venerdì 12 giugno 2015

“Verum, ad cultum sacratíssimi Cordis Jesu plene perfectéque constituéndum, eumdémque per totum orbem propagándum, Deus ipse sibi instruméntum elégit humíllimam ex órdine Visitatiónis vírginem, sanctam Margarítam Maríam Alacóque, cui, a prima quidem ætáte jam in Eucharístiæ Sacraméntum amóre flagránti, Christus Dóminus sæpenúmero appárens, divíni Cordis sui et divítias et optáta significáre dignátus est” (Lect. V – II Noct.) - FERIA VI POST OCTAVAM SSMI CORPORIS CHRISTI, IN FESTO SACRATISSIMI CORDIS JESU



Le origini di questa festa sono del tutto assimilabili a quelle della festa del Santissimo Sacramento.
Nel Liber Sacramentorum, la festa del Sacro Cuore si trova ancora nel ciclo santorale, il traduttore ne dà la ragione: «Conformemente alle ultime rubriche, questa festa dovrebbe trovarsi al Proprio del Tempo, tra l’II e la III Domenica dopo la Pentecoste. Il tomo III del Liber Sacramentorum era stato stampato già quando la decisione della S. C. dei Riti era stata promulgata. Conserviamo dunque alla festa del Sacro Cuore il posto che occupava nelle antiche edizioni del Messale, pur sostituendo al precedente il nuovo testo della messa».
Il simbolismo del costato di Gesù, aperto dalla lancia di Longino e da cui sgorgarono il sangue e l’acqua, è conosciuto già dagli antichi Padri della Chiesa; sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo hanno delle pagine splendide sui divini Sacramenti, nati dal Cuore amante del Redentore, e sulla Chiesa che, radiosa di giovinezza, esce dal costato del nuovo Adamo addormentato sulla Croce.
La tradizione patristica fu conservata e sviluppata a cura della scuola ascetica benedettina; anche, quando, nel XII sec., il santo abate di Clairvaux orientò infine la pietà mistica dei suoi monaci verso un culto completamente speciale reso all’umanità del Salvatore, si può dire che la devozione al Sacro Cuore, nel senso che gli attribuisce oggi la sacra liturgia, era già nata. Dalla semplice meditazione sulle piaghe di Gesù, la scuola benedettina era passata alla devozione particolare per quella del costato, ed attraverso il fianco trapassato dalla lancia di Longino, essa era penetrata nell’intimo del Cuore, ferito anch’esso dalla lancia dell’amore.
Il Cuore di Gesù rappresenta, per san Bernardo, quell’incavo della roccia dove lo Sposo divino invita la sua colomba a cercare un rifugio. Il ferro del soldato è giunto fino al Cuore del Crocifisso per svelarcene tutti i segreti dell’amore. Ci ha, difatti, rivelato il grande mistero della sua misericordia, queste viscere di compassione che l’hanno indotto a scendere dal cielo per visitarci (In Cantic. Serm. 61, nn. 3-4, in PL 183, col. 1071-72).
I discepoli di san Bernardo svilupparono meravigliosamente la dottrina mistica del Maestro, quando intervennero le grandi rivelazioni del Sacro Cuore di Gesù a santa Lutgarda (+1246), a santa Gertrude ed a santa Mechtilde (Matilde).
Un giorno, il Signore scambiò il suo Cuore con quello del santa Lutgarda; ed una notte che la santa, malgrado la malattia, si era alzata per l’ufficio vigiliale, Gesù, per ricompensarla, l’invitò ad avvicinare le sue labbra alla ferita del suo Cuore, dove Lutgarda attinse una tale soavità spirituale, che, provò, in seguito, sempre forza e dolcezza nel servizio di Dio.
Verso il 1230 sopraggiunse la celebre rivelazione del Sacro Cuore a quell’illustre Mechtilde di Magdeburgo, che, più tardi, fece parte della comunità di Helfta dove vivevano santa Gertrude e santa Mechtilde (Matilde) di Hackeborn.
“Nelle mie grandi sofferenze, ella scrisse, Gesù mi mostrò la piaga del suo Cuore e mi dice: Vedi qual male mi hanno fatto!”.
Quest’apparizione l’impressionò vivamente, tanto che, da allora, la devota religiosa non smise di contemplare questo Cuore afflitto ed oltraggiato, ma che, allo stesso tempo, gli appariva simile ad una massa di oro arroventato, collocato dentro ad un’immensa fornace. Gesù avvicinò il cuore di Mechtilde al suo, affinché vivesse della stessa vita di Lui.
Quando la Provvidenza condusse a Helfta la pia estatica di Magdeburgo, questo avvenne per avvicinarla a due altre figlie di san Benedetto, Gertrude e l’omonima Mechtilde (di Hackeborn), che erano state favorite da doni analoghi. Il carattere particolare della devozione di santa Gertrude per il Verbo Incarnato brilla specialmente nel suo rendere devozione al Sacro Cuore, che, per lei, è il simbolo dell’amore del Crocifisso, ed un tipo di sacramento mistico mediante il quale la Santa partecipa ai sentimenti di Gesù ed, al medesimo tempo, ai suoi meriti.
Un giorno che Gertrude è invitata da san Giovanni a riposare con lui sul Cuore sacro del Signore, chiede all’evangelista perché non ha rivelato alla Chiesa le delizie ed i misteri di amore gustati da lui nell’ultima Cena, quando appoggiò la sua testa sul petto del Divin Maestro. Giovanni risponde che la sua missione era stata quella di rivelare agli uomini la natura divina del Verbo, mentre il linguaggio di amore espresso dai battiti del Sacro Cuore sentito da lui doveva rappresentare la rivelazione degli ultimi tempi, allorché il mondo, invecchiato e raffreddato, avrebbe avuto bisogno di riscaldarsi per mezzo di questo mistero di ardente carità (Ivan Gobry, Margherita Maria Alacoque e le rivelazioni del Sacro Cuore, Roma 20024, p. 15).
Gertrude comprese che l’apostolato del Sacro Cuore di Gesù era stato affidato a lei stessa, perché, con le sue parole e nei suoi libri, ella scrivesse tutta la teologia, per così dire, di questa ferita divina e sacra, propagandone con ardore la devozione. In questa missione evangelizzatrice, ebbe per compagna la devota cantrix Mechtildis, la quale era stata invitata similmente dal Signore a stabilire la sua dimora nella piaga del suo Cuore. Come la sua compagna, santa Mechtilde mise pure lei per iscritto le sue rivelazioni, dove paragona il Sacro Cuore ora ad una coppa d’oro dove si dissetano i santi, ora ad una lampada luminosa, ora ad una lira che diffonde nel cielo le sue dolci armonie. Un giorno Gesù e Mechtilde scambiarono i loro cuori, e da allora sembrò alla Santa che erano i battiti del Cuore del suo divino Sposo che sentiva in se stessa.
Le rivelazioni delle due estatiche di Helfta furono accolte molto favorevolmente, soprattutto in Germania, cioè in un luogo già risolutamente orientato verso il Cuore di Gesù, grazie alla precedente influenza della scuola benedettina. Gli scrittori della famiglia dominicana e francescana seguirono anch’essi con ardore questo movimento, e lo diffusero soprattutto grazie a san Bonaventura, al beato Enrico Suso, a santa Caterina ed a san Bernardino da Siena. Si arriva così fino al tempo di santa Francesca Romana, che, nelle sue rivelazioni sul Sacro Cuore, in cui ella si immerge anche come in un oceano arroventato di amore, non fa che accentuare l’orientamento ascetico dell’antica scuola mistica dei figli di san Benedetto. L’azione della fondatrice del monastero Turris Speculorum a Roma rimase, è vero, circoscritta all’ambito romano; ma rappresenta uno dei più preziosi anelli di tutta una catena di santi e di scrittori ascetici che, in Germania, in Belgio ed in Italia prepararono le anime alle grandi rivelazioni di Paray-le-Monial. Quando infine queste furono comunicate ai fedeli, grazie soprattutto a san Claudio de La Colombière ed al P. Croiset, il trionfo del Cuore di Gesù e del regno del suo amore fu assicurato oramai alla devozione cattolica. I figli di sant’Ignazio si dedicarono con uno zelo particolare a questa forma nuova di apostolato del Sacro Cuore. Nel 1765, il papa Clemente XIII approvò un ufficio in onore del Sacro Cuore di Gesù, ma fu concesso solamente ad alcune diocesi. Nel 1856, Pio IX, sullo spirito del quale aveva influito grandemente l’illustre restauratore dell’ordine benedettino in Francia, Dom Guéranger, rese questa festa obbligatoria per la Chiesa universale inserendola nel Calendario, nel ciclo del Santorale, dandone il relativo formulario ed ordinandone la celebrazione sotto il grado di doppio di II classe. Nel 1889, Leone XIII l’elevò al rito doppio di I classe.
Quando, il 26 gennaio 1765, Clemente XIII autorizzò il culto liturgico del Sacro Cuore di Gesù per la Polonia e per l’Arciconfraternita romana (sul contesto storico, cfr. Aa. Vv., La Chiesa nell’epoca dell’assolutismo e dell’illuminismo, in Hubert Jedin (dir. da), Storia della Chiesa, Milano 20075, vol. VII, pp. 499-500), si avverava una predizione fatta trent’anni prima dalla devota badessa di San Pietro di Montefiascone, la serva di Dio Maria Cecilia Baij. Il Signore, mostrando il suo Cuore a questa serva di Dio, le aveva detto: «Un giorno verrà, in cui il culto del mio Cuore si estenderà trionfalmente nella Chiesa militante, e ciò grazie alla festa solenne che se ne celebrerà, con l’ufficio del Sacro Cuore» (cfr. Ursmer Berlière, La dévotion au Sacré-Cœur dans l’Ordre de Saint-Benoît, Paris, 1923). «Tuttavia, aggiungeva la pia Benedettina, non so se ciò giungerà dai nostri tempi».
Ella fu, del resto, assai felice di vedere infine questo giorno desiderato, e si ricordò certamente allora di queste altre parole che aveva sentito dal suo divino Sposo parecchi anni prima: «Un tempo verrà in cui sarai molto gradita al mio Cuore facendo adorarlo e conoscere da un gran numero di persone per mezzo del culto e degli atti di devozione che gli sono dovuti».
Nel 1899, Leone XIII pubblicò l’Enciclica Annum Sacrum, nella quale prescriveva a tutto l’universo cattolico di consacrarsi al Sacro Cuore di Gesù. Il Pontefice si era deciso a quest’atto dopo un ordine formale che una pia superiora del Buon Pastore di Oporto, la beata Maria del Divin Cuore di Gesù (Maria Droste zu Vischering), diceva avere ricevuto dallo stesso divin Redentore affinché fosse comunicato al Papa. La rivelazione privata presentava del resto tutti i caratteri dell’autenticità, e lo spirito della religiosa era già stato provato dal saggio abate di Seckau, Dom Ildefons Schober (1849–1918). È così Dom Ildebrando de Hemptinne (1848-1913), abate di Sant’Anselmo all’Aventino, prese l’affare in mano e presentò la supplica della religiosa a Leone XIII. L’8 giugno 1899, mentre le campane di tutte le chiese del mondo cristiano annunciavano la festa del Sacro Cuore ed il nuovo atto di consacrazione prescritto dal Papa, la veggente di Oporto rendeva la sua anima purissima a Dio, a testimonianza del compimento della sua missione terrena.
La festa del Sacro Cuore riceveva da Pio XI, poi, un sovrappiù di importanza e di onore poiché si accordava a questa il privilegio dell’ottava, riservato alle più grandi solennità del Signore. Semplice coincidenza o misteriosa disposizione di Dio? La nuova liturgia romana per l’ottava della festa del Sacro Cuore fu approvata dal Papa allo stesso tempo del famoso Concordato, che metteva fine alla funesta Questione romana, nel 1929. Nella stessa epoca, il “perfetto amico del divin Cuore”, il P. de La Colombière, era iscritto solennemente nel catalogo dei beati (poi canonizzato da Giovanni Paolo II), e Pio XI, alcune settimane più tardi, uscendo infine dal Vaticano, portò in trionfo Gesù Eucarestia, in mezzo ad un glorioso corteo di ministri sacri nel numero di settemila.
Con dotando la Festa di un’Ottava, Pio XI equiparava la stessa alle più importanti feste del ciclo del Temporale (facendola uscire dal ciclo del Santorale).
L’eresia, che caratterizza lo spirito dell’odierna società, potrebbe essere facilmente chiamata laicismo, in quanto vuol livellare, abbassare il divino ed il soprannaturale alla misura delle istituzione umane, e tenta di far rientrare la Chiesa nell’orbita delle pure energie statali. Di fronte al giudaismo ed alla massoneria che persistono ancora nel loro odio furibondo contro Gesù: tolle, tolle, crucifige, i cattolici infetti da questo laicismo e liberalismi o cercano, come Pilato, una via mezzo, e sono pronti a rimandare assolto Cristo, purché prima si lasci strappare il diadema sovrano che gli cinge la fronte, e si contenti di vivere soggetto al nume di Cesare. Contro questo doppio insulto sacrilego il Pontefice Supremo (Pio XI) protesta in faccia al cielo e alla terra che non v’è altro Dio che il Signore, ed istituisce la doppia festa di Cristo Re e dell’Ottava del Sacratissimo Cuore di Gesù. L’una è la solennità della potenza, l’altra quella dell’amore.
Il Breviario romano doveva arricchirsi di un ufficio per l’ottava del Sacro Cuore e così il Sovrano Pontefice Pio XI volle che la liturgia di questa solennità fosse rifatta interamente.
Si sa che l’ufficio del Sacro Cuore aveva una volta, prima del 1929, un certo carattere frammentario e sporadico che rifletteva bene l’incertezza dei teologi incaricati della sua redazione. Era un po’ un ufficio della festa del Corpus Domini (con degli elementi, come i Responsori del Mattutino, da cui ne erano tratti) ed un po’ quello della Passione, senza parlare delle letture del III notturno, spigolato qua e là nella Patrologia, con tre omelie.
Dom Guéranger (o almeno i suoi continuatori) testimoniavano delle ragioni di questa composizione esitante: «Il est peu fait mention du Cœur de chair du Sauveur dans les formules liturgiques de ce jour. Lorsqu’au dernier siècle (XVIIIe) il fut question d’approuver une Messe et un Office en l’honneur du Sacré-Cœur, les Jansénistes, qui avaient jusque dans Rome leurs dévoués partisans, suscitèrent de telles oppositions, que le Siège apostolique ne crut pas le moment venu encore de se prononcer ouvertement sur les points débattus. Dans la Messe et l’Office qui de Rome devaient plus tard (1856) s’étendre au monde entier, il s’en tint par prudence à la glorification de l’amour du Sauveur, dont on ne pouvait nier raisonnablement que son Cœur de chair ne fût au moins le vrai et direct symbole» (Année Liturgique, Temps après la Pentecôte, I, p. 504).
Ora, papa Ratti – che, sul suo tavolo da lavoro, aveva sempre davanti agli occhi una bella statua del Sacro Cuore, dinanzi alla quale aveva costume di cercare la sua ispirazione quando trattava gli affari della Chiesa – volle un ufficio perfettamente organico, cioè in cui risplendesse l’unità e che mettesse pure in piena luce il carattere speciale della solennità della festa del Sacro Cuore, che non doveva essere una ripetizione né di quella del Santo Sacramento né degli uffici quaresimali della Passione.
Nominò allora una commissione di teologi incaricati di redigere, dunque, il nuovo ufficio; ma i loro lavori li presiedeva lui stesso; in modo che, dopo un semestre di studi, all’aurora del suo giubileo sacerdotale, Pio XI poté offrire la nuova messa e l’ufficio al mondo cattolico per l’ottava del Sacro Cuore, che non fosse né una ripetizione della festa del Corpus Domini né un duplicato dell’Ufficio della Passione.
Il pensiero che domina tutta la composizione è quella che espresse Gesù stesso quando, tramite santa Margherita Maria, chiese all’intera famiglia cattolica l’istituzione di questa festa: “Ecco il Cuore che ha tanto amato gli uomini, e che ne è così poco amato!”. Si tratta, quindi, di una festa di riparazione verso l’Amore che non è ri-amato; riparazione che fa, del resto, ammenda onorevole glorificando i pacifici trionfi di quest’Eterno Amore.
La Messa era doppia di I classe prima del 1929. Doppia di I classe con ottava privilegiata di III ordine dal 1929 al 1955. Di I classe dal 1955.
Lo scopo della solennità di questo giorno è doppio: mentre offriamo il nostro tributo di amore a questo Cuore che, a causa di sua eccellenza e dell’unione ipostatica, è il centro ed il re di ogni altro cuore umano, espiamo il crimine, allo stesso tempo, di avere trapassato con i nostri peccati questo Cuore adorabile e di averlo incoronato delle spine dell’ingratitudine e del disprezzo.
Gesù invita l’umanità tutta intera a cercare un asilo di dolce riposo nel suo Cuore. Ma perché siamo tutti tormentati e stanchi? Sant’Agostino ce lo dice: a causa della nostra vita mortale stessa, vita fuggitiva e soggetta a numerose tentazioni, in cui portiamo il tesoro della fede nel vaso fragile della nostra umanità. Una tale condizione c’affligge, ma il dolce invito di Gesù ci consola. È anche vano, in questo mondo, di sperare un altro conforto, perché, come dice molto bene un antico logion evangelico, riportato da Origene e da Didimo il cieco: Qui iuxta me est, iuxta ignem est; qui longe a me est, longe a regno est; Colui che si avvicina a me, si avvicina al fuoco, mentre quegli che si allontana da me si allontana dal regno (Origene, Omelia latina su Geremia 20, 3 in PG 13, col. 532; Didimo il cieco, Commento ai Salmi 88, 8, in PG 39, col. 1488D: Διο φησιν ο σωτηρ· Ο εγγυς μου, εγγυς του πυρος· ο δε μακραν απ εμου, μακραν απο της βασιλειας). Questa parola d’oro, pronunziata dal divin Salvatore, e che c’è stata trasmessa dalla tradizione dei Padri, garantisce anche per la sua bellezza la sua autenticità, e sembra molto degna di essere unita all’altro logion che c’è stato conservato da san Paolo: “Gesù ha detto: È meglio dare che ricevere”.
La lettura evangelica è chiesta in prestito a san Giovanni (Gv 19, 31-37), e descrive, con la rottura delle gambe dei due ladroni, l’apertura del costato di Gesù morto. Da questa ferita sgorgarono il sangue e l’acqua, per simboleggiare i sacramenti nei quali la Chiesa nasce ed è nutrita. È il Nuovo Testamento nel sangue. Giovanni, che esercita al tempo stesso le funzioni di scrittore e di testimone, vuole mostrare ai fedeli la continuità del piano divino nell’antica e nella nuova alleanza, e cita a questo scopo le profezie che ricevettero il loro compimento sul Golgota, dopo la morte di Gesù.
Non si doveva rompere alcun osso dell’agnello pasquale, perché l’immolazione della Vittima divina non fosse seguita dalla decomposizione del suo corpo nel sepolcro, ma, al contrario, dalla gloria della risurrezione. Di più, sebbene Gesù nella santa Comunione sia preso in cibo dai fedeli, non è consumato per ciò. Nec sumptus consumitur (San Tommaso d’Aquino, Lauda Sion, sequenza della Messa del Corpus Domini, «se ne nutre senza consumarlo»), e l’agnello, stesso dopo che i fedeli se ne sono nutriti, rimane vivente, glorioso ed intero. Ma esiste un’altra profezia (Zac 12, 10), alla quale si riferisce più volte san Giovanni: i popoli contempleranno Colui che è stato trafitto.
Il passo del Vangelo letto in questo giorno è stato commentato con eleganza da Paolino di Aquileia (+ 802) (cfr. A. Willart, L’Hymne de Paulin sur Lazare dans un manuscrit d’Autun, Rev. Bénéd., XXXIV, 1922, p. 42):

Quando se pro nobis sanctum
Fecit sacrificium,
Tunc de lateris fixura
Fons vivus elicuit;
De quo mystice fluxerunt
Duo simul flumina:
Sanguis nam redemptionis
Et unda baptismatis.

Quando si fece per noi Sacrificio,
dalla ferita del suo costato
una sorgente viva allora uscì;
da essa colarono allo stesso tempo
e misticamente due fiumi:
il sangue del riscatto
e l’acqua del battesimo.

L’antifona per l’offertorio è la stessa della domenica delle Palme (Sal. 69 (68), 21).
Molto più atroci delle sofferenze fisiche furono le pene morali patite dal Salvatore durante la sua passione, allorché, mentre era caricato del peso degli errori degli uomini, e condannato a morte dal Sinedrio, rimase come schiacciato sotto l’angoscia della maledizione lanciata da Dio Padre contro il peccato.
Sentiva che il peccato aveva innalzato come una muraglia tra il Creatore e le creature, ed ecco perché, in virtù di un giusto giudizio di Dio, la sua umanità, abbandonata agli oltraggi, ai tormenti ed alla morte obbrobriosa della Croce, intonò il misterioso cantico: Elì, Elì, lemà sabactàniDio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: Sal. 22 (21)). Soffrendo per noi, Gesù ha voluto che noi, a nostra volta, ci assimilassimo alla sua Passione benedetto, rivivendola con la fede e con le opere delle mortificazione cristiana.
Nelle messe votive durante il tempo pasquale, quest’antifona così malinconica dell’offertorio è rimpiazzata da un’altra che esalta, al contrario, l’eccellenza del sacrificio del Cristo su tutte le oblazioni dell’Antica Legge (Sal. 40 (39), 7-9).
I sacrifici dell’Antica Legge smisero di piacere a Dio quando arrivò infine la pienezza dei tempi, in cui doveva essere compiuto ciò che questi antichi riti facevano soltanto preannunciavano. Venne allora il Verbo incarnato, per offrire un olocausto che solo era degno di Dio. E poiché ogni offerta deve sempre compiersi secondo un cerimoniale ed un rito gradito alla Divinità, Gesù visse e si immolò durante trentatré anni conformemente a ciò che il Padre eterno aveva prescritto per Lui nei Libri santi dell’Antica Alleanza.
Nella preghiera che precede l’anafora è si fa di nuovo allusione al doppio significato della solennità di questo giorno. Innanzitutto, è una festa di espiazione verso l’amore non riamato e disprezzato; ed è per questo che noi uniamo la nostra ammenda onorevole a questo stesso Amore, che, nel Sacrificio eucaristico, espia per noi. Inoltre, è una celebrazione di azione di grazie e di trionfo del Cuore sacratissimo di Gesù. Per questo motivo, offriamo questo stesso Cuore eucaristico, affinché, perpetuando sui nostri altari l’inno di azione di grazie intonato con gli Apostoli nel Cenacolo un tempo, Tibi gratias agensE Ti rendiamo grazie»: cfr. Luc. 17, 16 e 1 Cor. 11, 24), l’amore incarnato ed immolato sia lui stesso il ringraziamento dell’umanità all’eterno Amore.
Bisogna notare con una grande soddisfazione la tendenza della Santa Sede a dotare le messe più insigni di un prefazio proprio. Dopo quella dei defunti, di san Giuseppe, di Cristo re, ecco oggi quella del Sacro Cuore di Gesù. Si ritorna così all’antica tradizione latina, rappresentata soprattutto dai Sacramentari romani, nei quali ogni solennità aveva il suo prefazio. Attualmente la liturgia milanese è sola rimasta fedele alla sua antica tradizione; ma bisogna sperare che, presto o tardi, come accadde sotto Pio X per il canto gregoriano, Roma ammetterà di nuovo nel suo messale questi antichi e così bei prefazi dei Sacramentari detti di Leone Magno, di Gelasio I e di Gregorio Magno, che, senza che l’autorità sia intervenuta, si sono come persi nei manoscritti durante i lunghi secoli del basso Medioevo.
L’antifona per la Comunione, conformemente alla regola, è tratta dal Vangelo (Gv 19, 34). Il significato speciale di questo sangue e di quest’acqua c’è spiegato nella seguente antifona per la Comunione durante il ciclo pasquale (Gv 7, 37): come la bevanda che prendiamo si incorpora a noi e si cambi nel nostro sangue, così i tesori della redenzione, che ci sono stati conferiti nei sacramenti, diventano il nostro bene, il nostro patrimonio spirituale, in quanto c’uniscono e c’incorporano misticamente al Cristo che è il Capo del Corpo della Chiesa.
Tuttavia queste acque di eterno riscatto sono promesse solamente a colui che ne è avido, perché la grazia di Dio è offerta con amore come un dono, non è imposta violentemente come un arruolamento obbligatorio. Per questo, il santo cardinale Andrea Ferrari diceva molto giustamente ai piccoli bambini di Milano: Si salva chi vuole.
Quando si è gustato una volta Dio, tutti i beni creati diventano insipidi e fastidiosi. Ma, per gustare Dio, abbiamo bisogno di quel dono speciale di pietà che, esso stesso, è una grazia dello Spirito Santo. Non merita, difatti, di gustare Dio, colui che cerca le sue delizie al di fuori di Lui; perciò la sacra liturgia chiede oggi, molto a proposito, questo dono, dopo che la partecipazione ai misteri della morte del Signore ha stampato nel nostro cuore le stimmate della Passione di Gesù, consacrandoci così ad una vita di mortificazione e di immolazione.
Alle lodi del Sacro Cuore, espresso dai Padri della chiesa latina, aggiungeremo oggi quelle della Chiesa bizantina, che le canta nel Tropario del Mattutino del Venerdì Santo delle “Beatitudini” (Τροπάριο τῶν Μακαρισμῶν, Ὄρθρος Μ. Παρασκευῆς):

ζωηφόρος σου πλευρά, ς ξ δέμ πηγή ναβλύζουσα, τήν κκλησίαν σου, Χριστέ, ς λογικόν ποτίζει παράδεισον, ντεθεν μερίζουσα, ς ες ρχάς, ες τέσσαρα Εαγγέλια, τόν κόσμον ρδεύουσα, τήν κτίσιν εφραίνουσα καί τά θνη πιστς διδάσκουσα προσκυνεν τήν βασιλείαν σου.

Il tuo costato, che porta la vita,
Simile alla sorgente che sgorgava dall’Eden,
Annaffia la Tua Chiesa, o Cristo,
Come un giardino spirituale.
Poi si divide
Come un tronco unico, in quattro Vangeli.
Annaffia il mondo.
Rallegra la creazione;
Insegna ai popoli
Ad adorare il tuo regno con fede.





















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