lunedì 4 settembre 2017

Padre Nichols ha ragione quanto alla crisi dottrinale. Ma c’è una risposta migliore

Nella festa di S. Rosalia di Palermo rilanciamo volentieri questo contributo suggeritoci dal nostro amico Epifanio.

Piero Novelli detto il Monrealese, S. Rosalia, XVII sec., collezione privata

Andrea Vaccaro, S. Rosalia di Palermo, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Andrea Sacchi, S. Rosalia di Palermo, XVII sec., museo del Prado, Madrid

Heinrich Schwemminger, Morte di S. Rosalia di Palermo, 1836, collezione privata





Gregorio Tedeschi, Trapasso di S. Rosalia, 1630 circa, Santuario di S. Rosalia, Monte Pellegrino, Palermo










Ignoto napoletano, Statua di S. Rosalia, XVIII-XIX sec., Chiesa madre, Lentiscosa

Nel post di sabato 2 settembre avevamo riportato la Proposta del P. Nichols, pubblicata il 18 agosto scorso, circa le possibilità giuridiche di una correzione formale di un Papa che fosse caduto in eresia e si fosse rivelato pervicace nel sostenerla. The Catholic Herald, il più storico e significativo periodico cattolico britannico, proponeva quello stesso giorno un altro intervento per mezzo di un articolo ragionato, il cui autore è P. Brian Harrison, O.S., teologo australiano, docente emerito di teologia alla Pontifical Catholic University of Puerto Rico, dal momento che parla fluentemente lo spagnolo.

Epifanio

Padre Nichols ha ragione quanto alla crisi dottrinale. Ma c’è una risposta migliore


Di P. Brian Harrison, traduzione di F. S.

La riforma proposta sarebbe difficile da attuare. Ecco un altro modo per cambiare la norma canonica.

Come molti fedeli cattolici, P. Aidan Nichols è preoccupato per l’inasprirsi della crisi dottrinale e pastorale derivante dall’esortazione apostolica di Papa Francesco Amoris Laetitia. Questo documento magistrale è senza precedenti, in quanto sembra essere in conflitto con diversi insegnamenti tradizionali della Chiesa: quelli che, per esempio, vietano la comunione per i cattolici divorziati risposati e quelli che affermano l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi, che non possono mai essere giustificati in nessuna circostanza. Alcuni di questi insegnamenti certamente soddisfano le condizioni circa l’infallibilità stabilite dal Concilio Vaticano II nella Lumen Gentium, n. 25.
Tuttavia, ho alcune riserve attorno alla soluzione proposta da P. Nichols: una nuova procedura canonica «per richiamare all’ordine un Papa che insegni un errore dottrinale».
Come riconosce P. Nichols, l’antico canone, che afferma che «la Prima Sede non è giudicata da nessuno» (c. 1404 nel Codice attuale), non preclude la correzione di un Papa che sbaglia. È presente nella sezione su «I Processi» e significa semplicemente che la Chiesa non riconosce alcun tribunale, laico o religioso, che sia competente a convocare e giudicare il Romano Pontefice. L’autorevole New Commentary on the Code of Canon Law, nello spiegare questo canone, chiarisce che «non è una dichiarazione circa l’impeccabilità personale o l’inerranza del Santo Padre. Se il Papa dovesse cadere in eresia, è chiaro che perderebbe il suo ufficio. Decadere dalla fede di Pietro significa decadere dalla sua sede». La maggior parte dei grandi canonisti, così come i teologi classici come, per es., Suárez, Cajetano, Bellarmino e Giovanni di San Tommaso, hanno sostenuto questa visione, intendendo qui con ‘eresia’ l’eresia formale, che include l’elemento della pertinacia (ostinazione). Essa occorre quando ci si rifiuta di accettare la correzione anche dopo che si sia dimostrato che una certa opinione è in contraddizione con una dottrina che la Chiesa ha proposto come verità rivelata, cioè da credere «per fede divina e cattolica» (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2089).

Una prima soluzione poco adatta ai tempi – il concilio imperfetto


Ma il su citato Commentary aggiunge immediatamente una riserva importante: «Tuttavia, la questione di chi o quale ente … debba determinare se il Papa sia effettivamente caduto in eresia non è storicamente chiara e, ovviamente, non è stabilita da questo canone» (pag. 1618). La maggior parte dei canonisti e dei grandi teologi sopra menzionati sosteneva che solo un Concilio generale imperfetto (composto dall’intero collegio episcopale eccetto il Papa) avrebbe giurisdizione su questa questione. Questo ente, però, se necessario, non deporrebbe il Papa dall’ufficio – qualcosa che va oltre la competenza di una qualsiasi autorità terrena – ma semplicemente dichiarerebbe, come fatto evidente, che il Papa è caduto in eresia formale, col che egli decadrebbe ipso facto dall’ufficio. I Cardinali allora si riunirebbero in conclave per eleggere un nuovo Papa.
Tuttavia, nella procedura di cui sopra, si evidenzierebbe immediatamente una debolezza fatale qualora cercassimo di attuarla nel XXI secolo. E temo che questa debolezza si determinerebbe probabilmente anche al tipo più semplice di procedimento canonico suggerito da P. Nichols – che cercherà non di sostituire il Pontefice regnante, ma solo di correggerlo formalmente. Quei grandi studiosi dei secoli scorsi davano per scontata una cultura ecclesiale in cui il Collegio Episcopale manteneva una profonda e sana avversione verso l’eresia. Essi hanno quindi presupposto che, se un Papa dovesse cadere in eresia (non voglia il Cielo!), egli si sarebbe ritrovato dinnanzi a un solido muro di resistenza da parte dei rimanenti Vescovi e dal Collegio dei Cardinali, fino al punto che, chiunque venisse eletto come nuovo Papa, avrebbe apprezzato l’unanime consenso morale in materia di fede. Problema risolto.
Ma oggi, ogni tentativo di dichiarare un Papa come eretico, comporterebbe semplicemente uno scisma, con un episcopato diviso ed amareggiato e alla guida di due fazioni di fedeli sotto due Papi rivali.

La soluzione proposta da Nichols e le sue criticità


Anche la proposta di P. Nichols, anche se meno drastica, non riuscirà affatto a raggiungere l’effetto desiderato. Il problema fondamentale è che nella Chiesa del dopo-Vaticano II, secolarizzata, ecumenica, dialogica e mediatica, la salvaguardia rigorosa della verità rivelata da Cristo non è più una priorità viscerale per la maggior parte dei cattolici. E questo vale per molti Vescovi e Cardinali (come i due recenti Sinodi Romani hanno dolorosamente reso chiaro). La gerarchia non fa più uno sforzo risoluto per eliminare l’eresia. Infatti, il quadro della situazione è stato ribaltato – e ancor più sotto Papa Francesco – in modo che siano proprio quelli che detestano e si oppongono all’eterodossia che si trovano cacciati, emarginati e rimproverati per il loro «fariseismo», «rigidità», «intolleranza», «legalismo» e «mancanza di misericordia».
All’interno di questa cultura, anche supponendo che il Papa potesse venir persuaso ad approvare una emendamento alla legge canonica con cui egli stesso potesse essere corretto formalmente per un errore di insegnamento, come verrebbe formulato tale emendamento? E come funzionerebbe? Chi avrebbe autorità canonica per decidere se il Santo Padre abbia bisogno di una tale correzione, e poi di portarla avanti? Un vasto consenso di Cardinali e/o di Vescovi? Spiacenti, ma non ci sarà alcun consenso del genere. Una maggioranza semplice o di due terzi? Ancora molto improbabile che sia raggiunto e in ogni caso i Papi possono ignorare le maggioranze. Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede? Il Papa lo potrebbe allontanare e sostituire con la forza di un dito – come abbiamo visto recentemente per quanto è accaduto con il degno e coraggioso Cardinale Müller.

Forse…


Tuttavia, seguendo la traccia di P. Nichols, ho un suggerimento per un emendamento canonico. Il canone 212, §3 già riconosce per tutti i fedeli «in modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono … il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori», anche pubblicamente, la loro opinione su questioni che interessano il bene della Chiesa. Devono però farlo, «salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone». Suggerisco di aggiungere la seguente frase conclusiva al c. 212 §3: «Questo diritto e dovere può estendersi anche a rimostranze pubbliche rivolte al Romano Pontefice, se, in interventi che non si avvalgano della sua prerogativa dell’infallibilità, parrebbe insegnare una dottrina incompatibile con quella dei suoi predecessori alla Cattedra di Pietro».
Si tratterebbe di una modifica modesta, ovviamente non vincolante e con poche o nessuna conseguenza giuridica. Ma darebbe un bello slancio alla triste realtà della fallibilità papale e, come si suol dire, tutto giova.

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