domenica 28 agosto 2011

Un Tabernacolo senza Regno


di Riccardo Rodelli

La prima cosa che ricordo quando mio padre mi portò in Chiesa da piccolo è stata: lì, nel Tabernacolo, c’è Gesù! Ecco, a quella spiegazione seguirono gli ingenui pensieri di un bambino che si chiedeva come nostro Signore potesse essere rinchiuso in quella porticina, al centro non solo della Chiesa, ma al centro di un Tabernacolo contornato da ricami. La mia fede incominciava a muovere i primi passi, partendo da quel dubbio e si dovette confrontare con le leggi della fisica che mi imponevano di non poter accettare una simile realtà. Ma da piccino, si sa, la fisica è una verità molto poco rigida e la fede è assai piena di vie d’uscita. Perciò per me era più semplice concepire Dio lì dentro piuttosto che pensare che quello detto da mio padre non fosse vero. In sostanza partii dal Tabernacolo per poi costruirci intorno la Chiesa. Ora che son passati un po’ di anni, ora che le leggi della fisica non sono poi così prive di senso, ma sicuramente non superiori alle capacità di Dio di stare in quel misero spazio, comprendo quanto sia vero che la Chiesa si costruisce intorno al Tabernacolo, intorno a Gesù e non viceversa. Una volta assodata la centralità di Cristo, dovetti spiegarmi perché quel Sepolcro fosse al centro di un altare pieno di Santi e angioletti. In realtà questa domanda non mi venne in mente finché non incominciai a vedere altari distanti dal Tabernacolo e Tabernacoli soli, più che soli… isolati.  
Un ragazzo una volta mi chiese: “ma perché esiste la Santissima Trinità?” Gli risposi: “Pensa di essere chiuso in una casa, da solo, senza possibilità di comunicare con nessuno, potresti Amare?” Lui mi rispose: “No!” “Ecco - aggiunsi - Dio Padre per amare ha bisogno di altre persone, Figlio e Spirito Santo. Dio che è la perfezione, non ama la solitudine, l’Altissimo che è sufficiente all’Universo, non basta a Se Stesso”. 
Da qui capii che i Tabernacoli pieni di Santi e di Angeli volevano essere proprio questo, la compagnia necessaria per non far rimanere Gesù solo in quel Tabernacolo. Gesù in Corpo, Anima e Divinità, presente nella Pisside non può scendere dal cielo per rimanere chiuso in un semplice monolocale. Quell’altare in una semplice Chiesa diventa un piccolo paradiso visibile a tutti… non potendo pensare che Dio lasci il Suo trono per noi, sia esso Croce o Cielo, preferisco credere che porti noi lassù… e lo fa lasciandoci con i piedi per terra. Quello che oggi mi capita di vedere è la tristezza di Cristo nell’essere non solo allontanato dalla centralità di un altare ma privato anche della Sua schiera di angeli e santi. Una stanzetta, sospesa in aria, senza capo né coda, volteggia per le stanze di una Chiesa, che si ritrova senza padrone di casa. 
Ricordare, che vuol dire? Mettere nel cuore. Quello che dice il buon ladrone a Gesù sulla Croce: “Ricordati di me quando sarai nel Tuo regno”; ecco, il Cuore di Gesù è il Regno, è il Paradiso; per questo motivo è inimmaginabile pensare Gesù staccato dal Suo, dal nostro Paradiso. Più volte mi è capitato di pensare la mia vita come quella di una qualunque persona che entra in Chiesa. L’entrare nella casa di Dio è ricevere il Battesimo, è il biglietto che ti permette l’accesso… poi gli anni passano e i passi lungo la navata centrale sono segnati ai lati dalla presenza dei Santi. I santi sono coloro i quali ci affiancano, ci spingono, ci indirizzano verso la meta, l’altare, il Tabernacolo, il Paradiso, Dio. 
Difatti, a San Matteo, mia parrocchia a Lecce, San Pietro si trova come ultima statua prima di accedere all’altare, un po’ come ci viene descritto, in piedi, fiero davanti alle porte della Patria celeste. Leggere i simboli, ritrovare somiglianze e similitudini con quelle che saranno le immagini che si abbasseranno davanti ai nostri occhi, superata questa vita, ci permette di vedere la nostra esistenza, come non slegata dalla vita che Gesù ci ha promesso. Ma se immaginiamo Cristo solo, senza la schiera di Serafini e Cherubini, senza quei Santi che ha tanto amato, tanto da donare la propria vita per la loro santificazione, che avrà di così bello questo Paradiso? Mi piace pensare che in quel luogo, senza spazio e senza tempo, un giorno possa esserci anch’io e magari, chi lo sa, ispirare qualche scultore a inserirmi in un’ altare, perché anche nella pietra fredda di una Chiesa possa lodare il mio Signore.  
In occasione della revoca della scomunica dei quattro vescovi ordinati da mons. Lefevbre il 10 marzo 2009, il Santo Padre si espresse in questo modo: “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.” Quello che il Santo Padre ha fatto nel revocare la scomunica ai quattro Vescovi è stato un atto d'amore della Chiesa. La più grande forma di pastorale, che da taluni viene sbandierata (a volte insieme alla bandiera della pace) in modo confusionario e orientata verso i quattro venti, è stata rivolta dal Papa verso quella parte di Chiesa che si era appropriata di un tradizionalismo che non le era proprio, ma che appartiene, da sempre, alla Chiesa Apostolico Romana. 
Il Santo Padre, in poche righe, ha evidenziato un problema di cui, forse, l'uomo occidentale, probabilmente in buona coscienza, non riesce a rendersi conto e cioè che la Fede non è più possibile darla come un dato acquisito. La società medioevale, ispirata e intrisa di valori cristiani, non esiste più proprio perché la Fede incomincia a spegnersi, si spegne, forse, proprio perché diventa scontata, proprio perché si ritiene, una volta raggiunta, di averla immune da qualunque pericolo di perderla. Di certo, come ha detto il card. Malcolm Ranjith, in occasione della Conferenza sull'Adorazione 2011, la Fede della Chiesa non si può misurare dalla partecipazione, dalla presenza fisica dei fedeli alla Santa Messa, ma sono prova di fede le modalità con cui i fedeli si avvicinano alla Corpo di nostro Signore durante l'Eucarestia. Nell'enciclica Ecclesia de Eucaristia, il beato Giovanni Paolo II, conferma che la Messa rappresenta il momento culmine in cui la Chiesa entra in comunione non solo con la comunità di cristiani, ma con Dio, anzi direi che è proprio il contrario, entra in contatto con Dio Creatore e, quindi, con le sue creature, cioè i fedeli "partecipanti" e non alla Sacra Liturgia. La Messa non è fatta solo per chi partecipa, ma per la Chiesa, che è comunità di anime e quindi anche per quelli che non siedono sugli scanni. Mettere in contatto, legare a doppio nodo, il fedele e Dio con la Santa Liturgia, ci fa comprendere quanto quel momento non è a nostra disposizione. La centralità di Cristo nel Tabernacolo non è soggetta al nostro volere, il Suo spostamento non è altro che l'allontanamento di Cristo dallo sguardo, di un fedele che per Lui e grazie a Lui si trova ad assistere al mistero di cui la Chiesa si fa portatrice. Se per secoli le Chiese venivano costruite non per ospitare quanti più fedeli possibili, ma per glorificare Dio, l'altezza era un modo simbolico per elevarsi a lui e la centralità del Tabernacolo era il modo per mettere Cristo al centro dello sguardo, perché occhio e cuore venissero indirizzati verso lo stesso fine; altezza e profondità, mettevano l'uomo davanti alla grandezza di Dio.
Il decentramento del Santissimo è avvenuto per giustificare il fatto che, secondo la nuova forma di celebrazione, non coram Deo ma coram populo, il celebrante avrebbe dato le spalle al Santissimo, per privilegiare il vis a vis con un popolo che invocava il proprio diritto di esser guardato in faccia. E così, anteponendo al diritto di Dio di stare davanti gli occhi di ognuno, quello di un sacerdote che si mette al centro di qualcosa che non gli appartiene, il sacrificio di Cristo diviene una commemorazione in Sua memoria e non in Sua presenza, per cui diviene semplice considerare il Corpo di Gesù un simbolo. Qui la Chiesa, per chiesa torno a rifarmi al significato proprio del termine, cioè comunità di anime, perde la fede nel mistero della Transustanziazione che ha senso di esistere finché si crede che quello sia il corpo di Cristo. Intaccare il mistero e pretendere di farlo comprendere attraverso la partecipazione dialogante e non anche orante, come Sant'Agostino ci invita a fare, non fa che rendere umano ciò che è divino. Se si rende umano il divino allora, stravolgiamo quel concetto così pieno di verità, espresso da Sant'Agostino: "Signore perché ci hai fatti per te, il nostro cuore non ha pace finché non riposa in Te."
La mancanza di fede passa innanzitutto, credo, da una mancanza di Fede nelle Santissime Specie. Ecco perché il card. Malcolm Ranjith ricorda che il Concilio Vaticano II non ha mai promosso la comunione sulla mano e che per tale motivo è da considerarsi abuso, perché non permette un'adorazione necessaria per ricevere il Santissimo Sacramento. Sant'Agostino nelle Confessioni ci rende partecipi di un dubbio che non riguarda solo lui, ma che dovrebbe coinvolgere ogni uomo che umilmente cerca, desidera, vuole Cristo. Si chiede, appunto, se la lode a Dio debba avvenire prima o dopo la conoscenza che l'uomo ha di Lui: “Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del Tuo Annunziatore.” 

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