Chiarimento cattolico sul Family Day ed opposizione senza se e senza ma alle unioni civili

Come noto, domani 30 gennaio, si svolgerà a Roma la manifestazione delle famiglie contrarie al d.d.l. Cirinnà bis, noto come Family Day.
A questa manifestazione parteciperanno diverse sigle cattoliche, tra le quali anche il popolo del Summorum Pontificum e la stessa Fraternità San Pio X. Tuttavia sebbene sia giusto per un cattolico opporsi all’innovazione legislativa che si vorrebbe introdurre, è forse bene ricordare che quest’opposizione non è soltanto contraria all’introduzione, nell’ordinamento italiano, della c.d. stepchild adoption, bensì è più ampia ed estesa. Bisogna chiarire la questione.
In effetti, per un cattolico, non si tratta di scegliere tra un male maggiore (l’introduzione dell’adozione anche per le coppie omosessuali) ed uno minore (il riconoscimento civile delle unioni civili). Entrambe le ipotesi sono inaccettabili e, come mali, sono da porsi sullo stesso piano. In altre parole, non vi è scelta tra diverse gradazioni di male, bensì di opporsi al male tout court.
Perché? Per il semplice motivo che chi sostiene questo, e cioè “riconoscimento sì, adozione no”, semplicemente ignora o non conosce l’ordinamento italiano. In verità, quella che con termine anglosassone si chiama stepchild adoption (oggi va molto di moda usare termini anglosassoni!), ma che potremmo definire come “adozione del figliastro” o adozione in casi particolari, è già nota dal 1983. La l. 4.5.1983 n. 184 – che regola in Italia l’istituto dell’adozione del minore - permette l'adozione del figlio del coniuge, purché vi sia il consenso del genitore biologico ed a condizione che l'adozione corrisponda all'interesse del figlio (cfr. artt. 44 ss.). È previsto anche il consenso di quest’ultimo qualora abbia già compiuto i 14 anni. Nel caso sia tra i 12 e i 14 anni d'età, il Giudice è tenuto ad ascoltare il minore e tener conto dei suoi desideri ed aspirazioni (art. 45). Dunque, quest’istituto già esiste nel nostro ordinamento. Non è una novità e vale per le coppie coniugate e, dunque, eterosessuali. La proposta Cirinnà, sebbene non etichetti le unioni come “matrimoni” (ma è solo una questione di etichetta!!!), in realtà estende i diritti derivanti dal matrimonio, o almeno molti di questi, anche alle semplici unioni civili, comprese quelle tra persone dello stesso sesso. Pertanto, con la novella che si vorrebbe introdurre de facto i partner sarebbe assimilabili ai coniugi e, dunque, ben potrebbero a loro applicarsi le norme previste dalla legge sull’adozione. La limitazione che si vorrebbe imporre, e cioè quella che solo le unioni eterosessuali possano ricorrere alla stepchild, potrebbe presentare problemi di costituzionalità, in quanto le coppie omosessuali si troverebbero discriminate e, dunque, penalizzate. Il ricorso alla Consulta sarebbe inevitabile, la quale – vista anche la sua attuale composizione a preponderante maggioranza laicista – senz’altro dichiarerebbe l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non permettesse anche alle coppie omosessuali il ricorso all’adozione ex artt. 44 ss. l. 184/1983. Dunque, quest’istituto, escluso dal legislatore, vi rientrerebbe per via giurisprudenziale …. Un po’ come successo per la legge sulla fecondazione artificiale, la l. n. 40/2004, che oggi è stata praticamente scardinata per via di picconate assestate dal Giudice delle leggi e dalla giurisprudenza. Perciò, il problema sarebbe – nel caso dell’esclusione dello stepchild – semplicemente rimandato nel tempo, giammai risolto, e per giunta affidato alla mano dei giudici – costituzionali in primis. Ecco perché non è condivisibile la soluzione “riconoscimento sì, adozione no”, atteso che è sostanzialmente un boomerang, che rischia di far rientrare nel breve-medio periodo ciò che si vorrebbe escludere. Insomma, un’illusione o, se preferiamo, una falsa opposizione.
Un cattolico, perciò, non potrà che esprimere la propria radicale e totale opposizione a questo progetto, ivi incluso, soprattutto, il riconoscimento delle unioni civili (l’adozione ne è una diretta conseguenza!). Peraltro tale riconoscimento “dei diritti” è solo una questione ideologica e formale, visto che la giurisprudenza ha riconosciuto alle unioni civili, c.d. unioni di fatto o more uxorio oggi esistenti, pressoché gli stessi diritti che il d.d.l. Cirinnà bis - nel tempo ci sono state circa cinquanta proposte di legge in tal senso (v. qui) - vorrebbe attribuire o riattribuire (v. qui, qui e qui. Cfr. anche qui e qui, ove si ricorda come taluni diritti dei conviventi semplicemente devono passare attraverso la formalizzazione di appositi contratti o clausole negoziali, il che coerentemente con la natura di fatto dell’unione). A che pro dunque una legge? Al solo scopo di equiparare al matrimonio (che per un cattolico è anche un sacramento) le unioni civili. Una volta riconosciuti i medesimi diritti, verrà meno anche l’etichetta. Questa sarebbe la strada, che si vorrebbe far percorrere all’Italia. Per rendersene conto, basta guardare all’esperienza francese dove, introdotto il PACS nel 1999, dopo una decina d’anni, nel 2013, non si sono avute remore a passare al matrimonio vero e proprio essendosi i francesi abituati all’idea che i pattisti fossero dei veri e propri coniugi con i medesimi diritti derivanti dal matrimonio e che quindi fosse inutile mantenere una distinzione tra etichette. La stessa cosa avverrà in Italia: si inizia con le unioni civili e si finirà ineluttabilmente tra una decina d’anni ad un vero e proprio matrimonio.  Un motivo in più per un cattolico di opporvisi senza compromessi di sorta sulla legge morale, senza se e senza ma, non potendosi accettare alcun accomodamento, che peraltro suonerebbe da presa in giro, come cercato sinteticamente di illustrare.
Ecco perché un cattolico dovrebbe partecipare al Family Day con la puntualizzazione che egli deve dissociarsi anticipatamente da qualsiasi lettura “compromissoria” o “del male minore”, che dovesse darsi dagli organizzatori o dai vescovi (v. qui), e che fosse in contrasto con la legge morale non solo riguardo ai minori, ma anche e soprattutto riguardo al riconoscimento legislativo di siffatte unioni parafamiliari.

Mons. Galantino col ministro Boschi

FAMILY DAY: il “non possumus” del popolo cattolico

di Lupo Glori

Il Family Dayche si terrà a Roma il prossimo sabato 30 gennaio, per protestare contro il ddl Cirinnà, che giovedì 28 gennaio approderà in Aula al Senato per la decisiva discussione generale, sta raccogliendo un numero di adesioni superiore alle aspettative da parte di tutto il mondo, non solo cattolico, schierato a difesa della famiglia.
Nella grande area del Circo Massimo si raduneranno migliaia di associazioni, di gruppi e di famiglie, provenienti da tutta Italia per manifestare la propria ferma opposizione alle unioni civili e all’istituto della cosiddetta stepchild adoption, previsti dal disegno di legge n. 2081, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze. La straordinaria mobilitazione nazionale di questi giorni contro il ddl Cirinnà ha fatto sorgere spontaneo l’inevitabile paragone con il Family Day del 2007, indetto per affossare i cosiddetti DICO e dare una spallata decisiva all’allora governo Prodi.
Tuttavia, le differenze tra ieri ed oggi sono profonde e la manifestazione del prossimo 30 gennaio non sarà una fotocopia di quella del 12 maggio 2007. A distanza di quasi dieci anni i rapporti di forza in campo sembrano infatti essersi clamorosamente capovolti, così che, se nel 2007 era stata la Chiesa, attraverso le sue più autorevoli istituzioni, a chiamare a raccolta il popolo cattolico per scendere in piazza contro un disegno di legge inaccettabile, oggi, i ruoli si sono paradossalmente rovesciati e, dopo le prove generali di piazza San Giovanni del 20 giugno, è lo stesso popolo cattolico a rivolgere un accorato “non possumus” alle gerarchie ecclesiastiche, invitandole a scendere in piazza a loro fianco.
Un evidente e brusco cambio di rotta messo in evidenza da Agostino Giovagnoli suLa Repubblica, il quale ha sottolineato tale inedito movimento dal basso, scrivendo: «Nel 2007, mentre era papa Benedetto XVI, la regia del Family day fu di Camillo Ruini, Presidente della Cei; alle associazioni del laicato cattolico fu imposto di partecipare; oratore di quella giornata fu Savino Pezzotta che era stato relatore ufficiale al Convegno nazionale della Chiesa italiana l’anno prima; l’obiettivo era affossare i Dico. La Chiesa italiana, insomma, scese in campo, serrando le fila, in nome di valori morali non negoziabili ma combattendo una battaglia politica. La manifestazione del prossimo 30 gennaio, invece, non è voluta dalla Cei e su di essa i vescovi hanno espresso opinioni diverse. Le associazioni cattoliche non sono obbligate a partecipare e infatti solo alcune saranno presenti. Realtà ecclesiali come il Movimento dei Focolari hanno espresso perplessità e Comunione e Liberazione non ha preso posizione. L’Associazione Scienza e Vita non aderisce ma alcuni suoi rappresentanti saranno presenti».
Per una giornata, che si preannuncia storica, diverse associazioni metteranno da parte le loro discordanti visioni “strategiche”, circa la linea d’azione da seguire per contrastare l’apparentemente inarrestabile processo rivoluzionario, e scenderanno unite in piazza per far sentire forte la propria voce e affermare il valore fondamentale dell’istituto famigliare naturale fondato sul matrimonio indissolubile tra un uomo ed una donna, nucleo primario di formazione dell’uomo e cellula vitale di ogni società.
Tra coloro che hanno espresso la loro adesione critica al Family Day, segnaliamo alcune associazioni che da sempre si contraddistinguono, nella battaglia culturale in atto, per una difesa ferma ed integrale della verità: l’Associazione Famiglia Domani,Il Cammino dei Tre Sentieri, il Comitato Verità e Vita.
L’ Associazione Famiglia Domani, nel suo comunicato stampa, ha dichiarato la sua adesione al Family Day del 30 gennaio, specificando però come essa non possa prescindere da un NO totale al ddl Cirinnà: «in primo luogo NO alle unioni civili di qualsiasi forma e in secondo luogo NO alla “stepchild adoption”». L’associazione, che ha il suo storico fondatore nel marchese Luigi Coda Nunziante (1930-2015), ha inoltre espresso le proprie perplessità riguardo l’eccessiva concentrazione del dibattito sul ddl Cirinnà attorno al «pur giusto diritto del bambino ad aver una madre ed un padre, oggi minacciato dall’adozione dei minori all’interno delle coppie dello stesso sesso e da istituti differenti quali la stepchild adoption, l’affido “rafforzato” e l’utero in affitto». Una posizione di lotta alquanto discutibile, che «rischia di tacere sull’inaccettabile approvazione delle unioni civili, in qualsiasi modo esse vengano declinate, sia appellandosi ai presunti diritti delle persone omosessuali in quanto tali, sia al falso principio della non-discriminazione». Per queste ragioni, Famiglia Domani «rifiuta in toto il disegno di legge Cirinnà ed afferma con forza come la salvaguardia della famiglia sia inscindibile da una difesa totale ed integrale della verità e dell’ordine naturale e cristiano».
Anche il Cammino dei Tre Sentieri, diretto dal prof. Corrado Gnerre, fornisce alcune doverose indicazioni ai propri amici che si apprestano a recarsi a Roma, precisando come «alcuni noti esponenti del Family Day (tra cui lo stesso portavoce, Massimo Gandolfini) si sono espressi come non contrari ad un disegno di legge che riconosca legalmente le unioni omosessuali, purché non presentino alcuna equiparazione al matrimonio». Una posizione prosegue il testo, «ovviamente non condivisibile né sul piano morale né su quello più specificamente “strategico” ˗ dal momento che ˗riconosciute le cosiddette “unioni civili”, il passo verso il diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali sarà quanto mai breve e del tutto consequenziale». Tuttavia, tale dissenso “strategico” non compromette l’adesione dell’associazione alla manifestazione in quanto scopo principale del Family Day, secondo le dichiarazioni degli organizzatori, è il rifiuto totale del “ddl “Cirinnà” ed inoltre esso rappresenta «l’unica possibilità concreta per esprimere in maniera chiara e con adeguata risonanza mediatica il proprio dissenso nei confronti del DDL».
Un’altra valorosa associazione, il Comitato Verità e Vita, fondato dal compianto Mario Palmaro (1968-2014) ed oggi diretto dal dott. Angelo Francesco Filardo, aderisce al Family Day, ribadendo il «valore fondamentale della famiglia nata dal matrimonio di un uomo e di una donna». Il Comitato lancia un vero e proprio appello al mondo politico affinché ogni singolo senatore e deputato «respinga in toto il ddl Cirinnà con ogni sua probabile eventuale modifica ed ogni ddl sulle unioni civili che anche implicitamente (con velato rimando a norme che regolano il matrimonio) possa equiparare od offrire ai giudici creativi la possibilità di equiparare le unioni civili al matrimonio, votando NO anche ad un eventuale voto di fiducia posto dal Governo».
Rivolgendosi a tutti i parlamentari cattolici, Verità e Vita, sottolinea come sia preferibile una crisi di governo all’introduzione nel nostro ordinamento di una legge che porterebbe alla distruzione della famiglia, cellula primaria della società: «Riteniamo, meno disastroso per l’Italia, per l’Europa e per tutto il genere umano far cadere il Governo che contribuire con il proprio voto o con la propria non partecipazione al voto alla distruzione della famiglia, cellula fondamentale ed insostituibile di ogni società in ogni tempo e luogo!».
Il filo conduttore che accomuna le posizioni espresse nei tre comunicati è il netto rifiuto di qualsiasi compromesso con i nemici dell’ordine naturale e cristiano. Una visione per la quale, un’efficace opposizione alla deriva nichilista contemporanea non può, in alcun modo, prescindere da una difesa della verità che sia totale ed integrale. Per questa ragione, le tre associazioni invitano tutti i propri amici e sostenitori a recarsi a Roma il prossimo 30 gennaio per affermare, senza cedimenti e senza compromessi, il proprio NO assoluto all’iniquo disegno di legge Cirinnà.

La penitenza chiesta dal Cielo e odiata dal mondo

Nella festa di S. Francesco di Sales, vescovo, confessore e Dottore della Chiesa, rilancio questo contributo del prof. De Mattei, tradotto in inglese da Rorate caeli.






Lazzaro Baldi, Predica di S. Francesco di Sales, XVII sec., collezione privata

Carlo Maratta, S. Francesco di Sales in meditazione, 1662 circa




Carlo Maratta, La Vergine appare a S. Francesco di Sales, 1691 circa, Pinacoteca civica, Bassano del Grappa

Ubaldo Gandolfi, S. Francesco di Sales consegna le costituzioni a S. Francesca di Chantal, 1769, Chiesa di S. Benedetto, Bologna

Scuola pratese, S. Francesco di Sales, XVIII sec., museo diocesano, Prato

Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales riceve i voti di S. Giovanna Francesca di Chantal, 1753, Narodna Galerija, Lubiana

Valentin Metzinger, S. Francesco di Sales in polemica con un calvinista, 1753-55, Narodna Galerija, Lubiana

Valentin Metzinger, Visione di S. Francesco di Sales, 1753, Narodna Galerija, Lubiana

Ambito campano, S. Francesco di Sales, XVIII-XIX sec., museo diocesano, Napoli



Anonimo, S. Francesco di Sales consegna la Regola a S. Francesca de Chantal, XIX sec., Chiesa della Visitazione, Parigi

Enrico Reffo, S. Francesco mentre scrive ispirato, 1896






Giovanni Marchiori, Immacolata tra i SS. Francesco di sales e Giovanni Nepomuceno, Chiesa dei SS. Geremia e Lucia, Venezia

La penitenza chiesta dal Cielo e odiata dal mondo

di Roberto de Mattei

Se c’è un concetto radicalmente estraneo alla mentalità contemporanea è quello di penitenza. Il termine e la nozione di penitenza evocano l’idea di una sofferenza che infliggiamo a noi stessi per espiare colpe proprie o altrui e per unirci ai meriti della Passione redentrice di Nostro Signore Gesù Cristo.
Il mondo moderno rifiuta il concetto di penitenza perché è immerso nell’edonismo e perché professa il relativismo che è la negazione di qualsiasi bene per il quale valga la pena di sacrificarsi, a meno che non sia la ricerca del piacere. Solo questo può spiegare episodi come il furibondo attacco mediatico in corso contro le Francescane dell’Immacolata, i cui monasteri vengono dipinti come luoghi di sevizie, solo perché in essi si è praticata una vita austera e penitente.
Usare il cilicio o imprimere sul proprio petto il monogramma del nome di Gesù viene considerato una barbarie, mentre praticare il sadomasochismo o tatuare indelebilmente il proprio corpo è oggi considerato un diritto inalienabile della persona. I nemici della Chiesa ripetono con tutta la forza di cui i media sono capaci le accuse degli anticlericali di tutti i tempi. Ciò che è nuovo è l’atteggiamento di quelle autorità ecclesiastiche che invece di prendere le difese delle suore diffamate, le abbandonano, con segreto compiacimento, al carnefice mediatico. Il compiacimento nasce dall’incompatibilità che esiste tra le regole a cui queste religiose si ostinano ad uniformarsi e i nuovi standard imposti dal “cattolicesimo adulto”.
Lo spirito di penitenza appartiene, fin dalle origini alla Chiesa cattolica, come ci ricordano le figure di san Giovanni Battista e santa Maria Maddalena, ma oggi anche per molti uomini di Chiesa ogni richiamo alle antiche pratiche ascetiche è considerato intollerabile. Eppure non v’è dottrina più ragionevole di quella che stabilisce la necessità della mortificazione della carne.
Se il corpo è in rivolta contro lo spirito (Gal 5, 16-25), non è forse ragionevole e prudente castigarlo? Nessun uomo è esente dal peccato, neppure i “cristiani adulti”. Dunque chi espia i propri peccati con la penitenza non agisce forse secondo un principio tanto logico quanto salutare? Le penitenze mortificano l’Io, piegano la natura ribelle, riparano ed espiano i peccati propri ed altrui. Se poi consideriamo le anime amanti di Dio, che cercano la somiglianza con il Crocifisso, allora la penitenza diviene una necessità dell’amore.
Sono celebri le pagine del De Laude flagellorum di san Pier Damiani, il grande riformatore dell’XI secolo, il cui monastero di Fonte Avellana era caratterizzato da un’estrema austerità nelle regole. «Vorrei subire il martirio per Cristo – egli scriveva – non ne ho l’occasione; ma sottoponendomi ai colpi, almeno manifesto la volontà della mia anima ardente» (Epistola VI, 27, 416 c.). Ogni riforma, nella storia della Chiesa, è avvenuta con l’intento di riparare con le austerità e le penitenze i mali del tempo.
Nel XVI e XVII secolo, i Minimi di san Francesco di Paola praticano (e praticheranno fino al 1975) un voto di vita quaresimale che impone loro l’astensione perpetua non solo di carne, ma di uova, latte e tutti i suoi derivati; i Recolletti consumano il proprio pasto in terra, mescolano cenere ai cibi, si allungano davanti alla porta del Refettorio sotto i piedi dei Religiosi che entrano; i Fatebenefratelli prevedono nelle loro costituzioni di «mangiare in terra, baciare i piedi dei fratelli, subire riprensioni pubbliche e accusarsi pubblicamente».
Analoghe sono le Regole dei Barnabiti, degli Scolopi, dell’Oratorio di san Filippo Neri, dei Teatini. Non c’è istituto religioso, come documenta Lukas Holste, che non preveda nelle proprie costituzioni, la prassi del capitolo delle colpe, la disciplina più volte la settimana, i digiuni, la diminuzione delle ore di sonno e di riposo (Codex regularum monasticarum et canonicarum, (1759) Akademische Druck und Verlaganstalt, Graz 1958).
A queste penitenze “di regola”, i religiosi più ferventi aggiungevano le cosiddette penitenze “supererogatorie”, lasciate alla discrezione personale. Sant’Alberto di Gerusalemme, ad esempio, nella Regola scritta per i Carmelitani e confermata da papa Onorio III nel 1226, dopo aver descritto il genere di vita dell’Ordine e le relative penitenze da praticare, conclude: «Se qualcuno poi vorrà dare di più, il Signore stesso al suo ritorno lo ricompenserà».
Benedetto XIV, che era un Papa mite ed equilibrato, affidò la preparazione del Giubileo del 1750 a due grandi penitenti san Leonardo da Porto Maurizio e san Paolo della Croce. Fra Diego da Firenze, ci ha lasciato un diario della missione tenuta in piazza Navona dal 13 al 25 luglio 1759 da san Leonardo da Porto Maurizio, che con una pesante catena al collo e una corona di spine in capo si flagellava davanti alla folla gridando: «O penitenza o inferno» (San Leonardo da Porto Maurizio, Opere complete. Diario di Fra Diego, Venezia 1868, vol. V, p. 249).
San Paolo della Croce, terminava la sua predicazione infliggendosi dei colpi così violenti che spesso qualche fedele non resisteva più allo spettacolo e saltava sul palco, a rischio di essere colpito egli stesso, per arrestargli il braccio (I processi di beatificazione di canonizzazione di san Paolo della Croce, Postulazione generale dei PP. Passionisti, I, Roma 1969, p. 493).
La penitenza è stata praticata ininterrottamente per duemila anni dai santi (canonizzati e non) che – con la loro vita – hanno contribuito a scrivere la storia della Chiesa, da santa Giovanna di Chantal e santa Veronica Giuliana, che si incisero sul petto il Cristogramma con il ferro incandescente, a santa Teresa del Bambin Gesù, che scrive il Credo col suo sangue, alla fine del libriccino dei Santi Vangeli che porta sempre sul cuore.
Questa generosità non caratterizza solo le monache contemplative. Nel Novecento due santi diplomatici illuminano la Curia romana: il cardinale Rafael Merry del Val (1865-1930), segretario di stato di san Pio X e il servo di Dio mons. Giuseppe Canovai (1904-1942), rappresentante della Santa Sede in Argentina e in Cile.
Il primo, indossava sotto la porpora cardinalizia, una camicia di crine intrecciata con piccoli ganci di ferro. Del secondo, autore di una preghiera scritta col sangue, il cardinale Siri scrive: «le catenelle, i cilizi, i flagelli orribili a base di lama da barba, le ferite, le cicatrizzazioni incalzate da supervenienti ferite non sono il principio, ma il termine di un fuoco interiore; non la causa; ma la eloquente e rivelatrice esplosione di esso. Si trattava della chiarezza per cui in sé ed in ogni cosa vedeva un valore per amare Dio e per cui vedeva assicurato nel lancinante sacrificio del sangue la sincerità d’ogni altra interiore rinuncia» (Commemorazione per la Positio di beatificazione del 23 marzo 1951).
Fu negli anni Cinquanta del Novecento che le pratiche ascetiche e spirituali della Chiesa iniziarono a declinare. Il padre Giovanni Battista Janssens, generale della Compagnia di Gesù (1946-1964), intervenne più di una volta, per richiamare i propri confratelli allo spirito di sant’Ignazio. Nel 1952 inviò loro una lettera sulla «continua mortificazione», in cui si opponeva alle posizioni della nouvelle théologie, che tendevano a escludere la penitenza riparatrice e quella impetratoria e scriveva che digiuni, flagelli, cilizi e altre asperità devono restare nascoste agli uomini secondo la norma di Cristo (Mt 6, 16-18), ma devono essere insegnate e inculcate ai giovani gesuiti fino al terzo anno di probazione (Dizionario degli Istituti di Perfezione, vol. VII, col. 472). Possono cambiare, nei secoli, le forme di penitenza, ma non può mutare lo spirito, sempre opposto a quello del mondo. Prevedendo l’apostasia spirituale del secolo XX, la Madonna in persona, a Fatima, richiamò la necessità della penitenza.
La penitenza non è altro che il rifiuto delle false parole del mondo, la lotta contro le potenze delle tenebre, che si contendono con quelle angeliche il dominio delle anime e la mortificazione continua della sensualità e dell’orgoglio radicati nel più profondo del nostro essere.
Solo accettando questo combattimento contro il mondo, il demonio e la carne (Ef 6, 10-12), potremmo comprendere il significato della visione di cui tra un anno celebreremo il centesimo anniversario. I pastorelli di Fatima videro «al lato sinistro di Nostra Signora un poco più in alto un Angelo con una spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva fiamme che sembrava dovessero incendiare il mondo; ma si spegnevano al contatto dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui: l’Angelo indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse: PenitenzaPenitenzaPenitenza!».

mercoledì 27 gennaio 2016

Riflessione sulla Domenica di Settuagesima

Domenica scorsa è iniziato il periodo di Settuagesima, che ci prepara alla Quaresima ed alla Pasqua del Signore.
Per approfondire il significato di questo periodo, rilanciamo nell’odierna festa dell’invitto campione della verità S. Giovanni Crisostomo questo contributo tratto da Chiesa e postconcilio. Per una riflessione in inglese su questo tempo, v. l’immancabile Rorate caeli.

Icona di S. Giovanni Crisostomo con scene della sua vita


Icona di S. Giovanni Crisostomo

Ο Άγιος Ιωάννης ο Χρυσόστομος

Icona di S. Paolo che ispira a S. Giovanni Crisostomo l'interpretazione delle sue lettere, XXI sec.

Kelli Rodostolou, Icona di S. Paolo che ispira S. Giovanni Crisostomo l'interpretazione delle sue lettere, XXI sec.




Scuola del Carracci, S. Giovanni Crisostomo, XVII sec., museo diocesano, Bologna

Mattia Preti, Il perdono di S. Giovanni Crisostomo, 1640 circa, Cincinnati Art Museum, Cincinnati

Ambito lombardo, S. Paolo ispira S. Giovanni Crisostomo, XVIII sec., museo diocesano, Bergamo

Michele Damasceno, Icona dei tre gerarchi: SS. Basilio il Grande,Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzio, XVI sec., Museo Bizantino e cristiano, Atene 



Icona dei SS. tre gerarchi.
La festa comune dei Tre Santi Gerarchi venne istituita intorno al 1100, durante il regno di Alessio I Comneno, a seguito di accese discussioni che si erano sollevate tra gli studiosi del tempo su quale dei tre Gerarchi della Chiesa commemorati a Gennaio, Basilio il Grande (1 Gennaio), Gregorio di Nazianzo (25 Gennaio) o Giovanni Crisostomo (27 Gennaio), fosse il più grande. Alcuni decisero per San Basilio il Grande, a causa della sua grande intelligenza e moralità austera, altri per san Giovanni Crisostomo, insuperabile per la convincente dolcezza dei suoi discorsi, e altri tennero per san Gregorio di Nazianzo, per la sua retorica elegante e la sua capacità dialettica. Inoltre, ciascuna delle parti, al fine di distinguersi dagli altri, assunse il nome del suo Santo, di conseguenza si chiamarono Basiliani, Giovanniti e Gregoriani. La tradizione vuole che per porre fine alla contesa si decise di chiedere consiglio a Giovanni, Metropolita di Eutachia. A lui apparvero in sogno i tre Santi che dissero della loro pari gloria nel Regno di Dio e chiesero l'istituzione di una festa comune per tutti e tre. Giovanni stabilì al 30 Gennaio tale ricorrenza. Fonte

La domenica di Septuagesima

La Domenica di Septuagesima, nel Rito Romano Antiquior è celebrata nel 64° giorno prima di Pasqua e segna l’inizio di un tempo di preparazione alla Quaresima.
Il Tempo di Settuagesima abbraccia la durata delle tre settimane che precedono immediatamente la Quaresima e costituisce una delle parti principali dell’Anno Liturgico. È suddiviso in tre sezioni ebdomadarie, di cui solamente la prima porta il nome di Settuagesima; la seconda si chiama Sessagesima; la terza Quinquagesima. È chiaro che questi nomi esprimono una relazione numerica come la parola Quadragesima, donde deriva la parola Quaresima. La parola Quadragesima sta ad indicare la serie dei quaranta giorni che dobbiamo attraversare per arrivare alla festa di Pasqua. Le parole Quinquagesima, Sessagesima e Settuagesima ci fanno quasi vedere tale solennità in un lontano ancora più prolungato; però non è meno importante il grande oggetto che comincia ad assillare la santa Chiesa, la quale lo propone ai suoi figli quale mèta verso cui devono ormai tendere tutti i loro desideri e tutti i loro sforzi (dom Prosper Guéranger. L’Anno Liturgico).
Il breve articolo che segue ci mostra come il gregoriano, “canto della Chiesa” è realmente incarnazione sonora della Parola di Dio, suono dell’Invisibile, epifania sonora del Verbo, splendida preziosa veste di una liturgia insostituibile, che modella sulla stessa melodia alcuni tratti significativi dei cantici della penitenza e dell’attesa con quelli della gioia pasquale. Così come arricchisce di sonore correlazioni parti diverse che si richiamano e arricchiscono vicendevolmente nel corso dell’intero Anno Liturgico. Esempio fra tanti: esiste un fil rouge che collega tra loro i brani di ispirazione battesimale [Se ne può cogliere un assaggio quiProspettiva battesimale della Quaresima e della Pasqua nella liturgia romana].
All’apparenza semplici sfumature, ma in realtà frutto di profondità spirituali inesorabilmente perdute nel Novus riformatore. (M.G.)


La domenica di Septuagesima

di Mattia Rossi

San Pio X, nel suo Catechismo Maggiore, trattando delle domeniche di settuagesima, sessagesima e quinquagesima, precisa: “La Chiesa dalla domenica di settuagesima fino al sabato santo tralascia nei divini uffici l’Alleluia, che è voce di allegrezza, ed usa paramenti di color violaceo, che è color di mestizia, per allontanare con questi segni di tristezza i fedeli dalle vane allegrezze del mondo ed insinuare ad essi lo spirito di penitenza”.
E questo è immediatamente percepibile dall’introito di settuagesima: “Circumdederunt me gemitus mortis, dolores inferni circumdederunt me: et in tribulatione mea invocavi Dominum, et exaudivit de templo sancto suo vocem meam” (Mi circondano gemiti di morte e i dolori dell’inferno, in mezzo alla tribolazione ho invocato il Signore ed Egli, dal suo tempio santo, ha esaudito la mia preghiera).
Non passa, né potrebbe passare, inosservato il pesante allargamento iniziale su “gemitus” (pes quadrato + bivirga episemata). Ma nemmeno sfugge la correlazione che questa prima domenica penitenziale ha con la quaresima e, in particolare, con l’introito della III che, oltre a un medesimo impianto musicale, con il testo dell’introito di settuagesima, fa quasi a specchio: “Oculi mei semper ad Dominum quia ipset evellet de laqueo pedes meo: respice in me, et miserere mei, quoniam unicus et pauper sum ego”.
Come ben insegna sempre Pio X, poi, dalla settuagesima l’Alleluia viene sostituito dal Tractus. E in questa prima domenica, in questo inizio di cammino che condurrà alla Passione, ma anche alla Risurrezione, oltre ai richiami quaresimali, troviamo anche il rimando alla Pasqua.
Il tratto, appunto, con un testo fortemente drammatico come il “De profundis”, è modellato sulla stessa melodia dei cantici (tratti) della Veglia pasquale. Nell’inizio della penitenza è già racchiuso, quasi in guisa di assaggio, il gusto melodico proprio della Pasqua. [Fonte]