sabato 5 novembre 2011

Tonino Bello, la mariologia feriale e l’ermeneutica della discontinuità

di padre Alessandro Maria Apollonio, F.I.

In Civiltà Cattolica del 3 ott. 2009, pp. 91-92, si recensiscono ben 4 volumi che presentano la figura di mons. Tonino Bello (1935-1993), Vescovo di Molfetta: due di questi libri parlano di lui, e negli altri due è lui che parla, essendone l’autore. Nella benevola seppur rapida recensione, s’accenna alla sua Mariologia e al fatto che nel 2007 è stato avviato il suo processo di beatificazione. Ora, senza voler entrare in merito alla sua personale santità, vorrei mettere in luce il carattere fuorviante, certamente non esemplare, della sua Mariologia.
La cosa appare contraddittoria: è mai possibile che un Vescovo possa essere ad un tempo santo e non perfettamente ortodosso? Rispondo: ciò sarebbe eccezionalmente possibile solo laddove l’eterodossia s’annidi in una coscienza oscurata da ignoranza soggettivamente invincibile. E questo non è contraddittorio, benché sembri impossibile.
A ben guardare, però, non è nemmeno assolutamente impossibile: nulla è impossibile a Dio, nel bene e, nel male morale, nulla è impossibile all’insipienza umana. E di questa insipienza, nel periodo post conciliare ce n’è stata talmente tanta, da rimanere facilmente coinvolti in una sorta di tragico errore comune, definito da Benedetto XVI “ermeneutica della discontinuità”.

Di questa ermeneutica sbagliata sarebbe rimasto vittima inconsapevole, lo supponiamo, mons. Bello, la cui Mariologia potrebbe tutta riassumersi in questo principio di rottura: prima del concilio la Madonna era vista vicina a Cristo, nella luce della santità divina, ora invece la guardiamo alla luce di questo mondo segnato dal peccato.
Diamo un’occhiata solo ad alcune sue idee mariologiche. Da Maria donna dei nostri giorni” (supplemento di Jesus, ed. San Paolo, maggio 1993), leggiamo le seguenti affermazioni, che mons. Bello era solito ripetere ai giovani, con il suo pathos travolgente:
«Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell’esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell’universo. Ha sperimentato pure lei la gioia degli incontri, l’attesa delle feste, gli slanci dell’amicizia, l’ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo» (p. 21).
«Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: “Maria, ti amo”. E lei rispose veloce come un brivido: “Anch’io”… Le compagne… non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura… Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d’amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato con le cadenze del Cantico dei Cantici…» (p. 22).
«Santa Maria, donna innamorata.., facci capire che l’amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall’unico incendio di Dio» (p. 23).

L’errore di fondo è quello della svolta antropologica in Mariologia, che per mons. Bello significa pensare all’adolescenza di Maria secondo il cliché dell’innamoramento giovanile, così come avviene di fatto nella maggior parte dei ragazzi, senza la minima considerazione del deleterio apporto derivante dalla concupiscenza, che tutto intorbidisce in noi, ma che era del tutto assente in Lei.
Quali dubbi di fede poteva mai avere «Colei che non dubitò, ma credette» (sant’Ambrogio, Comm. a Lc, 1; cf. san Pio X, Ad diem illum)?
Quali trasalimenti, quale ebbrezza della danza, quali lusinghe, quali passioni poteva avere la Tuttasanta (Padri), “l’umile serva del Signore” (cf. Lc 1), che «non conosceva uomo» (cf. Lc 1), perché non voleva conoscerlo, per il suo voto di perpetua verginità ispiratole da Dio sin dalla giovinezza (Duns Scoto, San Tommaso, Giovanni Paolo II)? Quale esperienza poteva avere l’Immacolata di tutte queste cose macchiate dalla concupiscenza, in noi, e che non potevano trovarsi in Lei, immune da ogni disordine derivante dal peccato originale? Sembra che mons. Bello non distingua abbastanza – contro tutta la tradizione patristica e contro il costante magistero della Chiesa – l’amore verginale e santo dell’Immacolata verso san Giuseppe, dall’amore concupiscente delle creature macchiate dalle conseguenze del peccato originale. Dire, poi, soprattutto in questo contesto d’innamoramenti giovanili, che «l’amore è sempre santo», suona proprio un’eresia, perché anche l’impurità è un amore, «l’amor di sé fino al disprezzo di Dio» (sant’Agostino).
Proporre ai giovani una spiritualità del genere, significa divinizzare i loro turbamenti giovanili e spianare la strada per lo sfrenamento della loro lussuria, che è anche un genere di amore. L’Autore usa costantemente un linguaggio ambiguo. Parla di esperienze affettive e sentimentali, che normalmente nei giovani sono – a dir poco – il preludio della passione, impura, attribuendole alla Madonna che è la purissima sempre vergine. E la mistica della sensualità giovanile, di cui la Madonna viene ad essere, più che il modello, la “modella”. Roba da telenovela, una profanazione!

Continua ancora su questa falsa riga il Vescovo di Molfetta:
«Maria, comunque, doveva essere bellissima. Non parlo solo della sua anima… Parlo, anche, del suo corpo di donna» (p. 108). «Vogliamo immaginarla adolescente, mentre nei meriggi d’estate risale dalla spiaggia, in bermuda, bruna di sole e di bellezza» (p. 116).
Proporre la Madonna in questi termini, sopratutto ai giovani, significa ignorare che sono già sazi e nauseati di estetica, di corpi, di “bermuda”, di spiagge, di abbronzature… Hanno sete di Dio, non di queste cose, che gli escono ormai dagli occhi e dagli orecchi. Il mondo li bombarda continuamente con questa “spazzatura” (san Paolo). Non occorre che ci si metta pure un Vescovo. Proporre la Madonna in questi termini sembra l’istigazione ad un’immaginazione pervertita, che tutto comprende sub specie libidinis, anche ciò che di più puro e più santo vi è in assoluto. Chi mai si consacrerebbe a Dio, nella totale verginità di corpo e spirito, se anche Maria, il paradigma della santità, si trascinasse verso le vanità di questo mondo?

Bisognerebbe dire ancora molte cose, ma non è questo il luogo né il momento adatto. Bastino queste “chicche” per comprendere la gravità della situazione. Se la dottrina di un Vescovo dovrebbe esser per sé ineccepibile, essendo “maestro della fede”, la dottrina di un Vescovo canonizzato dovrebbe esserlo doppiamente, visto che la Chiesa lo addita universalmente come modello esemplare da seguire. Proprio quest’ortodossia esemplare manca, a nostro avviso, al Nostro. Da qui la domanda: ammesso che don Tonino (così si faceva chiamare anche da Vescovo) sia davvero già nella gloria dei Santi in Paradiso, a che giova inserirlo anche nella gloria del Bernini sulla terra?

Testo tratto da: Immaculata Mediatrix, IX (3 – 2009), pp. 296-298.

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