martedì 9 settembre 2014

Intervista al prof. Enrico Maria Radaelli - "La Chiesa ribaltata"

Riporto dal sito Cooperatores Veritatis l'intervista al prof. Enrico Maria Radaelli. Dallo stesso sono tratte anche le immagini.
Ringrazio LDCaterina63 per avermi autorizzato al rilancio, su questo blog, dell'intervista da lei fatta al docente, a Venezia, lo scorso agosto.
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Il prof. Enrico Maria Radealli, docente di Filosofia dell’estetica, è discepolo del grande teologo italo-svizzero Romano Amerio, nonché curatore unico della sua opera omnia. Ha scritto diversi articoli sull'origine della bellezza pubblicati dall'Osservatore Romano, ed è autore di diversi libri in difesa del Depositum fidei della Chiesa cattolica: i più recenti Il domani - terribile o radioso? - del dogma?, Prefazione di Roger Scruton, Milano, Aurea Domus 2013 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma) e La Bellezza che ci salva, Prefazione di Antonio Livi, Milano, Aurea Domus 2012 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma). Recentemente è stata pubblicata dalla Gondolin Editrice la sua ultima fatica, intitolata "La Chiesa ribaltata - Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco", in cui il prof. Radaelli studia attentamente i quattro atti più significativi dei primi nove mesi del pontificato del papa regnante. Molto gentilmente, ha accettato di rilasciare al nostro staff quest'intervista. Lo ringraziamo sentitamente e speriamo che la sua opera in difesa del Dogma porti abbondanti frutti.

ENRICO MARIA RADAELLI, Ritratto (Foto di Piergiorgio Radaelli, Roma, 12 dicembre 2010).

D. - Prof. Radaelli, grazie per averci concesso quest’intervista. Cominciamo subito dal titolo del suo ultimo libro “La Chiesa ribaltata”. Perché “ribaltata”?

R. - Ritengo particolarmente importante l’occasione che mi date di questa intervista, perché in essa, potendo parlare del mio ultimo saggio, La Chiesa ribaltata, cercherò di esporre quella che ritengo l’unica e vera ermeneutica da seguire del Vaticano II et postea per salvare la Chiesa dallo smarrimento in atto del suo magistero. Il titolo “La Chiesa ribaltata” vuol essere un segnale d’allarme. In realtà noi sappiamo (v. p. 149 del libro) che la Chiesa non può ‘ribaltarsi’ nel senso compiuto di ‘perdere la propria essenza’. Può però – e ciò sta avvenendo da cinquant’anni – ribaltare l’ordine con cui procede da sempre la virtù di religione su cui essa è imperniata, ordine metodologico ricordato fin dal II secolo dal grande vescovo e martire sant’Ignazio di Antiochia: «La fede è il principio, l’amore il fine» (v. p. 86) sulla base di innumerevoli indicazioni testamentarie (p. es. Gv 14,15: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti», dove la condizione dell’amore a Dio è l’osservanza della sua legge). Il ribaltamento cui mi riferisco è ciò che Romano Amerio, illustre pensatore cattolico italo-svizzero del secolo scorso, tutt’ora misconosciuto malgrado sia stato di gran lunga il primo in tutto il mondo a mettere i Papi del concilio davanti alle loro potenti contraddizioni metafisiche, affigge con una definizione rigorosa, precisa e appunto metafisica: «dislocazione della divina Monotriade» (R. AMERIO, Iota unum, p. 315 Lindau). Questa «dislocazione» consiste nello spostare la Terza Persona della ss. Trinità sulla Seconda e questa sulla Terza: l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione. In tutti i miei libri prima o poi si incontra questa dislocazione di essenze, e in molti essa costituisce il centro metafisico del loro argomentare, qualsiasi sia il loro orizzonte tematico. Ma, riferendomi a questo preciso lavoro sul magistero di Papa Bergoglio – La Chiesa ribaltata –, ci tengo a dire che tutto il libro è una precisa, argomentata e circostanziata denuncia di tale sovversione, rivoluzione, ribaltamento, avvenuta nella Chiesa, nella civiltà, nel mondo.


La prima esauriente risposta, e tutta fuori dal coro, agli spiazzanti interrogativi portati dal magistero di Papa Francesco. È un'Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero del papa argentino, anche alla luce del pensiero gnostico sul mistero d’iniquità come esposto nella 2a lettera ai Tessalonicesi. Lo studio prende in considerazione sia il magistero papale nel suo insieme che nei quattro atti più significativi avvenuti nei primi nove mesi del pontificato: la Lettera enciclica Lumen Fidei, l’intervista a Civiltà Cattolica, l’intervista a Eugenio Scalfari e l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Il discepolo di Romano Amerio dimostra in questo libro che la pratica di un amore senza la sua legge rischierebbe persino – se solo fosse possibile – il ribaltamento dell’essenza della Chiesa.

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Il “sistema Papa Francesco”

D. - Sino allo scorso anno, quando ci si riferiva al Vicario di Cristo, si diceva “il papa”, al di là del nome. Oggi, invece, quando si parla dell’attuale vescovo di Roma, si dice sempre “papa Francesco”. Infatti, nel suo libro, Lei sostiene che «papa Francesco non è più solo una persona, ma in qualche modo è un sistema» (pag. 36). Secondo Lei, d’ora in avanti, il papato sarà modellato sul “sistema Francesco” anziché sul modello tradizionale?

R. - Il “sistema Francesco” è delimitato alla persona che attualmente ricopre l’altissima carica: è la sua personalità, e, più ancora, le sue specifiche intenzioni: dare al papato la particolare nota che nel libro (p. 35 sgg.) definisco “sistema”: Papa Bergoglio è teso a infondere nella Chiesa la qualità specificamente “pastorale” nata nel Vaticano II con la sovversione della divina Monotriade che si diceva, precisamente nella forma pastorale con cui quel concilio fu aperto (forma pastorale ricevuta dalla forza dell’essenza “amore” da cui dipende), contravvenendo alla corretta forma che si sarebbe dovuta dare a un concilio universale – un concilio dove è presente il Papa, che ha giurisdizione universale, è automaticamente universale se egli vuole esercitare in tale adunanza pienamente tale sua giurisdizione –, dati i problemi gravi e pressanti che in ordine alla fede e alla morale gravavano già all’epoca: materialismo, semiarianesimo, semipelagianesimo, Nouvelle Théologie, liberalismo, modernismo i più importanti. La forma corretta avrebbe dovuto essere quella dogmatica, determinata dall’essenza “logos”. Il dovere morale di ogni Papa che raduna un concilio universale è dare le risposte adeguate ai problemi di fede e di morale presenti nella Chiesa al momento, e tali risposte, dinanzi a problematiche dottrinali come le sopra viste, possono essere adeguate solo se garantite dal carisma dell’infallibilità. Se fallibili, per definizione non sono e non possono essere adeguate. La Chiesa ebbe anche due concili universali in cui non fu esercitato il carisma (Laterano I e Lione I), ma solo perché le problematiche che li avevano resi necessari erano di natura disciplinare, non dottrinale. Chiesa e mondo, cinquant’anni fa, avevano bisogno di definizioni dottrinali dogmatiche (e dei complementari anatemi). Il “sistema Francesco” vorrebbe completare sistematicamente l’opera iniziata con la forma “pastorale” del Vaticano II, ma ciò non fa che estremizzare la volontà de-dogmatizzante iniziata con quel concilio. Il papato però non potrà modellarsi esemplarmente sul sistema adogmatico di Papa Francesco perché prima o poi dovrà per sua natura – la natura della Chiesa è il dogma – tornare alla propria origine dogmatica. In altre parole, la «dislocazione della divina Monotriade», per quanto sia di certo la più grossa, la più potente, la più subdola e misconosciuta astuzia di satana per vincere Dio, sarà temporanea, di certo vinta prima della fine della Storia dal ripristino fulgente e splendido della corretta disposizione delle essenze: il Logos è e resta la seconda Persona della Trinità, l’Amore è e resta la Terza. È l’ordine che avrà l’ultima parola nel mondo, non il disordine. La verità, non la falsità. Se fosse la falsità, come lo si capirebbe?

D. - Papa Francesco, sicuramente, è un grande comunicatore e un trascinatore di folle. Durante le udienze, gli Angelus, etc…, i “fedeli” gridano “Francesco! Francesco!”: non riescono a gridare “Gesù!”. Siamo, secondo lei, ormai al culto della personalità di papa Francesco? Forse, involontariamente, essi vedono nell’attuale vescovo di Roma non il Vicario, ma addirittura il “successore” di Cristo?

R. - Credere ancora impossibile, dopo i Papi del secolo di ferro, o Papa Onorio, o Papa Alessandro VI, tanto per dire i più distruttivi che la conformazione storica della Chiesa da se stessa si sia data, che la Divina Provvidenza permetta che sieda sul Trono più alto non solo un peccatore – tutti gli uomini sono per definizione peccatori –, ma anche un vero e proprio nemico della Chiesa, come non solo è ipotizzabile in linea teorica e plausibilissimo, ma è anche configurato con precisione da quel 2 Ts 2,6-7 che pongo a incipit di ognuna delle cinque parti in cui divido il mio libro, è cosa di un’ingenuità che, come mi faceva rilevare un mio amico carissimo, strenuo difensore della fede, a tratti diventa colpevole. Quanti sono stati i Papi simoniaci? e i lussuriosi? e i vanagloriosi? e tutti questi non erano forse nemici della Chiesa? Certo: lo erano in senso improprio, ma ciò rendeva comunque possibile che poi si potesse realizzare anche il senso proprio. Come rilevo a p. 247 del mio lavoro, Papa Francesco liscia il pelo del gregge sempre dal verso giusto, e non si sa chi è più narcisista: se le folle acclamanti o il Pastore acclamato. «Dalla vanagloria – ricorda san Gregorio Magno, v. p. 256 – nascono le stravaganze dei novatori», e noi, negli ultimi cinquant’anni, di questi novatori, di questi Papi novatori, ne abbiamo visti passare ben cinque, uno dopo l’altro, ciascuno con il suo lascito di “stravaganze”, cioè di errori, di ricercate “dimenticanze”, di vere e proprie scorrettezze dottrinali anche al limite dell’eresia (v. Iota unum, passim), tutte però – e qui si annida l’astuzia che però noi potremo a nostra volta mettere nel sacco con la terza, ma unica vera, ermeneutica del Concilio et postea – elargite a un grado di magistero non duramente e inequivocabilmente impegnativo per i Pastori come sarebbe il grado dogmatico. Bergoglio, come dimostro riga per riga nel mio libro, è la polarizzazione vivente di tutto questo.

D. - Papa Francesco, nell’E.G., parla di «conversione del papato». Effettivamente, da quando Paolo VI depose la propria tiara, non è stato forse creato il “pontificato ad personam”? Il simbolo delle tre autorità del romano pontefice è stato sostituito, a suo avviso, con la personalità del papa regnante?

R. - In La Chiesa ribaltata mi soffermo a lungo (pp. 60-7) sul significato da dare al particolarissimo plurale maiestatico papale: il suo abbandono va inquadrato nella generale intenzione sopra vista di de-dogmatizzazione. Si può notare, in generale, un certo larvato sempre maggiore distacco, nella “narrazione religiosa” del colloquio con i fedeli da parte di Papa Bergoglio, dalla figura di Cristo, ma è ancora presto per arrivare a delle conclusioni.

D. - Qualcuno ha definito papa Francesco “il primo vero ‘papa conciliare’”. Lei condivide questa definizione?

R. - In realtà, è il suo sogno. Ma cosa vuol dire “Papa conciliare”? Nell’accezione che possiamo cogliere da Papa Bergoglio, ciò vuol dire due cose:primo, ‘Papa la cui autorità vale in ordine all’autorità del concilio (Vaticano II)’, o ‘conferitagli dal concilio (Vaticano II)’, il che, se fosse professato apertis verbis, sarebbe un’eresia, ovvero l’eretica concretizzazione dei dettami del conciliabolo di Pisa e del concilio di Costanza prima dell’intervento correttivo di Papa Gregorio XII; secondo, ‘Papa che attua pienamente il concilio Vaticano II’, come ho già accennato, e anche questa è un’accezione ereticale, tanto quanto sono ereticali i dettami di quel concilio (v. libertà religiosa, collegialità episcopale, antropologia antropocentrica, sacramentalità delle altre fedi, condivisione del medesimo ente divino con ebraismo e islamismo eccetera), e in se stessa, specialmente, lo è la forma stessa data a quell’adunanza che, come ricordo nei miei Il domani del dogma e La Chiesa ribaltata, non corrispose alla misura con cui avrebbe dovuto corrispondere alle esigenze presenti nella Chiesa al momento in cui fu indetto – le fu impressa una forma mere pastorale e dunque non risolutiva invece che la forma rigorosamente dogmatica e giudiziale dovuta –.

D. - Un pontificato, quello di Francesco, fatto di gesti, parole, silenzi, etc…, ma senza un vero e proprio magistero. La Chiesa non ha più nulla da insegnare ai suoi figli e al mondo intero?

R. - Attenzione: la de-dogmatizzazione di cui stiamo parlando – e che Papa Francesco si è prefisso di portare a termine compiutamente allorché dice di voler “compiere il Vaticano II” – consiste proprio in questo: non insegnare, di fatto, più nulla. Ossia non insegnare più nulla che non piaccia al mondo. La Chiesa, come denuncio a p. 186 del libro, fino al Vaticano II Mater et Magistra del mondo, ora non solo non è più né Mater né Magistra, privando il mondo di quell’amore materno e di quella verità suprema di cui è l’unica portatrice, ma, del mondo una volta suo discepolo, essa si è fatta ligia e acquiescente discepola. E figlia: sempre attenta a non urtare l’esasperata sensibilità del nuovo suo “maestro”. E, tutto ciò (v. san Gregorio Magno), per pura vanagloria (cioè per superbia).

Il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia

D. - Formalmente e ufficialmente – molti sostengono – il “depositum fidei” non sarà cambiato, ma sarà svuotato di significato per mezzo della “nuova pastorale”, basata sulla casistica personale, sociale e culturale. La Chiesa ha smesso di evangelizzare, ma si è impegnata nel campo della sociologia?

R. - La mia tesi fondamentale, fortemente esposta in tutti i miei lavori, specie nei due ultimi, è che nella “pastoralizzazione” totale e universale dell’insegnamento della Chiesa i Pastori “vaticansecondisti”, ossia seguaci della dottrina, della forma e del linguaggio de-dogmatizzanti dello spurio e meramente pastorale concilio Vaticano II, svuotato il depositum fidei senza però intaccarne formalmente l’integrità, non hanno nulla da temere sul lato dogmatico, ossia non possono venire in alcun modo accusati di cambiare la dottrina, perché in effetti, formalmente,dogmaticamente, non la stanno affatto cambiando. Ciò che io denuncio nei miei libri (pp. 192-5 de Il domani del dogma e pp. 70-1 de La Chiesa ribaltata) è proprio questo: che de voce essi sostengono (v. le celebri distinzioni ermeneutiche di Benedetto XVI nel Discorso alla Curia Romana del Natale 2005) di tenere una continuità con il magistero della Tradizione che de facto smentiscono nella più spregiudicata rottura. Questa terza ermeneutica, né “continuista” come la scuola ratzingeriana, né “di rottura” come la bolognese e la sedevacantista, ma “falso-continuista”, cioè sostanzialmente equivoca, non è considerata da nessuno, né tra i “vaticansecondisti”, come si può capire, né, stranamente, tra i tradizionisti, ma è l’unica vera: essa è la strada, semplice semplice, aperta dai novatori per potersi spostare impunemente dalla dottrina veridica alle falsificazioni correnti, approfittando dell’anello debole del magistero, il pastorale, che è chiamato a essere coerente con i suoi due gradi dogmatici solo “moralmente”, e, come si sa, il vincolo morale è un vincolo forte solo se è forte l’imperativo di chi lo deve osservare. I nemici della Chiesa (oggi infiltrati a tutti i livelli) stanno lavorando perché i loro molto distruttivi insegnamenti dilaghino nella Chiesa senza alcun controllo approfittando precisamente di questa molto alta e sottilissima discrezionalità.

D. - Mettendo in “congelatore” il dogma, dando la supremazia alla prassi, non si rischia di costruire la casa non sulla roccia, ma sulla sabbia?

R. - A p. 191 di La Chiesa ribaltata rilevo che continuando sulla strada falsissima intrapresa la sabbia con cui si sta costruendo la Chiesa oggi diverrà presto fango, e a p. 271 faccio notare che nel frattempo però si fa credere che la sabbia è basalto, l’argilla ferro, l’acqua roccia. E questo, di nascondere la finzione, è cosa ancora più grave della finzione in sé.

La «dislocazione della divina Monotriade»

D. - Santa Ildegarda da Bingen, Dottore della Chiesa, nel 1200 profetizzò che l’Anticristo avrebbe convinto tutti che ciò che conta è “volersi bene”, tutto il resto, cioè la Verità, è superfluo. Infatti, viviamo in un mondo in cui si può “peccare per amore”. L’Agape, come ha rilevato per primo Romano Amerio, ha preso il posto del Logos nella Chiesa, distorcendo la SS. Trinità stessa. Può parlarci della «dislocazione della divina Monotriade» denunciata magistralmente da R.A.?

R. - Per decenni lo Iota unum di Romano Amerio fu l’unico libro – e sottolineo l’unico – che i tradizionisti di tutto il mondo lessero e alzarono a bandiera della loro giusta resistenza al falsificante magistero della Chiesa “vaticansecondista”. Mi chiederò però per tutta la vita come mai nessuno di essi – e sottolineo nessuno –, né nessuno degli stessi “vaticansecondisti”, ritenne doveroso e necessario rilevare almeno il principale dei due fari che il grande Luganese fece risplendere nel suo capolavoro, parlo appunto della «dislocazione della divina Monotriade» che abbiamo visto giusto all’inizio. Il mio Maestro, a dir la verità, come rilevo nella mia monografia su di lui, Romano Amerio. Della Verità e dell’Amore (Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005), ebbe forse il torto di non elaborare, su tale basilare concetto, un intero libro, ma le gravi parole con cui apre l’orizzonte del suo pensiero al decisivo argomento non lasciano dubbi sulla superficialità dei suoi lettori e di chi ancora oggi – forse non maliziosamente, ma il risultato è lo stesso – non ne vuole parlare: «Alla base del presente smarrimento vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo…» (R. AMERIO, Iota unum, p. 314, ed. Lindau). Parole gravi, potenti, che fanno sentire in tutta la vastità della loro deflagrazione nella mente quanto fossero annientanti sull’uomo gli effetti ultimi del relativismo, ossia quanto andasse alla radice antropologica della nostra stessa civiltà un semplice spostamento di due essenze, non mai da nessuno più di tanto considerato, né prima né dopo: il logos e l’amore. Spostamento realizzato nei secoli già da personalità storicamente e culturalmente di prima grandezza come Maometto e Cartesio, dunque nient’affatto secondario (v. il mio Theomachia ultima. Metafisica delle tre “grandi religioni monoteiste”: Cristianesimo, Ebraismo e Islam, p. 39 sgg.) Eppure è proprio così: forse non ne ho mai più parlato così bene come in quella monografia (pp. 72-6), ma non c’è un mio lavoro in cui non ne faccia cenno, e se ha un senso questo saggio de La Chiesa ribaltata, esso è proprio in riferimento alla dislocazione delle essenze trinitarie, che percorre tutto il libro. Perché il mondo non ne parla? perché la Chiesa “vaticansecondista”, che è ancora da più del mondo, non ne parla? perché i tradizionisti, che sono da più del mondo e della Chiesa “vaticansecondista”, non ne parlano? Eppure la radice di quello che il filosofo italo-svizzero chiamò garbatamente «smarrimento», e che oggi si può e anzi si deve diagnosticare senza pudore come ‘maligno tumore in metastasi al quarto grado’ di Chiesa, di civiltà e di mondo, è ancora solo qui: nell’intronizzazione delle due ancelle Caritas Libertas sul seggio altissimo della maestà di Veritas, loro e nostra Regina, così nascondendoci l’unica via per la nostra salvezza. Se la Verità non può librarsi assoluta nel cielo terso dato unicamente dalla sua propria realtà, ma, spostata dopo l’amore, viene posta come “relativa a”, “dipendente da” questo amore che così la condiziona, essa perde la qualità sua più intima, che è quella di essere un assoluto in se stessa e basta. Tutto il magistero di Papa Bergoglio è sotto l’impronta tumorale di questa drammatica e ultimativa dislocazione. Ma, come ho già detto e ricordo anche nel libro (p. es. alle pp. 298 e 299), il mondo non finirà se non quando il tumore sarà debellato, perché la Verità si può riconoscere, la falsità no, e non si possono chiudere le pagine della vita del mondo senza sapere chi ha vinto: questa certezza la dà solo la Verità.

Le aspettative sui prossimi sinodi dei vescovi

D. - Prof. Radaelli, l’opinione pubblica mondiale ha grandi attese sui prossimi sinodi sulla famiglia. Quali dovrebbero essere le attese dei cattolici?

R. - Nei primi secoli cristiani, le due “visioni del mondo” che si confrontavano, la pagana e la cattolica, erano consapevolmente antitetiche. L’“opinione pubblica” dell’Impero Romano, se vogliamo dir così l’ipotetico pensiero che percorreva la Gens Romana dell’epoca nei confronti della nuova religione che andava affermandosi pur tra le dure persecuzioni, sapeva che non erano molti gli apprezzamenti che poteva attendersi dalla Gens Christiana che andava insegnando per tutto l’Impero ideali da realizzare mai sentiti fino ad allora, p. es. l’indissolubilità del matrimonio. Oggi l’Impero Liberale – come chiamo il mondo d’oggi in La Chiesa ribaltata – sa che la sua controparte spirituale è caduta nella trappola che con ogni cura le aveva preparato, e che, come era da prevedere, almeno per ora al tutto carnale liberalismo (tutto carnale malgrado si ammanti doviziosamente e in ogni momento di valori carpiti alla Chiesa quali pace, dignità della persona, libertà, eccetera, ma rivoltati come un guanto e svuotati di senso nel Liberalismo truffatore) essa non sa trovare forti argomenti spirituali da opporre: i cattolici – intesi nella loro accezione di ‘masse di fedeli’ – hanno le stesse attese del mondo, dell’Impero, cioè del nemico, perché hanno perso la loro identità spirituale e si sono conformati al liberalismo mondano. Provvidenzialmente, sono però molto presenti Pastori come il cardinale Müller, il cardinale Burke, o come i teologi americani – sette dell’Ordine Domenicano – di Nova et Vetera, tanto per dare qualche nome di chi sa opporsi con fermezza, rigore e coraggio alle aspettative fuorvianti, suicide e – diciamolo pure – peccaminose della maggioranza. Essa si nasconde la realtà: il divorzio ha ucciso il matrimonio, ma, come faccio ben notare nel mio lavoro (p. 288), con tale fellonesca strage i Liberali stanno uccidendo, anzi stanno “suicidando”, la civiltà: i figli, bene primario in assoluto perché sono il futuro di ogni cosa: spirito, filosofia, cultura, arte, economia o altro che sia, hanno bisogno di stabilità, e l’unica condizione di stabilità al loro sviluppo è la fedeltà e solidarietà assolute dei due fiori che, incontrandosi, li hanno fruttificati. L’indissolubilità del matrimonio è la sola garanzia all’indissolubilità della società. La sua dissolubilità è mediatamente e immediatamente la dissolubilità della società, e con essa dei divini valori che porta: verità, virtù, bellezza, unità, e con essi quello che Amerio chiama «cristianesimo secondario»: il benessere materiale e sociale in ogni suo risvolto più umano. Il 29 maggio la Camera dei deputati ha approvato la legge sul cosiddetto “divorzio breve”. Lascia attoniti la percentuale dei sì: 92%. Il 92% dei rappresentanti degli italiani non ritiene valore necessario e primario riconoscere al matrimonio durata perpetua, ossia la necessaria stabilità della prole nell’essere, roccia inalienabile, imprescindibile, di costituzione divina, per contrastare le perturbazioni non sempre positive del divenire, della società, del mondo (e di satana).

D. - Vorremo chiederLe un commento sull'Instrumentum Laboris, presentato recentemente in Vaticano dal cardinal Baldisseri e dal vescovo Bruno Forte: si tratta, come qualcuno ha detto, di “sociologa spicciola”, oppure è, come qualcun altro ha scritto, un ottimo documento pastorale?

R. - Né l’uno né l’altro. L'Instrumentum Laboris è il tipico documento di una Chiesa che, davanti agli enormi problemi di cui il mondo la circonda per soffocarla, risponde con una inadeguatezza che diremmo patetica se non fosse quella della nostra Madre. Sono cinquant’anni che la Chiesa, di fronte ai problemi, si è inventata il concetto di “sfida” con cui ha riempito anche il presente documento, e sono cinquant’anni che regolarmente perde tutte quelle sfide che proclama a destra e a manca: non ne vince una. Come mai il mondo non proclama mai alla Chiesa una sfida che sia una? Non c’è un’entità del mondo che abbia proclamato o proclami “sfida” il divorzio, l’aborto, le unioni civili e di fatto, la libera sodomia, il gender, la comunione ai divorziati risposati, ma le vince tutte. Se la Chiesa smettesse di battere su terminologie così vetuste e paranoiche, che pongono i problemi come fossero ogni volta montagne gigantesche ed erte, avrebbe forse qualche possibilità di tornare a riconoscere – come prima del Vaticano II – la realtà. E la realtà è che essa ha con sé gli strumenti spirituali e gli argomenti logici della verità più che adeguati per affrontare il mondo e anche vincerlo. Il dogma e le virtù schierate dalla caritas sono qualità forti, di cui il mondo è privo. La Chiesa riprenda a usarli, invece di porsi nell’ambiguità di un linguaggio inclusivo e tutto teso alla “amorevole comprensione” come quello usato nell'Instrumentum Laboris. Questo suo linguaggio le fa perdere di vista la forza dogmatica della verità e la spiritualità potentissima delle virtù soprannaturali, p. es. della castità.

D. - Se, disgraziatamente, si decidesse di riconoscere, più o meno in modo informale, lasciando l’apparenza di non aver cambiato dottrina, queste “famiglie irregolari”, come dovranno comportarsi i cattolici fedeli all'immutabile comando evangelico «Non osi separare l'uomo ciò che Dio ha unito»?

R. - Questo riconoscimento, che certo avrà le più forti e impensabili spinte, a livello dogmatico non avverrà. La Chiesa potrà essere dilaniata dall’alto in basso, ma il comando evangelico, a livello dogmatico, non sarà calpestato. Ma è possibile che lo venga a livello pastorale, in quella falsa pastoralità in uso oggi. Già oggi quei teologi americani che si diceva rilevano l’importanza della virtù di castità come mezzo inatteso ma fecondo per far giungere l’uomo a traguardi cui egli con i soli propri mezzi non potrebbe giungere, ma cui la Chiesa cattolica, l’unica Chiesa al mondo che sia viatrice di grazie, può far giungere, proprio a dimostrazione della bontà del proprio erto cammino per liberarsi dalle trappole del Liberalismo da cui siamo partiti. Ricordiamoci di ciò che scrive Amerio sulla legge della conformazione storica della Chiesa: «La Chiesa non va perduta nel caso che non ‘pareggiasse la verità’, ma nel caso che ‘perdesse la verità’» (Iota unum, p. 28, ed. Lindau). È possibile, p. es., che nel caso dei divorziati risposati il Papa giunga anche a enunciare dottrine permissive in nulla conformi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione (come già avvenuto in questi cinquant’anni, p. es., per dirne una, sulla libertà religiosa, v. La Chiesa ribaltata, pp. 73-4). Ma le sue enunciazioni saranno a livello pratico, (pseudo)pastorale, e non teoretico, cioè non dogmatico, sicché la verità e la Chiesa non saranno «perdute», ma soltanto «spareggiate». La cosa resta di una gravità massima, ovviamente, come si legge anche nel mio libro. In realtà, lì scrivo e concludo (pp. 300-3) che tutta la Chiesa dovrebbe spingere il Papa a fare un’ordalia: sì, un vero e proprio giudizio di Dio. E ciò perché dopo cinquant’anni la Chiesa è arrivata a un punto di avvitamento finale e ultimo, in un magistero de-dogmatizzato che la rende sempre più irriconoscibile. È una situazione insostenibile: non può durare più a lungo. Si provi dunque il Papa, se ci riesce, con i verbi “forti” giuridici e con il plurale maiestatico pontificale necessari in tali casi (“Noi stabiliamo, decretiamo e dichiariamo”, “Nos statuimus, sancimus et declaramus”), a dogmatizzare una qualsiasi delle inaccettabili e fellonesche novità di cui vuol riempire la Chiesa: essendo il dogma infallibile, portando sopra il fuoco del dogma i suoi sogni, la Chiesa sarà infallibilmente garantita della perfetta e adamantina bontà delle decisioni così enunciate. Ma se il Papa non riuscirà a enunciarle, tali sognanti novità – e non vi riuscirà punto –, vuol dire che esse, come si sa, erano false, e l’infallibile verità del dogma, anche in moribus, le ha smascherate.

La drammatica rinuncia di Benedetto XVI

D. - Infine, nel ringraziarLa per la sua cortese disponibilità, Le chiediamo la sua opinione riguardo alla rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI.

R. - Anche quello è stato un atto che non si capirebbe se non venisse inserito nella generale e deplorevole de-dogmatizzazione data dalla «dislocazione della divina monotriade». Canonicamente corretto, muove però a tutte le perplessità se si prova a giustificarlo, perché sottrarsi alle difficoltà non sembra propriamente ciò che può permettersi il Vicario di Cristo. Esso è l’ultimo degli atti con cui oggi la papalità è stata declassata, snervata della sua pienezza soprannaturale, della sua potenza di autorità somma e di autorità somma in quanto ricettiva di un mandato divino. «Pasci i miei agnelli». «Rinuncio». La rinuncia è un atto umano che l’uomo compie proprio in quanto si è del tutto liberato dell’aiuto di Dio. È un atto senza alcuna vicarietà. E non solo manca il logos, in esso, perché non c’è nessun insegnamento, nessuna ragione e nessuna giustificazione, tutte proprietà del logos, ma manca anche l’amore nel senso suo proprio: la caritas di dedizione, quello che viene chiamato “amore altruistico”. Tale perdita è una tipica conseguenza della «dislocazione», perché quando il pensiero che pensa l’ente viene spostato oltre l’ente, e l’ente non è più pensato, ma vale per ciò che è, quell’ente perde le connotazioni e le determinazioni che riceveva dal pensiero che lo pensava, perde la sua identità. L’amore, non più pensato dal Logos divino, diviene un’accozzaglia confusa: ora questo, ora quello, ma mai il giusto. O davvero si pensa che Benedetto XVI abbia rinunciato al proprio ufficio per non mettere in difficoltà la Chiesa con il sopravanzare della sua vecchiaia? avremo dunque altri Papi cosiddetti “emeriti”? Il suo successore non lo esclude. Ma ciò significa solo che se un evento eccezionale diviene la regola, toglie alla regola precedente la forza che la sosteneva, e l’ufficio del papato diviene un ufficio come un altro. Questa poi è una rinuncia a metà, e lo stesso rinunciante affermò (all’Udienza generale di fine del Pontificato, 27-2-13) che il suo sarebbe stato, da quel momento in poi, un munus papale “passivo”, cioè un potere papale, in contrapposizione a quello attivo che avrebbe esercitato il suo successore. Ma non si può dare unmunus “passivo”: un esercizio di potere o si fa o non si fa, ma quando non si fa si è fermi, e anche la sua potenza, che lo rende appunto potenzialmente in essere, dev’essere azzerata: in caso contrario non c’è rinuncia, ma sospensione della cosa. Che l’atto sia alquanto confuso lo si riscontra anche dalla veste, che è rimasta fondamentalmente quella papale, confondendo la gente, che in effetti parla di “due Papi”: Celestino V rinunciò anche alla veste, e riprese quello dell’eremo. Benedetto XVI avrebbe dovuto riprendere la sua veste da cardinale. Sempre ammesso che la sua rinuncia, oltre che canonicamente ineccepibile, fosse anche moralmente giustificabile. Lo era? Ho le mie riserve: «Pasci i miei agnelli». «No. Rinuncio».

Vi ringrazio qui di questa intervista e delle molto interessanti domande che mi avete proposto, perché ciò mi ha permesso di mettere ulteriormente a fuoco concetti che ritengo possano avere una qualche importanza, nel loro che, per la nostra amata Chiesa, per la nostra tribolata civiltà, per il mondo stesso, forse, mai però da me sviluppati prima nelle direzioni qui prese.

AUREA DOMUS - Il sito ufficiale di Enrico Maria Radaelli

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