venerdì 6 novembre 2015

S. Ecc.za Mons. Athanasius Schneider: "Nella Relazione Finale del Sinodo una ‘porta sul retro’ per l’accesso ad una prassi neo-mosaica"

Interessante intervento di Mons. Schneider, che evidenzia, tra i rilievi critici già segnalati da altri (Sinodo: errori e pericolose ambiguità Relatio finalis, qui. V. anche i rilievi critici del card. Burke, che abbiamo già segnalato qui, e che sono riportati anche qui), l’impressione che molti hanno percepito riguardo alla Relazione finale sinodale e cioè come essa rappresenti una sorta di ritorno ad una prassi farisaica della decisione “caso per caso” proprio sul divorzio, contro cui si scagliò il Divin Maestro come segnala in un suo contributo Francesco Agnoli su La nuova bussola quotidiana (Sul divorzio erano i farisei a decidere “caso per caso”, qui e qui).
L’intervento critico del vescovo Schneider è riportato, con una diversa traduzione, ma identica nella sostanza, anche dal sito Corrispondenza romana.

Nella Relazione Finale del Sinodo una ‘porta sul retro’ per l’accesso ad una prassi neo-mosaica

Rorate caeli pubblica uno scritto di Sua Eccellenza il Vescovo Athanasius Schneider, uno dei pastori più impegnati nella diffusione della Santa Messa usus Antiquior e delle verità perenni della nostra fede.

Una porta sul retro, per l’accesso ad una prassi neo-mosaica, nella Relazione finale del Sinodo

La reazione del Vescovo Athanasius Schneider al Sinodo: “La porta alla comunione ai divorziati risposati è stata ufficialmente aperta a calci

La XIV Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (4-25 ottobre 2015), dedicata al tema “La vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, ha pubblicato una Relazione Finale con alcune proposte pastorali sottoposte al discernimento del Papa. Si tratta di un documento di natura soltanto consultiva e dunque senza alcun valore magisteriale formale.
Tuttavia, durante il Sinodo, sono apparsi veri e propri neo-discepoli di Mosé e neo-farisei, che ai numeri 84-86 della Relazione Finale hanno aperto una porta di servizio o piazzato bombe ad orologeria in ordine all’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione. Nello stesso tempo, quei Vescovi che hanno coraggiosamente difeso «la fedeltà propria della Chiesa a Cristo ed alla Sua Verità» (Papa Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Familiaris Consortio, 84), sono stato ingiustamente tacciati da alcuni media [e non solo dai media...] come farisei.
Durante le ultime due Assemblee del Sinodo (2014 e 2015), i nuovi discepoli di Mosè ed i nuovi farisei hanno mascherato la loro negazione dell’indissolubilità del matrimonio nella prassi e la sospensione del sesto Comandamento in base al “caso per caso”, sotto le mentite spoglie del concetto di misericordia, usando espressioni come: “cammino di discernimento”, “accompagnamento”, “orientamenti del Vescovo”, “dialogo col sacerdote”, “foro interno”, “una più piena integrazione nella vita della Chiesa”, insinuando una possibile soppressione dell’imputabilità per i casi di coabitazione nelle unioni irregolari (cfr. Relazione Finale, nn. 84-86).
Questa parte della Relazione Finale contiene infatti tracce di una nuova prassi di divorzio di stampo neo-mosaico, benché i redattori abilmente e in maniera scaltra abbiano evitato qualsiasi cambiamento diretto della Dottrina della Chiesa. Pertanto, tutte le parti in causa, tanto i promotori della cosiddetta agenda Kasper quanto i loro oppositori, possono apparentemente affermare con soddisfazione: “È tutto a posto. Il Sinodo non ha cambiato la Dottrina”. Ma questa percezione è del tutto ingenua, poiché ignora la porta sul retro e le incombenti bombe ad orologeria presenti nei testi sopra citati che diventano evidenti ad un esame accurato del testo secondo criteri interpretativi interni.
Anche se, laddove si parla di un “cammino di discernimento”, si menziona ancora il “pentimento” (Relazione Finale, n. 85), rimane comunque un gran numero di ambiguità. Infatti, secondo le reiterate affermazioni del Card. Kasper e di ecclesiastici che la pensano come lui, tale pentimento riguarderebbe i peccati commessi in passato contro il coniuge del primo matrimonio, quello valido, mentre il pentimento del divorziato non può quindi riferirsi all’atto della sua convivenza coniugale col nuovo partner, sposato civilmente.
L’assicurazione del testo di cui ai numeri 85 ed 86 della Relazione Finale secondo cui tale discernimento debba essere fatto in accordo con l’insegnamento della Chiesa e formulato secondo un retto giudizio resta ambigua. Infatti, il Card. Kasper ed i prelati che la pensano come lui, hanno ripetutamente e energicamente assicurato che l’ammissione alla Santa Comunione dei divorziati e risposati civilmente non intaccherebbe il dogma dell’indissolubilità e della sacramentalità del matrimonio, ma hanno anche sostenuto che un giudizio secondo coscienza in tali casi sarebbe da considerarsi corretto quand’anche i divorziati risposati continuassero a convivere come marito e moglie, w che non debba essere loro richiesto di vivere in completa continenza, come fratelli e sorelle.
Nel citare il famoso n. 84 dell’Esortazione Apostolica Familiaris Consortio di papa Giovanni Paolo II nel corpo del n. 85 della Relazione Finale, i redattori ne hanno censurato il testo, tagliandone la seguente formula decisiva: L’Eucarestia può essere concessa solo a quanti «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi»
Tale prassi della Chiesa è fondata sulla Divina Rivelazione della Parola di Dio, scritta e trasmessa attraverso la Tradizione. È espressione di un’ininterrotta Tradizione, che dagli Apostoli rimane immutabile in tutti i tempi. “Chi ripudia una moglie adultera e sposa un’altra donna, fintantoché la sua prima moglie continua a vivere, rimane in perpetuo stato di adulterio, e non può compiere alcun atto di penitenza efficace fintantoché rifiuta di abbandonare la nuova sposa. Se si tratta di un catecumeno, non può essere ammesso al battesimo, perché rimarrà radicato nel peccato. Se si tratta di un penitente (battezzato), non può ricevere l’assoluzione (ecclesiastica) finché non rompe col suo cattivo atteggiamento” (De adulterinis coniugiis, 2, 16). In realtà, il taglio intenzionale dell’insegnamento della Familiaris Consortio nel par. 85 della Relazione Finale rappresenta per ogni sana ermeneutica la vera e propria chiave interpretativa per la comprensione di questa parte del testo sui divorziati risposati (parr. 84-86).
Ai nostri giorni esiste una pressione ideologica permanente e onnipresente da parte dei mass media, inclini al pensiero unico imposto dalle potenze mondiali anticristiane, al fine di abolire la verità dell’indissolubilità del matrimonio – banalizzando il carattere sacro di questa divina istituzione tramite la diffusione di un’anticultura del divorzio e del concubinato. Già cinquant’anni fa, il Concilio Vaticano II affermò che i tempi moderni sono infettati dalla piaga del divorzio (cfr. Gaudium et spes, 47). Lo stesso Concilio avverte che il matrimonio cristiano come sacramento di Cristo non dovrebbe “mai essere profanato dall’adulterio o dal divorzio” (Gaudium et spes, 49).
La profanazione del “grande sacramento” (Ef 5, 32) del matrimonio tramite l’adulterio e il divorzio ha assunto proporzioni massicce, a un ritmo allarmante e crescente, non solo nella società civile in generale ma anche tra i cattolici in particolare. Quando i cattolici, tramite il divorzio e l’adulterio, ripudiano tanto a livello teoretico quanto a livello pratico la volontà di Dio espressa nel Sesto Comandamento, essi si pongono nel serio rischio spirituale di perdere la loro salvezza eterna.
L’atto più misericordioso da parte dei Pastori della Chiesa sarebbe quello di richiamare l’attenzione su questo pericolo per mezzo di una chiara – e nello stesso tempo amorevole – ammonizione sulla necessaria accettazione completa del Sesto Comandamento di Dio. Essi devono chiamare le cose col loro giusto nome ammonendo: “il divorzio è divorzio”, “l’adulterio è adulterio” e “chi commette coscientemente e liberamente peccati gravi contro i Comandamenti di Dio – in questo caso contro il Sesto Comandamento – e muore senza essersi pentito, riceverà la condanna eterna venendo escluso per sempre dal regno di Dio”.
Tale ammonizione ed esortazione è opera dello Spirito Santo, come Cristo ha insegnato: “Egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (Gv 16, 8). Spiegando l’opera dello Spirito Santo nel “convincere riguardo al peccato”, Papa Giovanni Paolo II ha affermato: “Ogni peccato – indipendentemente da quando e da come sia commesso – si riferisce alla Croce di Cristo, e quindi indirettamente anche al peccato di quanti ‘non hanno creduto in Lui’ e hanno condannato Gesù Cristo alla morte sulla Croce” (Enciclica Dominum et Vivificantem, 29). Chi vive una vita coniugale con un partner che non è il suo legittimo sposo – come nel caso dei divorziati risposati civilmente – rinnega la volontà di Dio. Convincere tali persone della gravità di questo peccato è un’opera ispirata dallo Spirito Santo e ordinata da Gesù Cristo, ed è quindi un’opera eminentemente pastorale e misericordiosa.
Sfortunatamente, la Relazione Finale del Sinodo omette di convincere i divorziati e i risposati sulla gravità del loro peccato concreto. Al contrario, col pretesto della misericordia e di una falsa pastoralità, i Padri Sinodali che hanno appoggiato i postulati dei paragrafi 84-86 della Relazione hanno tentato di celare lo stato di pericolo spirituale dei divorziati risposati.
De facto, dicono loro che il loro peccato di adulterio o non è affatto peccato o che perlomeno non è un peccato grave e che non c’è alcun pericolo spirituale nel loro stile di vita. Il comportamento di questi Pastori è direttamente contrario all’opera dello Spirito Santo ed è pertanto un’opera antipastorale e da falsi profeti cui si addicono le seguenti parole della Sacra Scrittura: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5, 20), e: “I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità per cambiare la tua sorte; ma ti han vaticinato lusinghe, vanità e illusioni” (Lam 2, 14). A questi vescovi l’Apostolo Paolo rivolgerebbe oggi senz’alcun dubbio queste parole: “Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo” (2 Cor 11, 13).
Il testo della Relazione Finale del Sinodo non solo tralascia di convincere senza ambiguità i divorziati risposati civilmente sulla natura adultera e quindi gravemente peccaminosa del loro stile di vita, ma anzi lo giustifica indirettamente relegando in sostanza questa questione al contesto della coscienza individuale e applicando impropriamente il principio morale dell’imputabilità al caso di convivenza dei divorziati risposati. L’applicazione di tale principio ad uno stato stabile, permanente e pubblico di adulterio è sconveniente e ingannevole.
La diminuzione della responsabilità soggettiva si dà solamente nel caso in cui i partner abbiano la ferma intenzione di vivere in completa continenza e sforzarsi seriamente al riguardo. Finché i partner continuano intenzionalmente a condurre una vita peccaminosa, non ci può essere sospensione d’imputabilità. La Relazione Finale dà l’impressione di insinuare che uno stile di vita di pubblico adulterio – come nel caso dei risposati civilmente – non violi l’indissolubile vincolo sacramentale del matrimonio o che non costituisca un peccato mortale o grave e che questo argomento sia inoltre una mera questione di coscienza privata. Si può dedurre da ciò uno scivolamento verso il principio protestante del giudizio soggettivo su questioni di fede e disciplina e una vicinanza intellettuale alla teoria erronea dell’”opzione fondamentale”, teoria già condannata dal Magistero (cfr. Papa Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor, 65-70).
I Pastori della Chiesa non dovrebbero in alcun modo promuovere una cultura del divorzio tra i fedeli. Si devono evitare anche i più sottili gesti di cedimento alla pratica o alla cultura del divorzio. La totalità della Chiesa deve dare una testimonianza convincente e forte dell’indissolubilità del matrimonio. Papa Giovanni Paolo II ha affermato che il divorzio “è un male che, come gli altri, intacca sempre di più anche i cattolici; il problema dev’essere affrontato con decisione e senza esitazioni” (Familiaris Consortio, 84).
La Chiesa deve aiutare con amore e pazienza i divorziati risposati a riconoscere il loro stato di peccato e aiutarli a convertirsi con tutto il cuore a Dio e all’obbedienza alla Sua santa volontà, espressa nel Sesto Comandamento. Finché i divorziati risposati continueranno a dare una testimonianza pubblica contraria all’indissolubilità del matrimonio e finché contribuiranno a diffondere la cultura del divorzio, essi non potranno esercitare i ministeri liturgici, catechetici e istituzionali all’interno della Chiesa, perché questi ultimi richiedono per la loro stessa natura una vita pubblica conforme ai Comandamenti di Dio.
È ovvio che i violatori pubblici, per esempio, del Quinto e del Settimo comandamento, come i proprietari di cliniche per l’aborto o i collaboratori di una rete di corruzione, non solo non possono ricevere la Santa Comunione ma, evidentemente, non possono essere ammessi ai servizi pubblici liturgici e catechetici. Bisogna distinguere la gravità del male causato dallo stile di vita dei promotori pubblici dell’aborto e della corruzione dalla vita adultera delle persone divorziate. Non le si può mettere sullo stesso piano. Eppure, la richiesta di ammettere i divorziati e i risposati come padrini e catechisti mira in sostanza non al vero bene spirituale dei ragazzi, ma risulta piuttosto essere una strumentalizzazione di un’agenda ideologica ben specifica. Questa è disonestà, è un farsi beffe del ruolo di padrini o di catechisti i quali, con una promessa pubblica, si fanno carico del cómpito di educare alla fede.
La vita dei padrini o dei catechisti divorziati e risposati contraddice continuamente le loro parole, e così essi devono far fronte alle ammonizioni che lo Spirito Santo dà loro per bocca di San Giacomo Apostolo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1, 22). Sfortunatamente, il par. 84 della Relazione Finale auspica l’ammissione dei divorziati risposati agli uffici liturgici, pastorali ed educativi. Una tale proposta rappresenta un appoggio indiretto alla cultura del divorzio e un rinnegamento pratico della condanna di uno stile di vita oggettivamente peccaminoso. Papa Giovanni Paolo II, al contrario, ha mostrato solo le seguenti due possibilità di partecipare alla vita della Chiesa, che a loro volta mirano a una vera conversione: “Essi devono essere incoraggiati ad ascoltare la parola di Dio, a partecipare al Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a contribuire in opere di carità e negli sforzi comunitari a favore della giustizia, a educare i loro figli alla fede cristiana, a coltivare lo spirito e la pratica della penitenza e inoltre implorare ogni giorno la Grazia di Dio” (Familiaris Consortio, 84).
Dev’essere mantenuta una salutare area d’esclusione (non ammissione ai Sacramenti e agli uffici pubblici liturgici e catechetici) per ricordare ai divorziati il loro stato di serio pericolo spirituale e per promuovere allo stesso tempo nelle loro anime un atteggiamento di umiltà, obbedienza e desiderio di autentica conversione. Umiltà significa coraggio di fronte alla verità, e solo quanti si sottomettono umilmente a Dio riceveranno le Sue grazie.
I fedeli che non sono ancóra pronti o disposti a interrompere la loro vita adulterina devono essere aiutati spiritualmente. Il loro stato spirituale è simile a una sorta di “catecumenato” applicato al sacramento della Penitenza. Essi possono ricevere il sacramento della Penitenza – che nella Tradizione della Chiesa era chiamato “il secondo battesimo” o “la seconda penitenza” – solo se rompono sinceramente con l’abitudine della convivenza adulterina ed evitano il pubblico scandalo, in modo analogo a quanto fanno i catecumeni, i candidati al Battesimo. La Relazione Finale omette il richiamo dei divorziati risposati all’umile riconoscimento del loro oggettivo stato di peccato, perché tralascia di incoraggiarli ad accettare con lo spirito della fede la non ammissione ai Sacramenti e agli uffici pubblici liturgici e catechetici. Senza questo riconoscimento realistico e umile del loro stato spirituale reale, non ci sarà progresso effettivo verso un’autentica conversione cristiana, che nel caso dei divorziati risposati consiste in una vita di completa continenza e nel cessare di peccare contro la santità del sacramento del matrimonio e di disobbedire pubblicamente al Sesto Comandamento di Dio.
I Pastori della Chiesa e in particolar modo i testi pubblici del Magistero devono parlare in modo estremamente chiaro, poiché è questa la caratteristica essenziale del cómpito dell’insegnamento ufficiale. Cristo ha comandato a tutti i Suoi discepoli di parlare in modo estremamente chiaro: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Questo è ancor più valido quando i Pastori della Chiesa predicano o quando il Magistero si pronuncia in un documento.
Il testo dei paragrafi 84-86 della Relazione Finale costituisce disgraziatamente un serio allontanamento da questo comandamento divino. Nei passi menzionati il testo non rivendicava apertamente la legittimazione dell’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione: il testo evita persino di utilizzare l’espressione “Santa Comunione” o “Sacramenti”. Piuttosto, per mezzo di tattiche raggiranti, esso utilizza espressioni ambigue come “una più piena partecipazione alla vita della Chiesa” e “discernimento e integrazione”.
Per mezzo di queste tattiche raggiranti la Relazione Finale, di fatto, pone delle bombe ad orologeria e apre una porta sul retro per l’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione, provocando così una profanazione dei due grandi sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia e contribuendo almeno indirettamente alla diffusione della cultura del divorzio e della “piaga del divorzio” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 47).
Quando si legge attentamente l’ambiguo testo della seconda parte – “Discernimento e integrazione” – della Relazione Finale, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’ambiguità elaborata in modo estremamente abile. Vengono in mente le parole di Sant’Ireneo nel suo Adversus haereses:
“Chi mantiene immutabile nel suo cuore la regola della verità che ha ricevuto per mezzo del battesimo, riconoscerà senza dubbio i nomi, le espressioni e le parabole prese dalle Scritture, ma giammai riconoscerà l’uso blasfemo che questi uomini fanno di esse. Poiché, pur sapendo distinguere le gemme autentiche, non riconoscerà come re la volpe travestita da sovrano. Ma, dato che manca il tocco finale che può dare credibilità a questa farsa – in modo tale che chiunque la esamini a fondo possa immediatamente opporre un argomento che la rovesci –, abbiamo giudicato conveniente mettere in risalto, prima di tutto, in che cosa gli stessi autori di questa favola differiscono tra di loro, come se fossero stati ispirati da diversi spiriti d’errore. Questo stesso fatto costituisce una prova immediata che la verità della Chiesa è immutabile, e che le teorie di questi uomini non sono altro che un tessuto di falsità” (I, 9, 4-5).

La Relazione Finale sembra lasciare la soluzione della questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla Santa Comunione alle autorità ecclesiastiche locali: “l’accompagnamento dei sacerdoti” e “gli orientamenti dei vescovi”. Ma tale questione è essenzialmente connessa col deposito della fede, vale a dire con la parola rivelata di Dio. La non ammissione dei divorziati che vivono in pubblico stato di adulterio appartiene all’immutabile verità della legge della fede cattolica e di conseguenza anche della legge della prassi liturgica cattolica.
La Relazione Finale sembra inaugurare una cacofonia dottrinale e disciplinare nella Chiesa cattolica, che contraddice la stessa essenza dell’essere cattolici. Occorre ricordare le parole di Sant’Ireneo sulla vera natura della Chiesa cattolica in tutti i tempi e in tutti i luoghi:
“Dopo aver ricevuto questa predicazione e questa fede, la Chiesa, pur essendo sparsa in tutto il mondo, la preserva come se occupasse una sola casa. Essa crede anche ai vari punti della dottrina come se avesse una sola anima e un solo cuore, e li proclama, li insegna e li tramanda in perfetta armonia, come se possedesse una sola bocca. Poiché, anche se le lingue del mondo sono diverse tra di loro, il contenuto della tradizione è uno solo e sempre lo stesso. Poiché le Chiese che sono state fondate in Germania non credono o tramandano nulla di differente rispetto a quelle che sono state fondate in Spagna, o nella Gallia, o in Oriente, o in Egitto, o in Libia, o nelle regioni centrali del mondo (Italia). Bensì, così come il sole – che è una creatura di Dio – è uno e lo stesso in tutto il mondo, anche la predicazione della verità brilla dappertutto e illumina tutti gli uomini che vogliono venire a conoscenza della verità. E nessun capo della Chiesa, per quanto possa essere dotato di eloquenza, insegnerà mai dottrine differenti da queste (poiché nessuno è più grande del Maestro); né, d’altra parte, quanti mancano di potere d’espressione potranno danneggiare la tradizione. Dato che la fede è sempre una e la stessa, né le persone che hanno una grande capacità d’argomentazione su di essa vi aggiungeranno nulla, né quanti sono poco capaci di esprimersi vi toglieranno nulla” (Adversus haereses, I, 10, 2).

La parte della Relazione Finale dedicata ai divorziati risposati evita attentamente di proclamare il principio immutabile dell’intera tradizione cattolica, vale a dire che quanti vivono in un’unione coniugale non valida possono essere ammessi alla Santa Comunione solo sotto la condizione di promettere di vivere in completa continenza e di evitare il pubblico scandalo. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno confermato con forza questo principio cattolico. L’evitare deliberatamente di menzionare e riaffermare questo principio nel testo della Relazione Finale può essere comparato con il sistematico astenersi dall’utilizzare il termine “homoousios” da parte degli avversari del dogma del Concilio di Nicea nel quarto secolo – gli Ariani formali e i cosiddetti semi-Ariani –, che inventavano continuamente espressioni nuove al fine di non confessare apertamente la consustanzialità del Figlio di Dio con Dio Padre.
Tale astensione da un’aperta confessione cattolica da parte della maggioranza dei vescovi nel quarto secolo causò una febbrile attività ecclesiastica con continui incontri sinodali e la proliferazione di una nuova formula dottrinale, che avevano il denominatore comune di evitare la chiarezza terminologica, vale a dire il termine “homoousios”. Analogamente, ai nostri giorni i due ultimi Sinodi sulla Famiglia hanno evitato di nominare e proclamare chiaramente il principio dell’intera tradizione cattolica secondo il quale quanti vivono in un’unione matrimoniale non valida possono essere ammessi alla Santa Comunione solo sotto la condizione di promettere di vivere in completa continenza e di evitare il pubblico scandalo.
Questo fatto è provato anche dall’immediata e inequivoca reazione dei media laici e dalla reazione dei principali sostenitori della nuova pratica anticattolica di ammettere i divorziati risposati alla Santa Comunione anche quando mantengano una vita di pubblico adulterio. Il Cardinal Kasper, il Cardinal Nichols e l’Arcivescovo Forte, per esempio, hanno affermato pubblicamente che in base alla Relazione Finale si può assumere che in un certo qual modo siano state aperte le porte alla Comunione ai divorziati risposati. Vi è anche un considerevole numero di vescovi, sacerdoti e laici che si rallegrano di queste cosiddette “porte aperte” che hanno trovato nella Relazione Finale. Invece di guidare i fedeli con un insegnamento chiaro e assolutamente privo di ambiguità, la Relazione Finale ha provocato una situazione di oscuramento, confusione, soggettività (il giudizio della coscienza dei divorziati e il foro interno) e generato un particolarismo dottrinale e disciplinare non cattolico in questioni che sono essenzialmente connesse col deposito della fede così com’è stata trasmessa dagli Apostoli.
Ai nostri giorni, quanti difendono con forza la santità dei sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia vengono etichettati come Farisei. Eppure, se il principio logico di non contraddizione è ancóra valido e il senso comune funziona ancóra, è vero il contrario.
Sono piuttosto gli offuscatori della verità divina nella Relazione Finale a somigliare ai Farisei, giacché per conciliare una vita adulterina con la ricezione della Santa Comunione hanno inventato abilmente nuovi termini, nuove leggi di “discernimento e integrazione”, introducendo nuove tradizioni umane in contraddizione coi cristallini comandamenti di Dio. Ai sostenitori della cosiddetta “Agenda Kasper” sono indirizzate queste parole della Verità Incarnata: “Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi” (Mc 7, 13). Oggi anche tutti quelli che, per duemila anni, hanno parlato senza sosta dell’immutabilità della verità divina, spesso anche a costo delle loro vite, sarebbero etichettati come Farisei; anche San Giovanni Battista, San Paolo, Sant’Ireneo, Sant’Atanasio, San Basilio, San Tommaso Moro, San Giovanni Fisher, San Pio X, per menzionare solo gli esempi più rifulgenti.
Il risultato reale del Sinodo è la percezione, da parte sia dei fedeli che della pubblica opinione secolare, che vi sia stata praticamente una sola posizione sulla questione dell’ammissione dei divorziati alla Santa Comunione. Si può affermare che il Sinodo, in un certo senso, è risultato essere agli occhi della pubblica opinione un Sinodo dell’adulterio, non il Sinodo della famiglia. In effetti, tutte le belle affermazioni della Relazione Finale sul matrimonio e sulla famiglia sono eclissate dalle affermazioni ambigue nei paragrafi relativi ai divorziati risposati, un argomento che era già stato confermato e deciso dal Magistero degli ultimi Pontefici Romani in fedele conformità col bimillenario insegnamento e la pratica bimillenaria della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio, e quindi sulla non ammissione ai Sacramenti dei divorziati che vivono in unioni adulterine.
Nella sua lettera a Papa Damaso, San Basilio tracciò una pittura realistica della confusione dottrinale causata dagli uomini di Chiesa che cercavano un compromesso vuoto e un adattamento allo spirito del mondo dei loro tempi: 
“Le Tradizioni sono tenute a nulla; i metodi degli innovatori sono di moda nelle varie Chiese; oggi gli uomini sono più inventori di sistemi raggiranti che teologi; la sapienza di questo mondo vince i premi più alti, ma ha rinnegato la gloria della Croce. Gli anziani si lamentano quando si paragona il presente al passato. I giovani sono da compatire ancóra di più, poiché non sanno nemmeno di cosa sono stati privati” (Ep. 90, 2).

In una lettera a Papa Damaso e ai vescovi occidentali, San Basilio descrive come segue la situazione confusa all’interno della Chiesa:
“Le leggi della Chiesa si trovano nella confusione. L’ambizione di uomini privi di timor di Dio si insinua nelle più alte cariche, e gli uffici più alti sono oggi pubblicamente riconosciuti come il premio dell’empietà. Il risultato è che più un uomo bestemmia, più lo si ritiene adatto ad essere un vescovo. La dignità clericale è una cosa del passato. Non vi è una conoscenza precisa dei canoni. Il peccato gode di completa immunità, poiché quando a qualcuno è stato assegnato un ufficio grazie al favore di uomini, egli è costretto a restituire il favore mostrando continua indulgenza a quanti operano il male. Il giudizio retto è una cosa del passato; ognuno segue solo i desideri del proprio cuore. Quanti si trovano in posizioni di autorità hanno paura di parlare, poiché quanti hanno raggiunto il potere per interesse umano sono schiavi di quelli a cui debbono la loro ascesa. E oggi la stessa difesa dell’ortodossia viene vista in certi ambienti come un’opportunità per l’attacco reciproco; gli uomini nascondono la loro cattiva volontà fingendo che la loro ostilità si debba al loro amore per la verità. I non credenti se la ridono continuamente; gli uomini dalla fede debole sono scossi; la fede è incerta; le anime sono immerse nell’ignoranza, poiché gli adulteratori della parola imitano la verità. I migliori tra i laici evitano le chiese come scuole di empietà e nel deserto, con singhiozzi e lacrime, alzano le mani al loro Signore che è nei Cieli. Noi abbiamo ricevuto la fede dei Padri, quella fede che sappiamo essere stata marcata col sigillo degli Apostoli; a quella fede aderiamo, così come a tutto ciò che in passato è stato canonicamente e legalmente promulgato” (Ep. 92, 2).

Ogni periodo di confusione nella storia della Chiesa costituisce allo stesso tempo una possibilità di ricevere molte grazie di forza e coraggio e di dimostrare il proprio amore per Cristo Verità Incarnata. A Lui ogni battezzato e ogni sacerdote e vescovo ha promesso indefessa fedeltà, ognuno in conformità col proprio stato: tramite i voti battesimali, tramite le promesse sacerdotali, tramite la promessa solenne nell’ordinazione episcopale. Infatti, ogni candidato al vescovato ha promesso: “Manterrò puro ed integro il deposito della fede in conformità con la tradizione che è stata preservata sempre e ovunque nella Chiesa”. L’ambiguità che si trova nei paragrafi sui divorziati e risposati della Relazione Finale contraddice il summenzionato voto solenne episcopale. Nonostante ciò, ognuno nella Chiesa – dal semplice fedele a quanti detengono il Magistero – deve dire:
Non possumus!” Non accetterò un discorso fumoso né una porta sul retro abilmente nascosta verso una profanazione dei Sacramenti del Matrimonio e dell’Eucarestia. Analogamente, non accetterò che si irrida al Sesto Comandamento di Dio. Preferisco essere messo in ridicolo e perseguitato io piuttosto che accettare testi ambigui e metodi non sinceri. Preferisco la cristallina “immagine di Cristo Verità, piuttosto che l’immagine della volpe adornata di gemme” (Sant’Ireneo), perché “So in Chi ho creduto”, “Scio, Cui credidi!” (2 Tim 1, 12).

2 novembre 2015
+ Athanasius Schneider, 
Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Santa Maria in Astana

[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]

Fonte: Chiesa e postconcilio, 4.11.2015

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