lunedì 20 marzo 2017

Il giusto Giuseppe, provvido Custode della divina Famiglia

Quest’anno, eccezionalmente, la festa di San Giuseppe è, secondo il calendario tradizionale (seguito in questo blog), traslata al 20 marzo, poiché il 19 era III domenica di Quaresima.
In occasione della festa odierna, pubblichiamo volentieri questo contributo sul glorioso Patriarca del prof. Vito Abbruzzi.



S. Giuseppe morente assistito da Gesù e da Maria, XVII-XVIII sec., Sacello, Chiesa di S. Giuseppe, Biella-Riva


Il giusto Giuseppe, provvido Custode della divina Famiglia

di Vito Abbruzzi

Ho già trattato a suo tempo la figura di San Giuseppe quale «uomo giusto, sotto tutti i punti di vista», difendendo il Santo Patriarca dall’atavica infamia di essere stato un “mezzo uomo” (v. qui). Ora – anche su invito del blog – torno volentieri sull’argomento, evidenziando ancor meglio la sua natura di «uomo giusto [zaddik]»: beato in quanto affamato e assetato della giustizia (cfr. Mt. 5, 6), cioè desideroso ardentemente di quello che Dio vuole (secondo la traduzione interconfessionale); il cui giudizio non può non essere che giusto, in quanto non ricerca la propria volontà, ma quella di Dio (cfr. Gv. 5, 30), guardando oltre le semplici apparenze (cfr. Gv. 7, 24).
Ed è proprio in nome della giustizia, tutt’una con la misericordia e la fedeltà (cfr. Mt. 23, 23), che San Giuseppe fu spinto – dopo la comprensibilissima esitazione – a divenire «provvido Custode della divina Famiglia», come si recita nella preghiera a lui rivolta, grazie a «quel sacro vincolo di carità» che lo «strinse all’Immacolata Vergine Maria, Madre di Dio», e «al fanciullo Gesù», a cui, in vero, portò «amore paterno».
Per apprezzare appieno la figura dell’uomo giusto che fu San Giuseppe, mi piace citare quanto a proposito dell’importanza fondamentale della paternità scrive il filosofo Umberto Galimberti ne I miti del nostro tempo (ed. Feltrinelli, Milano 20132, pp. 21-22):
«Non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, è molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l’una e l’altro per creare quell’atmosfera di protezione che scalda il cuore e tiene separato l’amore dall’odio. Lavoro arduo, che tutti coloro che amano conoscono, in quella sottile esperienza dove incerto è il confine tra un abbraccio che accoglie e un abbraccio che avvinghia e strozza. […] Natura vuole che a generare si sia in due, non solo al momento del concepimento e del parto, ma soprattutto nel momento dell’accudimento e della cura. Dove a essere accudita – prima del figlio che segue la sua cadenza biologica – è la madre, che ha messo a disposizione prima il suo corpo, poi il suo tempo, poi il suo spazio esteriore e interiore, infine l’ambivalenza delle sue emozioni che camminano sempre sfiorando quel confine sottile che separa e a un tempo congiunge la vita e la morte, perché così vuole la natura nel suo aspetto materno e crudele.
Nicola Fumo, S. Giuseppe, XVIII sec.,
Convento della Santissima Trinità, Baronissi
Un invito ai padri: tutelate la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà. Questa tutela ha un solo nome: “accudimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine».
È vero quanto Annachiara Valle scrive a tal proposito: che “non ci sarebbe stata la salvezza senza il sì di Maria. Ma neppure senza la ‘custodia’ di Giuseppe, senza quell’uomo, che il Vangelo definisce ‘giusto’, che non smette di amare la sua sposa, di proteggere lei e il bambino” (Il sì di Giuseppe, in giovane che ama, in Credere, 11 dicembre 2016, p. 50). Ma “Giuseppe, che sarà chiamato custode di Gesù, forse è ancora prima custode di Maria” (ivi, p. 52).
Al di là della visione dell’Angelo, che lo rassicura a prendere con sé Maria, sua sposa (cfr. Mt. 1, 20-24), San Giuseppe aderisce alla legge di Dio inscritta nel diritto naturale, a cui Galimberti fa riferimento, dimostrando che la sua giustizia supera – e di gran lunga – quella dei farisei e dei maestri della Legge, meritandosi, per questo, a pieno diritto, l’ingresso nel regno dei cieli (cfr. Mt. 5, 20).

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