matteo De Meo

«La mia breve riflessione critica sulla Costituzione Liturgica Sacrosanctum Concilium parte da una domanda di fondo: nel parlare di crisi postconciliare, di riforma liturgica ambiguamente applicata, di deriva liturgica, ecc., si deve o no chiamare in causa anche il Concilio?
Negli studi e negli esami critici del Vaticano II, rifioriti con un certo vigore nel seppur breve pontificato di Benedetto XVI, emerge in maniera inequivocabile che un “postconcilio” evidentemente presuppone un Concilio con i suoi contenuti.
Mi riferisco in particolar modo a tutti quegli autori che fanno esplicitamente riferimento a Mons. Gherardini, i quali affermano che la riforma liturgica così come è stata, ed è ancor oggi applicata, presuppone una certa qual ambiguità presente negli stessi contenuti della Costituzione Sacrosanctum Concilium. Questa ha sì riaffermato concetti tradizionali, tuttavia «i neomodernisti disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in chiave eversiva» (cfr. B. Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco, Lindau, Torino 2012; Id., Contrappunto conciliare, Lindau, Torino 2013).
Non sono poche, infatti, quelle parti che nel documento sono suscettibili a diverse interpretazioni, a volte anche opposte fra di loro. Tutto ciò ha reso possibili numerosi cambiamenti e discutibili innovazioni. Per fare solo qualche esempio più evidente: pur riaffermando la centralità dell’uso liturgico del latino, che resta la lingua ufficiale della Chiesa, si è nello stesso tempo ammesso la possibilità di numerose eccezioni a favore della lingua volgare (Sacrosanctum Concilium 36 §2); e come il principio stesso dell’innovazione liturgica vi sia in realtà ammesso in modo abbastanza facile, all’art. 21.
Credo che proprio alla Sacrosanctum Concilium (art. 22 §2 e art. 40) si deve la diffusione del principio della “creatività” in liturgia, sotto forma iniziale di “esperimenti” da approvarsi con la dovuta cautela, si capisce, e sotto il controllo formale della Santa Sede; controllo ridottosi spesso nei fatti alla semplice presa d’atto. Non dimentichiamoci che lo schema approvato della Sacrosanctum Concilium fu con forza criticato dal cardinal Ottaviani e da tutti i più autorevoli rappresentanti della Curia. In esso si nota subito la tendenza a favore del cambiamento e della semplificazione dei riti (artt. 35, 50.2, 117.2), di renderli «più facili», «più comprensibili», «più chiari» all’uomo del nostro tempo (artt. 21.2, 34, 59.2, 72, 77.1, 79.1, 90.2, 92). Un’esigenza che non venne mai presa in considerazione nel precedente Magistero, che aveva come caposaldo la difesa e la custodia dell’immutabilità del rito, inevitabile riflesso dell’immutabilità del dogma. Dobbiamo prendere atto che con questo metodo, pur affermando la necessità del latino come lingua ufficiale della Chiesa e della sua liturgia e, quindi, del suo mantenimento e della sua custodia, si è di fatto messo in atto un sistema per usare maggiormente la lingua volgare, sotto l’egida del principio della sperimentazione (artt. 63, 65, 76, 77, 78, 101, 113).

Ma proseguiamo dando una lettura sintetica di questo III capitolo, evidenziando solo alcuni passaggi “ambigui” in modo da poter suscitare un ulteriore desiderio di approfondimento del testo stesso.
I primi articoli scorrono senza problemi di sorta, ma già nei numeri 62 e 63 si affacciano le prime ambiguità là dove si impone di adeguare “alle esigenze del nostro tempo” e “alla necessità delle singole regioni” i rituali. In questo modo non si è favorito di fatto la disgregazione di quell’unità formale del rito che aveva da sempre garantito l’universalità, ovvero la cattolicità della Chiesa? Si è demandato, inoltre, alle autorità ecclesiastiche particolari la competenza di revisione e di giudizio pur rivendicando il diritto di revisione alla Sede Apostolica. In questo modo di fatto si è messo in moto quel meccanismo per cui oggi ogni diocesi si fa la sua liturgia, senza mettere in conto gli innumerevoli abusi liturgici che oramai imperversano nelle parrocchie.
Se una certa restaurazione del catecumenato può anche essere positiva, chiediamoci - dato che si vuol sempre far riferimento alla Chiesa delle origini - perché nell’art. 64 non si è nemmeno accennato all’antica distinzione tra Messa dei catecumeni (letture ed omelia), alla fine della quale veniva pronunciato “l’extra omnes”, cioè “fuori tutti i non battezzati”, e Messa dei fedeli (S. Sacrificio e Comunione), riservata a coloro, che erano stati rigenerati nel fonte battesimale?

L’art. 65 apre un varco all’inserimento nel rito cattolico di «elementi dell’iniziazione (a cosa?) in uso presso ogni popolo». Un’opera che secondo i più autorevoli rappresentanti della missio ad gentes (come per esempio il compianto Piero Gheddo, venuto a mancare giusto un anno fa) «ha limitato quell’opera di civilizzazione di cui sono stati da sempre fautori i missionari in terre pagane, impedendo ai popoli nelle terre di missione di crescere».

Nell’art. 67 non si capisce che cosa nel vecchio rito del battesimo dei bambini non fosse adatto «alla loro reale condizione». Inoltre, si evince dal nuovo rituale una eliminazione della dimensione trascendente e sacrale a favore di una dimensione antropologica e sociale...!!!
Il nuovo battesimo di un bambino o di un adulto (non cattolici) già battezzati, di cui all’art. 69, era in maniera ottimale regolato dal battesimo sub conditione, cioè nel caso che il primo fosse stato valido, cosa possibile, perché chiunque può battezzare facendo “quello che vuole la Chiesa”, il secondo sarebbe stato nullo. C’era una reale esigenza di inventarsi nuovi rituali?

Negli articoli dal 71 all’80 si chiede di riformare un po’ tutti i riti: dalla Cresima all’estrema unzione, dall’ordinazione al matrimonio, dai sacramentali alla professione religiosa: è evidente una certa volontà di cambiamento tout court di tutti gli antichi riti e le antiche tradizioni! È palese l’intenzione di far piazza pulita di secoli di storia e tradizioni, ritenute impropriamente incomprensibili dai fedeli. Invece, con molta facilità, si sorvola nel caso di conversione di un adulto sulla necessità dell’abiura, che confermava la sincerità e la consapevolezza della scelta compiuta.

L’art. 81, poi, in maniera molto concisa e lapidaria, elimina del tutto la dimensione del lutto dal rito funebre, che nella liturgia antica – a torto ritenuta non più adatta ai tempi moderni – è ricco di significati: esprime, con il colore nero dei paramenti e l’assenza di benedizioni, il lutto ed invita a pregare per le anime dei defunti. Il rito scaturito dalla riforma, invece, con gli alleluia e le benedizioni come nelle messe per i vivi, ha perso questa caratteristica. Inoltre il colore viola non indica il lutto, ma la penitenza, per la quale il defunto è oramai fuori tempo massimo: ben pochi, dopo il funerale, visto “che è già in Paradiso”, pregheranno per la sua povera anima.

In conclusione, Sacrosanctum Concilium stabilisce all’art. 4 che i riti esistenti vadano conservati e in ogni modo favoriti e che «dove sia necessario, essi siano riveduti con cautela nell’integrità e nello spirito della sana tradizione». Il Concilio, quindi, raccomanda cautela, prudenza, rispetto della tradizione per ogni innovazione che si rendesse necessaria. Ma nello stesso tempo dissemina il documento di varchi che permettono il contrario.
Si veda ad esempio l’art. 14, in cui si dice che i fedeli devono essere condotti ad una piena, conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Ora, questa actuosa participatio (attiva partecipazione) è ricorrente anche nel Magistero anteriore. Che cosa intendevano, allora, i Padri conciliari raccomandando l’actuosa participatio? Il documento citato prosegue col dire che, «al fine di conseguire quella piena, conscia e attiva partecipazione, i pastori d’anime devono tendere con zelo a tale effetto per mezzo della necessaria educazione del popolo dei fedeli». Una raccomandazione che sarebbe superflua, se si fosse pensato ad una riforma della liturgia come poi avvenne di fatto, in cui il linguaggio è quello quotidiano e la musica ancor più ordinaria. Tanto meno la partecipazione attiva deve necessariamente consistere in una... attività. Come ha chiarito molto bene, tra gli altri, Giovanni Paolo II, «la partecipazione attiva non preclude la attiva passività [bellissimo ossimoro, N.d.A.] del silenzio, della compostezza e dell’ascolto: anzi, la richiede perfino. I fedeli non sono passivi, ad esempio, quando ascoltano le letture o l’omelia, o seguono le preghiere del celebrante e i canti e la musica della liturgia. Queste sono esperienze di silenzio e di immobilità, ma sono nel loro modo profondamente attive» (Giovanni Paolo II, Discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale Stati Uniti d’America del 9.10.1998).
I Padri conciliari non richiesero, quindi, una riforma liturgica che portasse ad una facile e immediata comprensione dei gesti e dei testi della S. Messa da parte dei fedeli; al contrario chiesero che il rito, per natura avvolto di sacralità e di mistero, fosse reso accessibile e partecipato tramite l’educazione religiosa dei fedeli. Poiché è forma di consapevole e attiva partecipazione anche la semplice reverente assistenza al rito.
In questo senso, troviamo la chiave di interpretazione dell’intera Costituzione Liturgica al n. 23: «Non vi deve essere alcuna innovazione a meno che non lo richieda il vero e accertato bene della Chiesa». Non solo: il medesimo articolo continua dicendo che «occorre aver cura che ogni nuova forma [liturgica] adottata cresca in qualche modo organicamente dalle forme già esistenti». Ecco quindi sancito (vanamente, purtroppo) un duplice vincolo ad ogni innovazione: essa dev’essere veramente utile e opportuna, perché la regola è la conservazione dell’esistente, e in ogni caso quell’innovazione di cui sia accertata la sicura utilità dev’essere tale che si inserisca in un’evoluzione organica: quindi senza cesure, invenzioni, ritorni a forme arcaicizzanti».

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