domenica 20 dicembre 2015

Quegli errori sul Concilio (e sulla Chiesa nel mondo). A 10 anni dalla lezione di papa Benedetto

Nella memoria di S. Domenico di Silos, abate, rilancio questo contributo di don Nicola Bux.


Bartolomé de Cárdenas Bermejo, S. Domenico di Silos in trono, 1474-77, museo del Prado, Madrid

Bartolomé de Cárdenas Bermejo - Martín Bernat, Ferdinando I di Castiglia accoglie S. Domenico di Silos, 1474-79, museo del Prado, Madrid

Quegli errori sul Concilio (e sulla Chiesa nel mondo). A 10 anni dalla lezione di papa Benedetto

di Nicola Bux

Il 22 dicembre 2005, Benedetto XVI rivolgeva uno storico discorso alla Curia Romana, nel quale offriva le “chiavi” della storia e della fede, per la corretta interpretazione del Concilio ecumenico Vaticano II. Cosa ha prodotto? Una parte della Chiesa cattolica lo ha condiviso, mentre l’altra ha continuato a percepire quell’avvenimento come una rottura con la Chiesa precedente. Il solco si è approfondito, quasi uno scisma di fatto. 

Per questa parte della Chiesa, viene da dire che in principio era il Verbo, ora è il Concilio, con la C maiuscola e senza specificazioni, mitizzato come un super-dogma, in rottura con la sacra Tradizione e in apertura al mondo. Il contenuto dei documenti è ridotto a slogan: profezia, segni dei tempi, dialogo, comunione, senza aggiungere “gerarchica”, spirito del Concilio contro la lettera. Nel suo discorso, Benedetto XVI si chiedeva: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? E in ciò, cosa è stato buono e cosa sbagliato? Cosa resta da fare? Quindi, citava san Basilio a sostegno della percezione che si sia falsata per eccesso o per difetto la retta dottrina della fede. Perché è avvenuto questo? Il Concilio non è stato interpretato in modo univoco e si è sdoppiato in modo contrastante, causando per un verso confusione – quella più visibile – e per l’altro una promettente rinascita spirituale. 

La «ermeneutica della discontinuità e della rottura» si è avvalsa della simpatia dei mass-media e diparte della teologia moderna – questo è oggi evidente –; l’«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» - la frase-chiave del discorso - è invece guardata con sospetto ed emarginata. È certezza di fede che la Chiesa non cambia, cresce nel tempo, si sviluppa, rimanendo sempre lo stesso popolo in cammino. Tutti conoscono san Vincenzo di Lerins: quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditur, id est catholicum. Ma oggi si sostiene che la Chiesa cambia e deve cambiare: chi dice questo, propone un’eresia, in quanto la Chiesa è donata, scende dall’alto, è definita da Dio, per essere segno e strumento di salvezza del mondo. Gli uomini che le appartengono devono sempre convertirsi, ma essa è senza macchia né ruga, splendente di bellezza.

Dal post-Concilio, è proprio l’idea di Chiesa il perno della crisi cattolica: si tende a scinderla dal popolo di Dio, da cui pure è costituita; a sostituirla con altri enti mondani, allorché si devono affrontare i problemi della giustizia e della pace; attraverso il malinteso dialogo inter-religioso, la si vuol far diventare una Onu delle religioni, non un vessillo elevato tra le nazioni. Eppure la Chiesa è il corpo di Cristo, fondata su dodici uomini, chiamati a sé dal mondo per poi inviarli ad esso quale luce e sale, non certo per confondersi con esso: «Non abbiamo bisogno di una Chiesa che si muova col mondo», diceva Chesterton. «Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo».

Nel discorso in oggetto, papa Benedetto, addita un paradosso: siamo arrivati a teorizzare – e praticare - la rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. In tal modo è stata fraintesa «in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituente deve servire. I padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno del resto poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso». Dunque, la discontinuità va contro la fedeltà dinamica che caratterizza la Tradizione.

Il Concilio Vaticano II, si noti, ideato e fatto da una Chiesa “pre-conciliare”, finirebbe per indurre la Chiesa odierna a non riconoscersi in continuità con quella; il Concilio costituirebbe lo spartiacque, come se la Chiesa nascesse ora. Finalmente si attua l’idea di Gioacchino da Fiore? Ne ha di sostenitori: una nuova Chiesa che propugna il primato del cosiddetto spirito del Concilio sulla lettera dei documenti, il Concilio dei media su quello dei padri. Lo dicono, forse, per superare l’imbarazzo: perché, leggendo i testi conciliari, molte delle estrosità che hanno trovato spazio nel post-Concilio, non si trovano. 

Invece, nel discorso alla Curia, Benedetto attribuisce a Giovanni XXIII e Paolo VI, l’interpretazione del Concilio come riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa perché – come afferma monsignor Agostino Marchetto nella sua storia del Concilio -, affermarono nelle allocuzioni di apertura e di chiusura, che la Chiesa: «vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamento»; e che il rispetto fedele e l’approfondimento della dottrina «certa e immutabile» non deve ignorare le esigenze contemporanee, ma senza travisarne il senso e la portata. Questa operazione però, non è intellettualistica o guidata da pruriti innovatori, ma dalla comprensione della verità e dal rapporto con la fede vissuta. 

Nel discorso, papa Benedetto accenna pure all’altra questione: il rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l’uomo ed il mondo di oggi - ovvero l’età moderna -, dall’altra, per il quale la discontinuità potrebbe sembrare convincente, se non fosse che l’età moderna ha cercato di eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo. Tuttavia, talune evoluzioni positive successive alla fase di contrapposizione tra Chiesa ed età moderna - come un tipo di Stato moderno, laico ma non neutro riguardo ai valori - avevano portato, in specie dopo la Seconda guerra mondiale, a reciproche aperture; per non parlare dell’apporto della dottrina sociale cattolica e dell’apertura delle scienze naturali a Dio. Pertanto, tre domande erano come dinanzi al Concilio e attendevano risposta: la relazione fra fede e scienze moderne, il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, in specie quanto al comportamento verso le religioni; il problema della tolleranza religiosa, che portava a ridefinire il rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo, e al suo interno quello tra Chiesa e fede di Israele. 

La discontinuità, comprensibile se applicata a situazioni mutevoli, non poteva assurgere a pretesa duratura, al punto da interrompere la continuità del soggetto Chiesa: «Così, ad esempio», continua Benedetto, «se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento». 

È un esempio di quanto non è stato o non si è voluto recepire della Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, mentre la Chiesa – sostiene Benedetto XVI - «in questa apparente discontinuità ha mantenuto e approfondito la sua intima natura e la sua vera identità». Questa, del resto, non può essere messa in contrasto con la missione di annunciare a tutti i popoli il vangelo, perché andrebbe contro la libertà della fede. Il dono della verità di Gesù Cristo è per tutti, senza distruggere identità e culture. Dunque: «La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi».

Benedetto non nasconde che “l’apertura verso il mondo” non ha trasformato tutto in pura armonia –per taluni, mettendo fine anche al sacro – sottovalutando le tensioni e le contraddizioni, come pure la fragilità dell’umana natura che costituisce la minaccia permanente per il cammino dell’uomo. Non c’è ancora tanta parte di mondo che si sottrae al Vangelo e che, invece, ha bisogno di essere raggiunto da esso? Ai nostri giorni, poi, i pericoli sono aumentati, in specie a motivo del potere della tecnica, divenuta quasi un nuovo idolo. E allora, la Chiesa si dovrebbe dissolvere nelle religioni del mondo, vecchie e nuove? Non si dovrebbe più predicare la conversione e il perdono dei peccati? Si è giunti a postulare per gli ebrei – trascurando che la gran parte di loro non è credente – una via parallela di salvezza, quasi che Cristo non sia più l’unico Salvatore. 

Si dimentica che, anche nel nostro tempo, la Chiesa resta “un segno di contraddizione”  ricorda Benedetto XVI, riandando al titolo degli esercizi spirituali predicati dal cardinale Wojtyla in Vaticano nel ‘76 – per tutti gli uomini indistintamente: «Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell’uomo». In conclusione, papa Benedetto è convinto che «il passo fatto dal Concilio verso l’età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme».

Joseph Ratzinger ha operato, da teologo e da Papa, in modo analogo al modo in cui Tommaso d’Aquino seppe mettere «la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo». Non a caso nella famosa lezione di Regensburg (Ratisbona), imposterà il confronto con l’islam in rapporto alla ragione, cosa che interpella anche gli ortodossi e i protestanti. Il rinnovamento della Chiesa - semper reformanda – deve essere guidato da questa giusta interpretazione, vincendo due debolezze: l’astuzia intellettuale, che impedisce il discernimento, e la viltà del cuore, che impedisce di scegliere amici e nemici; altrimenti la Chiesa si condanna all’insignificanza, che è più grave della falsità, perché quest’ultima, provoca il pensiero, costringe a prendere posizione, mentre la prima distrugge la Chiesa nella disaffezione.

Senonché da taluni cattolici, si sostiene questa tesi: finché i valori naturali sono stati patrimonio del sentire comune della maggioranza, l’insistenza della Chiesa su di essi poteva avere una sua ragionevolezza, ma nel momento in cui questo è venuto meno, la Chiesa corre il rischio di ritagliarsi il ruolo di colei che condanna le tendenze contro natura; pertanto, bisognerebbe cambiare paradigma: saper leggere la vita degli uomini di oggi (con le contraddizioni e le cose buone) e proporre l’unica cosa interessante: il Vangelo. Ma la Chiesa cosa ha fatto finora? E in che modo? San Luigi Maria Grignion de Montfort ricorda che essa ha unito la carità più compassionevole e l’intransigenza dottrinale più ferma, nell’ardore di un medesimo amore, che è lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. La Chiesa sa di non poter fare il bene senza combattere il male, di non poter evangelizzare senza lottare contro l’eresia. 

Misericordia e dottrina – per dottrina s’intende la Rivelazione - non possono sussistere che unendosi: separate l’una dall’altra muoiono e non lasciano più che due cadaveri: il liberalismo umanitario con la sua falsa serenità e il fanatismo con il suo falso zelo. È stato detto che la Chiesa è intransigente per principio, perché crede; è tollerante nella pratica, perché ama. Invece, i nemici della Chiesa sono tolleranti per principio, perché non credono, e intransigenti nella pratica, perché non amano.

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