sabato 7 marzo 2015

Cinquant'anni fa la prima messa ufficiale in lingua italiana .... . Da allora nulla fu come prima.

Domenica 7 marzo 1965, esattamente cinquant'anni fa, Paolo VI, nella chiesa romana di Ognissanti al quartiere Appio-Latino, celebrava, in lingua italiana, la messa vespertina (v. sul punto anche l'articolo di Rorate Caeli).



Questa targa commemorativa presenta gravi errori grammaticali: i numeri romani non richiedono il "pallino", in quanto sono già aggettivi numerali ordinali! Con la messa in vernacolare, ci si è dimenticati persino della corretta grammatica! Italiana, ovviamente.

In quella prima domenica di Quaresima, dopo circa milleseicento anni, la Messa non era più celebrata nella lingua della Chiesa, il latino, venendo ciò a rappresentare uno dei profili più evidenti ed emblematici di quella celebrazione di papa Montini.
Pio XII, tuttavia, in un discorso del 1956 ai partecipanti al 1° Congresso di liturgia pastorale, trattando della liturgia e del tempo presente, ricordava come la Chiesa, in verità, avesse serie ragioni per preservare, nel rito latino, l’obbligo dell’utilizzo di quell’antica lingua (Pio XII, Allocutio Ad Emis. PP. DD. Cardinalibus Excmis PP. DD. Archiepiscopis et Episcopis, ceterisque Antistitibus, Sacerdotibus ac Religiosis, qui Conventui internationali de Liturgia Pastorali, Assisii habito, interfuerunt, 22 settembre 1956, in A.A.S. 48 [1956], p. 724). La prima ragione è correlata alla necessità di avere una lingua sacra, distinta da quella corrente.
Non esiste religione, antica o moderna, nella quale non si distingua ciò che è sacro da ciò che è profano. Al contatto con l’altare o con il Sacro, pertanto, le lingue si sono pur’esse “sacralizzate” e differenziate dagli idiomi correnti, non essendo strettamente necessario la loro comprensione (Cfr. Godefroy L., voce Langues liturgiques, in Dictionnaire de théologie catholique, vol. 8, t. II, Paris 1925, coll. 2580-2591; Hanssens G. M., voce Lingua liturgica, in Enciclopedia cattolica, vol. 7, Città del Vaticano, 1951, coll. 1377-1382), ciò anche allo scopo di salvaguardare il mistero delle cose sante, sottraendole alla loro “volgarizzazione”. A tal proposito, S. Basilio di Cesarea, con ragione, sottolineava che le cose sante, che afferiscono al Mistero, fossero sottratte al popolo per evitare che esse stesse si volgarizzino (Cfr. Basilio Magno, Liber De Spiritu Sancto, XXVII, 66, in PG 32, col. 190).
Tra gli idiomi che si sono sacralizzati vi è la lingua latina, che, come la definì Pio XI nel 1924, è «magnifica caelestis doctrinae sanctissimarumque legum veste uteretur» (Pio XI, motu proprio Latinarum litterarum, De peculiari litterarum latinarum schola in athenaeo gregoriano costituenda, 20 ottobre 1924, in A.A.S. 16 [1924], p. 417). Quest’idioma, venuto a contatto con l’altare, probabilmente sin dal I sec. d. C. (come ipotizzato da alcuni sulla base di graffiti pompeiani: cfr. Berry P., The Christian Inscription at Pompeii, Edwin Mellen Press, Lewiston N.Y., 1995) e sicuramente dal III-IV sec., è rimasto nella liturgia praticamente per ben milleseicento anni (cfr. Lang U.M., Il latino come lingua liturgica del rito romano, in Nuara V. M. (a cura di), Il motu proprio Summorum Pontificum di S.S. Benedetto XVI, Verona 2009, pp. 73-74).
La seconda motivazione è da ricondurre al fatto che, storicamente, la lingua latina si è imposta come lingua sacra.
S. Ilario di Poitiers affermava che il mistero di Dio si era rivelato principalmente in tre lingue: l’ebraica/aramaica, la greca e la latina. Queste lingue erano idealmente rappresentate – secondo quell’antico Padre – nel titulus crucis, cioè nell’iscrizione, recante il motivo della condanna di Gesù e posta sopra il suo Capo (Ilario di Poitiers, Tractatus super Psalmos, Prologus, 15, in PL 9, col. 241-242). Ed Onorio di Ratisbona (o d’Autun) poneva in rilievo come, nella liturgia, tutte queste lingue fossero state conservate gelosamente (Onorio di Ratisbona, Gemma Animae, I, XCII, in PL 172, col. 574). In ogni caso, tali tre idiomi – aggiunge il celebre abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger – sono stati i soli di cui ci si è serviti nei primi quattro secoli del Cristianesimo e ciò è stato sufficiente a conferire loro una particolare dignità liturgica, a differenza delle lingue correnti. Dio avrebbe condotto la mano del governatore romano nella scelta delle lingue che comparivano nell’iscrizione, anche per consacrare le tre lingue, le stesse che il popolo ebraico, riunito da ogni luogo per la festività pasquale, potesse leggere sul Titolo issato sulla testa del Redentore (Così Guéranger P (dom), Instituions liturgiques, Paris-Bruxelles, 1883, II ed., t. III, pp. 57 ss.). Tale concezione apparve, in maniera chiara, il 7 luglio 1409, nella cerimonia d’incoronazione di papa (o antipapa?) Alessandro V, durante il concilio di Pisa: in quella circostanza si cantò, raccontano gli Atti conciliari, l’Epistola ed il Vangelo in ebraico, in greco ed in latino, venendo così quelle lingue armonicamente riunite in un unico e solenne contesto.
Episodi come quello dei demoni che, comparendo a San Guthlac di Crowland (Felix di Croyland, Vita Sancti Guthlaci, 20, ora in Colgrave B. (a cura di), Felix’s Life of Saint Guthlac. Text, Translation and Notes, Cambridge, rist. 2007, pp. 84 s.), si esprimevano in lingua volgare (britannico) al pari dei barbari e degli infedeli (sul punto, v. anche Penco G., Il monachesimo fra spiritualità e cultura, Milano 1991, p. 203), pur trovando una giustificazione nella mentalità propria della letteratura agiografica del tempo, dimostrano come, per secoli, il latino fosse ritenuto – insieme alle altre due lingue sacre – un idioma angelico, perfetto, idoneo a sopperire agli effetti nefasti della confusio linguarum babelica, ed in grado «visibilmente» di far pregare tutti i figli della Chiesa all’unisono, «ad una sola voce e con un solo cuore» (così Amata B., Il patrimonio classico e cristiano nella scuola all’appuntamento europeo del 1993, in Amata B. (a cura di), Cultura e lingue classiche, Roma 1993, p. 670), «senza distinzione di razza o di cultura» (Bux N., La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, con Prefazione di Messori V., Casale Monferrato, 2009, p. 117).
Che il latino fosse da considerarsi lingua sacra lo riconobbe, d’altro canto, lo stesso Paolo VI, il quale, proprio nell’Angelus di quel lontano 7 marzo 1965, dichiarò: «Questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico … . La Chiesa ha ritenuto doveroso questo provvedimento - il Concilio lo ha suggerito e deliberato … È un sacrificio che la Chiesa ha compiuto della propria lingua, il latino; lingua sacra, grave, bella, estremamente espressiva ed elegante».
La terza ragione si annoda alla verità dell’unicità della Chiesa di Cristo: una lingua unica per l’unica vera Chiesa.
La lingua latina, infatti, è stata intesa come concreto segno di quell’unità intesa in senso triplice: nella fede, nello spazio e nel tempo (Cfr. Crescimanno C., La Riforma della Riforma liturgica, Verona 2009, p. 229). Attraverso quell’idioma, ogni chiesa particolare, per quanto lontana geograficamente da Roma, poteva sentirsi unita, nella comune fede, nella preghiera e nella liturgia, a quella Prima Sede. Al contempo, questa comunanza orante riuniva i fedeli ai fratelli che li avevano preceduti nei secoli passati, non essendo trascurabile il sapere di pregare con le stesse formule, con gli stessi canti e gesti con i quali hanno pregato i Santi ed i Martiri di ogni epoca sino ai nostri giorni (ibidem).
Tale concetto era ben chiaro, ad es., al papa San Gregorio VII. Il duca di Boemia, Vratislao, infatti, gli aveva chiesto di estendere anche ai suoi popoli, pur’essi slavi, la dispensa che il predecessore, Giovanni VIII, nel giugno dell’880, aveva accordato per la Moravia con la lettera apostolica Industriae tuae, indirizzata al Principe Svatopluk (Giovanni VIII, Ep. Industriae tuae, a. 880, in PL 126, col. 904 ss.) (sebbene questa dispensa fosse revocata da papa Stefano V - Stefano V, Ep. Quia te zelo fidei, a. 885, in PL 129, col. 802 ss., partic. col. 803-804). Papa Ildebrando rifiutò, spiegando che le necessità che si sono presentate agli inizi della Chiesa, non potevano prudentemente diventare una regola per i secoli seguenti (Gregorio VII, Ep. Hujusmondi salutationis nostrae, a. 1079 (1080), in PL 148, col. 554 ss.). Spingendo le frontiere della lingua latina fino alla Boemia, papa Gregorio VII faceva avanzare sino alla Polonia la fede cristiana, «qui, restant latine, se trouvait ainsi consacrée comme le boulevard catholique de l’Europe du côté de l’Asie» (Così Guéranger P (dom), op. cit., p. 117).
Pio XI, nella lettera apostolica Unigenitus Dei del 19 marzo 1924, con la quale illustrava i criteri ai quali ispirarsi nella formazione del clero, non a caso, asseriva, tra l’altro, che «Ecclesia utitur [latine, ndr.] veluti ministro et vinculo unitatis» (Pio XI, Epist. Ap. Unigenitus Dei Filius, 19 marzo 1924, in A.A.S. 16 [1924], p. 141).
Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, ribadirà quest’idea affermando che «… Latinae linguae usus, ut apud magnam Ecclesiae partem viget, perspicuum est venustumque unitatis signum, …» (Pio XII, Litt. enc. Mediator Dei, 20 novembre 1947, ivi, 39 [1947], p. 545).
Anche Giovanni XXIII non mancò di sottolineare il carattere “unitivo” della lingua latina anche «nel presente momento storico, in cui, insieme con una più sentita esigenza di unità e di intesa fra tutti i popoli, non mancano tuttavia espressioni di individualismo». Per questo, tale idioma «può ancora oggi rendere nobile servizio all’opera di pacificazione e di unificazione» persino «ai nuovi popoli, che si affacciano fiduciosi alla vita internazionale», giacché non essendo legato «agli interessi di alcuna nazione, è fonte di chiarezza e di sicurezza dottrinale, è accessibile a quanti abbiano compiuto studi medi e superiori; e soprattutto è veicolo di reciproca comprensione» (Giovanni XXIII, Discorso alle rappresentanze del Sacro Collegio della Curia romana e del Clero romano in occasione della festività della Cattedra di San Pietro, 22 febbraio 1962, in A.A.S. 54 [1962], pp. 167 ss., partic. pp. 174-175. Cfr. anche Sacra Congregazione per i Seminari e gli Istituti di Studi, ord. Sacrum Latinae Linguae depositum, 22 aprile 1962, in A.A.S. 54 [1962], pp. 339 ss., partic. p. 340).
Significativo è anche quanto afferma Giovanni Paolo II, Ep. ap. Dominicae caenae, 24 febbraio 1980, partic. n. 10 (in A.A.S. 72 [1980], pp. 113 ss., partic. p. 135), per il quale la lingua latina, «unius sermonis … in universo orbe terrarum unitatem Ecclesiae significat et indole sua dignitatis plena altum sensum Mysterii eucharistici excitavit». Papa Wojtyla riconosce, inoltre, sempre nello stesso documento, che «Ecclesia quidem Romana erga linguam Latinam, praestantissimum sermonem Urbis Romae antiquae, peculiari obligatione devincitur eamque commonstret oportet, quotiescumque offertur occasio».
Una lingua “una”, dunque, per una Chiesa “una”.
La c.d. riforma protestante confermerà questo principio: con l’abbandono dell’unità dell’Impero ed il nascere degli Stati nazionali, anche la lingua latina – utilizzata nella liturgia – cedette il posto al culto protestante in lingua nazionale.
La quarta ragione è strettamente legata alla precedente: la necessità di una lingua immutabile, in-temporale, priva di dimensione diacronica, come direbbe il filosofo cattolico Romano Amerio (Amerio R., Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di Radaelli E. M., con Prefazione del card. Castrillón Hoyos D., Torino 2009, p. 548).
Tale motivazione fu chiaramente espressa da Pio XI nella lettera apostolica Officiorum omnium del 1922, per il quale la Chiesa, abbracciando nel suo seno tutte le nazioni, ed essendo destinata a durare sino alla fine dei secoli, esige per la sua stessa natura, una lingua universale, immutabile, non popolare, sottratta cioè all’alterazione delle lingue volgari (cfr. Pio XI, Epist. ap. Officiorum ominum sanctissimorum, 1° agosto 1922, in A.A.S. 14 [1922], p. 452). Papa Pacelli aggiunse, sempre nella Mediator Dei, che la lingua latina è, tra l’altro, pure «remedium efficax adversus quaslibet germanae doctrinae corruptelas» (Pio XII, Litt. enc. Mediator Dei, cit., p. 545).
Giovanni XXIII, riprendendo questi argomenti, sottolineò che «catholica Ecclesia, utpote a Christo Domino condita, inter omnes humanas societates longe dignitate praestet», per questo «profecto decet eam lingua uti non vulgari, sed nobilitatis et maiestatis plena» (Giovanni XXIII, Const. ap. Veterum Sapientia, 22 febbraio 1962, in A.A.S. 54 [1962], p. 131). Nella Lettera Jucunda laudatio del 1961, papa Roncalli, infine, non ebbe remore a proclamare il latino quale lingua ineliminabile della liturgia, cui anche i più umili avrebbero diritto di accedere grazie ai manuali bilingui e ad opportune catechesi liturgiche (Id., Ep. Jucunda laudatio, Ad Hyginum Anglés Pamies, Protonotarium Apostolicum ad instar participantium ac Pontifici Instituti Musicae Sacrae docendae praesidem, decem exactis lustris ab eiusdem instituti ortu, 8 dicembre 1961, ivi, 53 [1961], p. 812).
Per tutti questi motivi, il latino può – a giusto titolo – definirsi «lingua propria della Chiesa» (Sacra Congregazione degli Studi, Epist. Vehementer sane, ad Episc. Universos, 1° luglio 1908, in Ench. Cler., n. 820), perché ad essa connaturale non in senso metafisico, bensì in senso storico per il peculiare ed intimo rapporto che ha avuto con la religione cattolica (De Mattei R., La liturgia della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione, Chieti 2009, pp. 17-18). In effetti, per secoli, «nell’opinione comune, il latino faceva tutt’uno con il cattolicesimo, le lingue nazionali con il protestantesimo» (Così ricorda Waquet F., Le latin ou l’empire d’un signe. XVIe-XXe siècle, Paris 1998, trad. it. di Serra A., Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo), Milano 2004, p. 113). L’Autrice non manca di osservare però che, nondimeno, il protestantesimo non fu un mondo senza latino, atteso che persino riformatori del calibro di Lutero o di Calvino non abbandonarono la lingua latina, ma anzi fu da essi mantenuta in molte loro opere (ibidem, pp. 114-115).
Furono favorevoli alla lingua popolare, in primis, gli ortodossi. A questo riguardo non può non richiamarsi un celebre parere del canonista bizantino Teodoro Balsamone, patriarca di Antiochia nel XII sec., il quale, richiesto dal patriarca melchita di Alessandria d’Egitto se ai sacerdoti armeni e siriaci dimoranti in Egitto si dovesse consentire di utilizzare la propria lingua nella liturgia ovvero se si dovesse loro imporre la lingua greca, Balsamone rispondeva in senso affermativo. Egli affermò essere lecito utilizzare le lingue nazionali, conservando la fedeltà della traduzione al testo greco (cfr. Teodoro Balsamone, Interrogationes canonicæ S. Patriarchæ Alexandriæ D. Marci et Responsa ad eas, in PG 138, col. 951 ss., partic. col. 957).
In seguito, i valdesi, i catari, John Wycliff in Inghilterra, e Jan Huss in Boemia furono a favore della lingua vernacolare.
Erasmo da Rotterdam fu censurato dall’Università della Sorbonne di Parigi, nel 1526, perché aveva criticato con veemenza, nelle sue Annotationes in Novum Testamentum e, segnatamente, sul Vangelo di Matteo (Praefatio in Matthaeum), la pratica di far pronunciare ai fedeli – nei sacri riti – delle preghiere in una lingua che essi non comprendevano. Sostenne, infatti, essere «indecorum, vel ridiculum potius» vedere «idiotae et mulierculœ» pregare «cum ipsae quod sonant non intelligant» (il testo è in Guéranger P (dom), op. cit., t. III, cit., p. 160. Cfr. Godefroy L., op. cit., col. 2584-2585). I teologi parigini giudicarono questa proposizione «impia et erronea» e che «viam praebens errori Bohemorum, qui Officium Ecclesiasticum idiomate vulgari celebrare conati sunt» (Guéranger P (dom), loc. cit.. Cfr. anche Waquet F., op. cit., p. 69).
Lutero e gli altri riformatori ripresero quest’idea, stigmatizzata, in seguito, dal Concilio di Trento (Cfr. Concilio di Trento, Doctrina et canones de SS. Missae sacrificio, Sessio XXII, 17 settembre 1562, in Denzinger H., Enchiridion Symbolorum – definitionum et declarationum de rebus fidei et morum 37, a cura di Hünermann P., EDB, Bologna 1996 2, nn. 1749 e 1759, pp. 726-730). Anche i giansenisti non furono da meno.
Pasquier Quesnel fu riprovato da papa Clemente XI, con la bolla Unigenitus Dei Filius del 1713, tra l’altro, perché aveva sostenuto che sottrarre al popolo semplice, con l’uso della lingua latina nella liturgia, la consolazione di unire la propria voce con quella di tutta la Chiesa era da considerarsi contrario alla prassi apostolica ed all’intenzione di Dio (Clemente XI, Const. ap. Unigenitus Dei Filius, 8 settembre 1713, ivi, n. 2486, pp. 872-873).
Su non diverse posizioni si trovò anche il sinodo di Pistoia, che riunì nella città toscana i vescovi del Granducato dal 18 al 28 settembre 1786 e che era appostato fino all’evidenza su posizioni gianseniste e febroniane. Questo conciliabolo, infatti, convocato dal vescovo di Prato e Pistoia, Scipione de’ Ricci, su sollecitazione del Granduca illuminista Leopoldo I, allo scopo di assecondare le riforme politico-ecclesiastiche varate nel Granducato (che dettero luogo a quel sistema di stampo giurisdizionalistico noto come leopoldismo), auspicava «una maggiore semplicità dei riti, esponendoli in lingua volgare e proferendoli ad alta voce», poiché l’uso contrario – per i sinodali – costituiva una «dimenticanza» dei principi della liturgia.
Pio VI, con la Cost. Ap. Auctorem fidei del 1794, non mancò di biasimare questa proposizione, giudicandola, tra l’altro, «temeraria, piarum aurium offensiva, in Ecclesiam contumeliosa, favens haereticorum in eam conviciis» (Pio VI, Const. ap. Auctorem fidei, 28 agosto 1794, ivi, n. 2633, pp. 934-935).
Francesco Hayez, Ritratto di Antonio Rosmini, 1853,
Pinacoteca di Brera, Milano
Persino il Rosmini, che aveva manifestato nell’opera Delle Cinque Piaghe della santa Chiesa, trattando della piaga alla mano sinistra del Redentore, l’auspicio che si rendesse il popolo più partecipe dei santi misteri (tanto che alcuni videro in ciò il desiderio dell’abate rovetano di rendere le funzioni religiose in lingua corrente), affermò – precisando il suo pensiero – di non «parteggi[are] con quelli che, non intendendo la divina sapienza della Chiesa, vorrebbero cangiata la lingua ch’essa adopera nelle sacre funzioni» e che, anzi, il volgare nella liturgia, a suo avviso, «sarebbe [stato] peggiore del male» che si voleva curare (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, Roma 19982, p. 324, nota 38. Il passo è tratto da una lettera dello stesso A., riprodotta in Appendice alla sua opera nell’edizione da noi adoperata. Cfr. anche Amerio R., op. cit., p. 546, nota 5). Aggiunse, inoltre, in una successiva edizione della sua opera, che «quantunque noi abbiamo esposto lo svantaggio provenuto dall’esser cessata nel popolo l’intelligenza della lingua latina, tuttavia è alieno dall’animo nostro il pensiero che la sacra liturgia si convenga tradurre nelle lingue volgari. Non solo la Chiesa Latina, ma la Greca e le Orientali ritennero costantemente le liturgie nelle lingue antiche in cui furono scritte, e una divina sapienza assiste la Chiesa Cattolica come nelle sue decisioni dogmatiche e morali, così nelle sue disposizioni disciplinari» (Per l’autore rovetano, lo svantaggio della non comprensione da parte del popolo della lingua liturgica sarebbe compensato da una serie di vantaggi, che egli stesso enumerava come quello, soprattutto, di essere il latino espressione tangibile dell’unità della Chiesa e dell’immutabilità della fede. Cfr. Antonio Rosmini, op. cit., nn. 22-23, pp. 75-78).

Dom Alcuin Reid on the 50th Anniversary of Mass in the Vernacular

GREGORY DIPIPPO

Once again, we are very grateful indeed to Dom Alcuin Reid for sharing his work with our readers. He writes here about the 50th anniversary of the first Mass celebrated by a Pope in the vernacular, and the “implementation” of Sacrosanctum Concilium, the Second Vatican Council’s Constitution on the Sacred liturgy.

March 7th, 1965—’An extraordinary way of celebrating the Holy Mass’

“On March 7, 1965, Blessed Paul VI...celebrated the first Mass in Italian in history in the parish of Ognissanti (All Saints), Rome,” Vatican Information Services tells us. To mark 50 years since this event a Congress on Pastoral Liturgy has been held this week—speakers included Archbishop Piero Marini—and on the anniversary itself Pope Francis will celebrate the evening Mass in the same parish.
This anniversary, and the celebration of it, may seem a little anomalous—after all, the ‘new’ Mass came into force on the first Sunday of Advent in 1969. Why the celebrations now?
March 7th, 1965, was in fact the date on which the Instruction Inter Oecumenici – “On the Proper Implementation of the Constitution on the Sacred Liturgy,” dated September 26, 1964, came into force. It was the first significant implementation of the liturgical reform. Hence Paul VI’s words at the beginning of his homily at Oggnisanti: “Today we inaugurate the new form of liturgy in all the parishes and churches of the world.”
Inter Oecumenici is well worth reading, particularly articles 11-19 (on liturgical formation) which precede any discussion of ritual changes. As in Sacrosanctum Concilium itself, sound and thorough liturgical formation at every level is regarded as an essential prerequisite for full, conscious and actual participation in the Sacred Liturgy.
The Instruction certainly effects changes though, simplifying ritual salutations, omitting psalm 42 from the beginning of Mass, introducing the prayer of the faithful, abolishing the subdeacon holding the paten, removing the last Gospel, saying that the main altar in a church should be constructed so that Mass “may” be celebrated facing the people, etc. The Ordo Missae published in January 1965 incorporated the changes made by Inter Oecumenici and added more. This is not the occasion to evaluate them, though it is worth noting that no less than Klaus Gamber judged the 1965 Ordo Missae (there was no 1965 Missale Romanum) to be the last form of the traditional Roman rite, appropriately reformed according to the provisions of the Council.
Inter Oecumenici also extended the place which may be granted to the vernacular language in the celebration of the liturgy. The competent territorial ecclesiastical authority, with the approval of the Holy See, was to decide how extensive this was to be. At the beginning of 1965 the preface and Roman canon (there were no other “Eucharistic prayers”) remained in Latin—though the Instruction notes that “it pertains solely to the Apostolic See to concede the vernacular in other parts of the Mass which are chanted or recited by the celebrant alone” (§ 58).
Let us return to the church of Ognissanti on the Via Appia Nuova in Rome’s Appio-Latino quarter, and “the first Mass in Italian in history” celebrated by Paul VI (well, given the canon &c., mostly in Italian). To arrive at an extensive use of the vernacular merely 459 days after the promulgation of the Constitution on the Sacred Liturgy on December 4, 1963, was quite an accomplishment—a direct fruit of the requests submitted by the Italian bishops to the Consilium and of the prompt and positive responses it increasingly gave to such requests.
The leadership of the Consilium and, seemingly, most Italian bishops, regarded the maximum use of the vernacular as being of great importance, if not as indispensable, in achieving a participatory and truly pastoral liturgy. “The fundamental norm from today and in the future is to pray understanding every phrase and word, to complete [them] with our personal feelings, and to make them one with the soul of the community that sings with us in unison,” Paul VI said in his homily.
Indeed, reading the memoirs of the Consilium’s Secretary, Annibale Bugnini CM, it becomes clear that the question of arriving at a liturgy that was completely in the vernacular was a burning quest which left the clearly nuanced provisions of the Constitution on the Sacred Liturgy far behind (“In Masses which are celebrated with the people, a suitable place may be allotted to their mother tongue” § 54; see also § 36). Bugnini himself had to admit that “it cannot be denied that the principle, approved by the Council, of using the vernaculars was given a broad interpretation.” Indeed, he held—somewhat arrogantly—that since its introduction “millions and hundreds of millions of the faithful...have at last achieved worship in spirit and truth” and “can at last pray to God in their own languages and not in meaningless sounds.” Paul VI himself asserted that March 7th, 1965, was “a great event, that shall be remembered as the beginning of a flourishing spiritual life, as a new effort to participate in the great dialogue between God and man.”


There is no denying that some use of the vernacular can aid liturgical participation, particularly with readings from Sacred Scripture, or that the Council desired this. Even Archbishop Lefebvre, who signed the Constitution on the Sacred Liturgy, could see a real pastoral advantage to its use in the Mass of Catechumens (what would later be known as the “Liturgy of the Word”). However, to require that the Sacred Liturgy be celebrated in the vernacular is an error condemned by a general council of the Church and by Pius VI’s bull of 1794 Auctorem Fidei (Denzinger 1759, 2666).
Indeed, as the Christian East has never forgotten, the Sacred Liturgy is not in the first place a comprehension exercise. It is the ritual worship of Almighty God employing multivalent symbols which thus become privileged sacramentals—sacred language included. Certainly, penetrating the meaning of the rites and prayers is fundamental, but this is facilitated by the work of liturgical formation (or more effectively, by liturgical habituation over a lifetime)—no short cuts, such as the quick rendering of the liturgy in the vernacular, are viable here. Even the liturgical proclamation of the texts of Sacred Scripture is not simply a didactic exercise, although certainly, the vernacular can be of immense help with participation, as indeed in some other parts of the liturgy (such as the prayers of the faithful). The Second Vatican Council knew this. But the wholesale removal of Latin from the liturgy and liturgical celebrations completely in the vernacular are contrary to what the Second Vatican Council desired and approved.
Not eighteen months after promulgating Sacrosanctum Concilium, Paul VI regarded this day as marking “the beginning of a flourishing spiritual life.” It would appear in retrospect that he was, by and large, wrong. Neither the introduction of the vernacular or the ritual reforms that this date saw (or their successors) has led to a “flourishing” ecclesial life in the decades since. There are many causes for the decline we have suffered, and there are generations of Catholics who love and hold the vernacular liturgy dear, but it remains a fact that the modern liturgy has not filled our churches. Indeed, apart from the committed and well-formed laity (who are few), there are numerous mute, extraneous spectators in our churches today who are just as disengaged from the vernacular liturgy as their forebears were from the liturgy when it was in Latin.
The issue is not fundamentally one of language—which is why, perhaps, the celebration of 50 years since the first Italian Mass in history is a little disingenuous. Rather, the issue is the nature of Catholic liturgy, and of the formation in it which is necessary to enable widespread fruitful participation in and connection with the action of Christ in the liturgy.
Fifty years ago, instead of prompting and processing requests for more and more vernacular, and pushing the pope for their extension, the Consilium might have spent its time and energy more profitably had it turned its attention to thea priori condition for fruitful participation in the Sacred Liturgy, namely liturgical formation. Today we may do well to turn ourselves to the same work—while not forgetting the enormous question of the effect not only of the vernacularization of the liturgy, but also of its radical ritual de- and re-construction at the Consilium’s hands.
The opening words of Blessed Paul VI’s homily at Ognissanti declared: “Today’s new way of prayer, of celebrating the Holy Mass, is extraordinary.” Indeed it was. Perhaps, though, it is now time to look to recover the manner of Catholic liturgical prayer and life that is truly ordinary in respect of our tradition and that is in accordance with the wishes of the Council. 

Dom Alcuin Reid is a monk of the Monastère Saint-Benoît in the Diocese of Fréjus-Toulon, France. A well known lecturer and writer on liturgical topics, Dom Alcuin coordinates the Sacra Liturgia initiatives which began with the Sacra Liturgia 2013 conference in Rome. His latest work, the T&T Clark Companion to Liturgy: The Western Catholic Tradition, is due for publication by Bloomsbury towards the end of 2015.

Fonte: New Liturgical Movement, March 7th, 2015

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