lunedì 31 gennaio 2011

Per avere pietre viventi l'estetica non basta

di Paolo Portoghesi

La chiesa di Gesù Redentore a Modena merita l'apertura di un dibattito approfondito sia per le indubbie qualità architettoniche dell'opera, sia per l'impostazione liturgica, decisamente innovativa.
Il progetto della chiesa è uno dei progetti-pilota varati dalla Conferenza episcopale italiana, nel 2000, per le nuove chiese di Modena, Foligno e Catanzaro-Squillace, vinti rispettivamente da Mauro Galantino, Massimiliano Fuksas e Alessandro Pizzolato.
Il progetto di Galantino dimostrava chiaramente la volontà di vedere la chiesa come parte di un sistema di spazi funzionali alla vita parrocchiale, rinunciando in partenza alla «riconoscibilità» della chiesa come tale. L'impostazione liturgica, elaborata insieme a monsignor Giuseppe Arosio, come liturgista, non conteneva però quegli elementi di novità che contraddistinguono invece l'opera realizzata che vede la comunità dei fedeli divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui estremi si collocano l'altare e l'ambone.
In questa collocazione innovativa, che potrebbe rievocare, prescindendo dalla bipolarità, il coro delle chiese monastiche, si realizzano una serie di aspirazioni spesso evidenziate nel dibattito degli ultimi decenni: quella di riconoscere all'ambone pari o maggiore dignità rispetto all'altare, in quanto centro della liturgia della parola, quella di circondare la zona presbiteriale, secondo le istanze del movimento tedesco di innovazione liturgica e quella di dare maggior dinamismo all'evento liturgico.
L'impressione che si prova, assistendo alla santa messa, è però profondamente deludente. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande conquista del concilio Vaticano II, l'immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda
insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l'immagine del Cristo?
Perché i luoghi della liturgia sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. La figura del Crocifisso per evitare la banalità (santa banalità viene voglia di dire!) della collocazione centrale è collocata dalla parte dell'altare e in corrispondenza della schiera di sinistra, con l'inevitabile conseguenza di non essere raggiungibile dallo sguardo di molti dei fedeli se non a rischio di torcicollo.
Benedetto XVI, in un passo del suo libro: Introduzione allo spirito della Liturgia (ora compreso nell'XI volume dell'opera omnia, appena uscito), citando Josef A. Jungmann, uno dei padri della costituzione liturgica del concilio Vaticano II, ha scritto a proposito della originaria conformazione della assemblea liturgica: «Essi non si chiudono in cerchio, non si guardano reciprocamente, ma, come popolo di Dio in cammino,sono in partenza verso l'oriente, verso il Cristo che avanza e ci viene incontro ». La forma originaria della preghiera cristiana non può dirci ancora oggi qualcosa o dobbiamo semplicemente cercare la nostra forma, la forma per il nostro tempo? Ovviamente non vi è solo il desiderio di imitare il passato. Ogni età deve ritrovare ed esprimere l'essenziale. Quel che importa è quindi continuare a scoprire quello che è essenziale attraverso i cambiamenti epocali. Sarebbe certamente errato rifiutare in blocco le nuove forme del nostro secolo. Era giusto avvicinare al popolo l'altare, spesso troppo lontano dai fedeli (...) era anche importante tornare a distinguere con chiarezza il luogo della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica vera e propria (...) resta invece essenziale il comune orientamento verso est durante la preghiera eucaristica. Qui non si tratta di qualcosa di casuale, ma dell'essenziale».
Anche nelle recenti esortazioni apostoliche postsinodali Sacramentum caritatis e Verbum Domini, Benedetto XVI ha offerto materia di riflessione e indicazioni preziose per l'architettura religiosa che mostrano l'inutilità di sperimentazioni che vadano aldilà di quanto il concilio Vaticano II consigliava affermando la piena compatibilità tra tradizione e progresso, esortando a non introdurre «innovazioni se non lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l'avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente,in qualche maniera, da quelle esistenti » (Sacrosanctum concilium, III, 23).
Nella Sacramentum caritatis si dichiara che: «Una componente importante dell'arte sacra è certamente l'architettura delle chiese nelle quali deve risultare l'unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocefisso, tabernacolo, ambone, sede». Nella Verbum Domini viene affrontato anche il problema del rapporto ambone altare: «Una attenzione speciale va data all'ambone, come luogo liturgico da cui viene proclamata la Parola di Dio. Esso deve essere collocato in un posto ben visibile, cui spontaneamente si rivolga l'attenzione dei fedeli durante la liturgia della Parola.
È bene che esso sia fisso, costituito come elemento scultoreo in armonia estetica con l'altare, così da rappresentare, anche visivamente, il senso teologico della duplice mensa della Parola e della Eucarestia».
È da augurarsi che questi puntuali interventi dalla Cattedra di San Pietro facciano capire a liturgisti e architetti che la ri-evangelizzazione passa anche attraverso la chiesa con la «c» minuscola e richiede sì lo sforzo creativo della innovazione, ma anche una attenta considerazione della tradizione che è sempre stata non pura conservazione, ma consegna di una eredità da mettere a frutto.
Che nella vita della chiesa esistano tendenze che sostengono tesi che coinvolgono la prassi liturgica è certamente un segno di vitalità, ma una chiesa parrocchiale dovrebbe essere aperta a tutti e, aldilà delle tendenze, protesa a ritrovare ed esprimere l'essenziale.
Sul piano della architettura la chiesa di Modena si mantiene fedele allo spirito del razionalismo, ma il suo linguaggio, programmaticamente indifferente rispetto al luogo, evoca invece, nella sua ostentata orizzontalità, la pianura olandese che ha visto sorgere, per opera di Mondrian e van Doesburg quel processo di astrazione e di scomposizione volumetrica che informa il movimento De stijl. Galantino in particolare evoca le raffinate composizioni volumetriche di Dudok che mediano tra astrazione e accuratezza esecutiva.
Nella armoniosa volumetria l'insieme dei volumi analizza e prospetta le funzioni degli ambienti che compongono l'organismo parrocchiale. Dove sono però i santi segni che rendono riconoscibile la chiesa? Unico segno, la presenza delle campane — che potrebbero trovarsi anche in un municipio.
Nessuna attenzione alle valenze simboliche dell'ingresso e all'interno il bel crocifisso di Bert van Zelm è posto — come abbiamo visto — in posizione defilata.
Il ruolo iconologico è affidato a due immagini che definirei consumistiche: un «orto degli olivi» sistemato dietro l'altare in un esiguo cortiletto dove i poveri alberelli soffriranno, e le «acque del Giordano» ridotte a un canaletto di acqua stagnante stretto tra due muri che termina nel battistero.
All'interno, la copertura si incurva verso il basso, proprio dove sono collocati il presbiterio e l'assemblea e la luce, perduta ogni carica simbolica, scende alle spalle dei fedeli dove il soffitto si rialza. Nonostante l'aspetto piacevole ed equilibrato, la nitidezza del disegno, lo spazio rimane quello di una bella sala di riunione in cui nulla richiamala trascendenza e il cammino del popolo peregrinante verso la salvezza.
La chiesa di Modena è la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell'architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi di un tempio di cui Cristo è la pietra angolare.

da L'Osservatore Romano del 20 gennaio 2011 

martedì 25 gennaio 2011

La liturgia quale luogo educativo e rivelativo



di Vito Abbruzzi

Una cosa che immediatamente colpisce leggendo i nuovi “Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020” (dati il 4 ottobre 2010 col titolo Educare alla vita buona del Vangelo) in materia liturgica è costatare la ripresa e il rilancio della “urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo”, affermata al n. 49 di Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia: documento col quale la CEI dettava i precedenti “Orientamenti pastorali” per il decennio 2000-2010.
Al n. 39 dell’Educare alla vita buona del Vangelo leggiamo che “la liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, ‘luogo educativo e rivelativo’ in cui la fede prende forma e viene trasmessa”; che “tra le numerose azioni svolte dalla parrocchia, nessuna è tanto vitale o formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia”.
È proprio sulla base di questi ultimi orientamenti della CEI, che la “Ecclesia Mater” può fare scuola, ribadendo la peculiarità della Liturgia come vero luogo educativo e rivelativo in cui la fede prende forma e viene trasmessa. E ciò non senza una critica doverosa e costruttiva alla luce di quanto leggiamo al n. 6 della “Lettera Apostolica Spiritus et Sponsa del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II nel XL anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia” del 4 dicembre 2003: « A distanza di quarant’anni, è opportuno verificare il cammino compiuto. Già in altre occasioni ho suggerito una sorta di esame di coscienza a proposito della ricezione del Concilio Vaticano II. Tale esame non può non riguardare anche la vita liturgico-sacramentale. “È vissuta la Liturgia come ‘fonte e culmine’ della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della Sacrosanctum Concilium?”. La riscoperta del valore della Parola di Dio, che la riforma liturgica ha operato, ha trovato un riscontro positivo all’interno delle nostre celebrazioni? Fino a che punto la Liturgia è entrata nel concreto vissuto dei fedeli e scandisce il ritmo delle singole comunità? È compresa come via di santità, forza interiore del dinamismo apostolico e della missionarietà ecclesiale? ».
Orbene, facendo riferimento anche all’editoriale di Impegno di dicembre 2010, firmato da don Peppino Cito e don Gaetano Luca (rispettivamente direttori degli uffici catechistico e liturgico della diocesi di Conversano-Monopoli) con l’azzeccato titolo “Perché non educhiamo celebrando?”, ritengo che proprio questa serie di domande rappresentino, invero, un “interrogativo di provocazione; provocazione a riflettere serenamente, ma pure molto seriamente sul perché del “rammarico” espresso dai due stimati preti quando affermano: « Peccato che non approfittiamo abbastanza del tempo celebrativo per fare educazione del popolo di Dio! ».
Un loro confratello nel sacerdozio, in tempi ancora non sospetti, così scriveva: « Oggi, anche a partire da delusioni sempre più frequenti e dichiarate circa certi esiti della riforma liturgica, qualcuno sta accorgendosi che nella foga e nell’entusiasmo della purificazione post-conciliare forse abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. La liturgia, infatti, è da sempre una sintesi non scontata di parole e di segni. Venendo noi da una cultura che privilegia la parola, nell’illuministica convinzione che essa sia il migliore (a volte sembra di capire l’unico) strumento di comunicazione, si è arrivati a pensare che l’ostacolo maggiore alla comprensione del linguaggio fosse il latino. Così, con la traduzione della liturgia in lingua volgare, si è forse stati indotti a ritenere che il problema della partecipazione attiva dei fedeli era, se non del tutto, almeno in gran parte, risolto. Ma è proprio così? Quando la liturgia era in latino, la gente vi partecipava fruttuosamente perché il muro costituito dalla incomprensibilità della lingua aveva di fatto stimolato la creazione di segni che fossero comprensibili di per sé, che trasmettessero un messaggio senza che ci fosse bisogno di passare per la mediazione della parola; segni che non avevano certo la finezza e l’articolazione delle spiegazioni verbali, ma che non erano meno importanti, in quanto erano dei metamessaggi che trasmettevano in modo globale e visibile un’idea e suggerivano la risposta emotiva corrispondente. Oggi, invece, si ha fortemente l’impressione che una delle ricadute non felici della riforma liturgica sia stata l’alluvione di parole e il prosciugamento dei segni » (D. Pezzini, Il tempo redento. Incursioni nell’anno liturgico, ed. Àncora, Milano 2002, pp. 31-32).
È in quest’ottica che possiamo, adunque, interpretare la domanda che molto pertinentemente si fanno i due summenzionati sacerdoti quando nel loro editoriale sull’“educare celebrando” scrivono: « Sarebbe poi così strano che, proprio nel decennio dedicato all’educare, pensiamo ad abilitarci, preti e fedeli laici, nell’arte del celebrare? ». No, non è strano affatto, ma dobbiamo prima di tutto e sopra a tutto educare le nostre menti e, quel che più conta, le nostre coscienze a considerare che “la liturgia fa parte della tradizione e non si comprende fuori di essa: è tra le fonti della rivelazione descritte dalla Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla divina rivelazione. Il culto divino evoca la sovranità del Signore su tutto, la sua maestà infinita, la sua grandezza, il suo mistero, il suo diritto all’adorazione” (N. Bux, Come andare a messa e non perdere la fede, ed. Piemme, Milano 2010, p. 52).
Di qui la necessità di riconsiderare e rivalutare all’interno delle nostre liturgie l’importanza del “religioso ascolto” – di cui parla proprio la Dei Verbum al n. 1 – attraverso l’osservanza del “sacro silenzio”, raccomandata nella Sacrosanctum Concilium al n. 30 e richiamata nella Spiritus et Sponsa al n. 13 quale “aspetto che occorre coltivare con maggiore attenzione all’interno delle nostre comunità”. L’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice a questo proposito precisa che “il silenzio liturgico è un silenzio sacro, sacrum silentium”; esso è “parte integrante tanto dell’ars celebrandi dei ministri, quanto della actuosa participatio dei fedeli”. Quest’ultima affermazione mette finalmente a tacere i troppi pseudo liturgisti – compresi i nostrani “animatori liturgici” – i quali, mal interpretando quell’“actuosa participatio”, hanno diseducato i fedeli a “celebrare degnamente i santi misteri” (come si dice all’inizio della Messa).
Ma cosa significa “celebrare degnamente i santi misteri”? Ce lo dicono i due benemeriti abati benedettini, portavoci e diffusori in Italia di quel felice “rinnovamento liturgico” promosso a Solesmes, agli inizi del secolo scorso, da dom Guèranger: il beato Ildefonso Schuster ed Emanuele Caronti. Il primo, parlando di “funzioni celebrate con ordine, con maestà, con devota pompa” (Bux, Come andare a messa, cit., p. 70); il secondo, mettendo in guardia dagli arbìtri nelle celebrazioni liturgiche: « L’azione liturgica sia celebrata con solennità, con ordine, e con decoro, ma si eviti nel modo più assoluto qualsiasi novità – e, io aggiungo, trasgressione –, attenendosi fedelmente ai decreti della Chiesa » (ivi, p. 46).
È quanto mai opportuno rimarcare il concetto che “senza tradizione sarebbe impossibile sia la trasgressione sia l’innovazione” (per usare un’espressione attribuita a Salvatore Natòli, un filosofo contemporaneo di ispirazione laica, citata in L. Solinas, Tutti i colori della vita, ed. SEI, Torino 2009, p. 278). Ma su questo punto avrò modo di tornare un altro momento, in maniera più approfondita.
Ciò che adesso ci preme sottolineare è che lo stesso “Benedetto XVI non è stato a guardare: bisogna ritornare alla tradizione per innovare; di qui l’esigenza di una rinnovata catechesi della celebrazione eucaristica” (Bux, Come andare a messa, cit., p. 51), grazie alla quale la Chiesa può in pienezza “proporre la genuina dottrina sulla divina rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (Dei Verbum, 1).

mercoledì 19 gennaio 2011

Preghiera per l'unità dei cristiani









Signore Gesù Cristo,
che quando stavi per soffrire, hai pregato
per i tuoi discepoli perché fino
alla fine fossero una cosa sola, come
sei Tu con il Padre, e il Padre con
Te, abbatti le barriere di separazione
che dividono tra loro i cristiani di diverse
denominazioni. Insegna a tutti
che la sede di Pietro, la Santa Chiesa
di Roma, è il fondamento, il centro e
lo strumento di questa unità. Apri i
loro cuori alla Verità, da lungo tempo
dimenticata, che il nostro Santo Padre,
il Papa, è il Tuo Vicario e Rappresentante.
E, come in cielo esiste
una sola compagnia santa, così su
questa terra vi sia una sola comunione
che professa e glorifica il Tuo Santo
Nome.

Beato John Henry Newman

lunedì 17 gennaio 2011

Perché non educhiamo celebrando?

di don Peppino Cito e don Gaetano Luca

Interrogativo di rammarico; come dire: “peccato che non approfittiamo abbastanza del tempo celebrativo per fare educazione del popolo di Dio!”.
Ma, detto così, rischia di suonare come giudizio tutto negativo sull’impegno profuso dai pastori nell’accogliere e curare tanti fedeli praticanti che continuano ad affollare in mille circostanze diverse le loro chiese: quasi che non stessero già educando, e da sempre!
Il rammarico, in verità, ci sembra giustificato almeno da una elementare lettura “incrociata” dei fatti: quanta gente frequenta ancora i nostri appuntamenti celebrativi e quanta ignoranza religiosa alberga ancora fra gli adulti e i giovani delle nostre popolazioni tanto da legittimare, anche in campo religioso, l’espressione “analfabetismo di ritorno”. Come dire che “più li teniamo in chiesa e meno escono formati!”.
Ma… perché non educhiamo celebrando?
Interrogativo di provocazione, come dire: proviamo ad abilitarci come “educatori” nei luoghi in cui i fedeli, invece di disertare, e senza essere invitati, tanto meno costretti, ma in ragione di una educazione religiosa pregressa, continuano ad affollare le nostre chiese per ragioni in parte misteriose, in parte comprensibilissime specialmente ai teologi appassionati alla Religiosità Popolare! Perché, dunque, non proviamo a sfruttare “pedagogicamente” i tantissimi appuntamenti liturgici ancora tanto accorsati? Dalle messe festive a quelle feriali, dalle novene ai tridui, dai funerali ai trigesimi e anniversari, dai matrimoni alle nozze d’oro e d’argento, dalle prime comunioni alle cresime, in ogni parrocchia passano ogni mese (anche più volte al mese) migliaia di fedeli per almeno 45 minuti! Non è neppure una grande trovata!
Già negli orientamenti dei primi anni del millennio i vescovi italiani affermavano: « La celebrazione eucaristica risulterà luogo veramente significativo nell’educazione missionaria della comunità cristiana… Di qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo » (CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49).
E i nuovi orientamenti così ribadiscono: « La liturgia è scuola permanente di formazione attorno al Signore risorto, “luogo educativo e rivelativo” in cui la fede prende forma e viene trasmessa… Tra le numerose azioni svolte dalla parrocchia, “nessuna è tanto vitale e formativa della comunità quanto la celebrazione domenicale del giorno del Signore e della sua Eucaristia” » (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 39).
E Benedetto XVI, proprio nel capitolo della Sacramentum Caritatis dedicato all’arte del celebrare precisa acutamente e “pedagogicamente”: «… l’esito maturo della mistagogia è la consapevolezza che la propria esistenza viene progressivamente trasformata dai santi Misteri celebrati. Scopo di tutta l’educazione cristiana, del resto, è di formare il fedele, come “uomo nuovo”, ad una fede adulta, che lo renda capace di testimoniare nel proprio ambiente la speranza cristiana da cui è animato » (Sacramentum Caritatis, 64).
Allora, sarebbe poi così strano che, proprio nel decennio dedicato all’educare, pensiamo ad abilitarci, preti e fedeli laici, nell’arte del celebrare? È proprio strano che questo editoriale sull’“educare celebrando” sia firmato da due direttori, quello dell’Ufficio Catechistico e quello dell’Ufficio Liturgico?
A voi lettori la risposta.

(tratto da Impegno, periodico d’informazione della diocesi Conversano-Monopoli, anno 15, n. 10, dicembre 2010, p. 1)

venerdì 14 gennaio 2011

Sante messe in EF a Monteleone

Chiesa di S. Giovanni Battista
Monteleone di Puglia (FG)


S. Messa nella forma straordinaria



giorni feriali ore 8,30
domenica e feste di precetto ore 12,00

mercoledì 12 gennaio 2011

A compimento un cammino iniziato con il Concilio Vaticano II

di Mario PONZI

La diffusione del Vangelo nel segno della continuità del magistero. Anche per rispondere alla crescente cristianofobia che si manifesta in diverse parti del mondo, persino in Paesi di antica tradizione cristiana. È questo uno dei principali obiettivi della missione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione — istituito da Benedetto XVI con il motu proprio Ubicumque et semper del 21 settembre 2010 — che proprio qualche giorno fa ha ricevuto un'iniezione di energie nuove con la nomina di numerosi membri e consultori. Della missione specifica del dicastero parla in questa intervista al nostro giornale il presidente, l'arcivescovo Rino Fisichella.

Quale messaggio ha voluto dare il Papa istituendo un dicastero per promuovere la nuova evangelizzazione?

È necessaria una premessa. La fondazione del dicastero si pone come ideale conclusione di un cammino che è iniziato con il Vaticano II. Nella mente di Giovanni XXIII doveva essere un concilio in grado di parlare di Dio al mondo contemporaneo. Nel discorso di inaugurazione non a caso Papa Roncalli ricordò che i contenuti del messaggio cristiano non cambiano mai; a cambiare semmai è il modo di trasmetterli, perché il mondo contemporaneo possa comprenderli senza fraintendimenti. È un cammino che parte dalla Dei verbum e continua poi con la Lumen gentium. La Chiesa, custode della Parola di Dio, la trasforma in luce delle genti, come ha ricordato Benedetto XVI nella messa per l'Epifania. E non dimentica di essere ad gentes, cioè in missione continua. Anche oggi essa si pone in dialogo col mondo contemporaneo. Ed è consapevole di dover trovare forme nuove per questo dialogo,in modo da essere più comprensibile all'uomo d'oggi. Dunque, quello della nuova evangelizzazione è un cammino segnato dal Vaticano II che giunge a compimento — come il Papa ha voluto farci capire — ma per ripartire verso nuovi orizzonti.

Dopo l'assise conciliare, nel 1973 Paolo VI convocò il Sinodo dei vescovi sull'evangelizzazione e nel 1974 pubblicò l'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. Si trattava già di indicazioni precise sulla rotta da seguire?

L'Evangelii nuntiandi è un documento fondamentale nella vita della Chiesa. Conserva anche ai nostri giorni tutta la sua attualità. Del resto, Benedetto XVI cita più volte questo documento nella lettera con la quale ha istituito il nostro dicastero. Dunque deve essere considerato senza dubbio una tappa importante nel cammino verso la creazione del nuovo pontificio consiglio.

Poi è venuto Giovanni Paolo II, che con il suo intuito profetico ha coniato l'espressione «nuova evangelizzazione».

Non solo. In tutto l'arco del suo pontificato Papa Wojtyla ha continuato a puntare sulla nuova evangelizzazione, che in qualche contesto è stata ampiamente avviata. Tutto ciò, nella continuità del magistero pontificio,conduce come conseguenza diretta al nostro dicastero. Benedetto XVI lo ha istituito con il compito peculiare di ripensare e attuare la nuova evangelizzazione, coinvolgendo tutto l'episcopato mondiale.

Cosa significa questo?

Si tratta del compito principale di questo pontificio consiglio. Ed è particolarmente importante perché significala costante ricerca del confronto con le conferenze episcopali. Anch'esse infatti sono chiamate a costituire all'interno delle loro strutture un ufficio simile al nostro. Un lavoro che assumerà tutta la sua rilevanza nella preparazione e nello svolgimento del Sinodo dei vescovi del 2012, dedicato proprio al tema della nuova evangelizzazione.

In questo coinvolgimento sono compresi anche gli altri dicasteri della Curia romana?

Certo. L'evangelizzazione percorre trasversalmente tutto il servizio che la Curia svolge per il Papa e per la Chiesa. E non potrebbe essere altrimenti,visto che si tratta del cuore stesso della missione della Chiesa. Il Papa è il primo ad annunciare il Vangelo. Poi ci sono i vescovi, con il proprio presbiterio, con i religiosi, le religiose, i laici. Dunque è inevitabile che, nel servizio che la Curia rende al Papa, l'evangelizzazione sia al primo posto. È evidente che ci sono alcuni dicasteri con i quali noi saremo chiamati a collaborare più strettamente in uno spirito di complementarità. Penso, per esempio,al Pontificio Consiglio della Cultura,che ha aperto uno spazio, il «cortile dei gentili», per consentire di porre la questione di Dio a chi è lontano. Il nostro dicastero però si deve muovere su un altro fronte. Noi siamo chiamati ad annunciare nuovamente Cristo, a riproporre il Vangelo a chi ha già la fede. Siamo chiamati a rinvigorire lo spirito missionario: lo spirito che porta verso i tanti cristiani diventati purtroppo indifferenti, verso i tanti battezzati che oggi hanno perso la fede.

Ma come muoversi in un mondo come quello attuale, caratterizzato da situazioni sociali e religiose così diversificate?

Certo, in una fase di globalizzazione come quella che stiamo vivendo è difficile pensare che i grandi problemi delle metropoli del mondo non siano uguali. Parlo di tutti i problemi: dunque anche di quello della fede da rinvigorire o da ricostruire. Cercheremo innanzitutto di parlare ai cristiani delle Chiese di più antica origine. Ecco perché l'Occidente viene più facilmente identificato come obiettivo principale della nostra missione. Parliamo di cristiani e di Chiese che vivono in territori plasmati dal cristianesimo.

Sta qui la differenza con il dicastero missionario di Propaganda fide?

Evidentemente si tratta di compiti diversi. Propaganda fide deve portare il primo annuncio. Così come di primo annuncio si tratta per il dicastero della cultura, attraverso quel particolarissimo mondo espresso attraverso gli strumenti conoscitivi propri della filosofia,dell'arte e così via. Direi che il nostro compito è molto più ad intra: un impegno capillare che va dalle comunità parrocchiali alle diverse realtà che operano nella Chiesa con il desiderio di dare testimonianza della propria fede.

C'è differenza tra l'approccio con una società secolarista e quello con una società secolarizzata?

Il secolarismo è l'appendice del fenomeno della secolarizzazione, si potrebbe dire la sua estremizzazione. Certo, bisogna distinguere le due dimensioni. La secolarizzazione come tale è un fenomeno molto complesso; il secolarismo invece è quella estremizzazione che ha portato alle forme di relativismo,di autonomia esasperata che l'uomo ritiene di avere e che finisce per alimentare soltanto il diritto individuale,dimenticando la responsabilità sociale. Si reclamano diritti che non esistono in forza della presunta autonomia da tutti e da tutto, in primo luogo da Dio stesso.

Come risponderà il suo dicastero a queste sfide?

Innanzitutto cercheremo di aver un quadro completo delle diverse iniziative— e sono già tante — in atto nella Chiesa nei cinque continenti. Sappiamo che ci sono gruppi e movimenti molto ben organizzati, nati ai tempi di Giovanni Paolo II con l'intento di promuovere e sostenere la nuova evangelizzazione. Molti di questi, per esempio,già lavorano nelle università, nei campus, soprattutto negli Stati Uniti. Ci sono altre realtà simili, nate in America latina e già diffuse in diversi altri continenti, anche in alcuni Paesi europei. C'è una grande ricchezza di movimenti laicali che hanno come loro scopo specifico la nuova evangelizzazione. Esistono piani pastorali diocesani dedicati a questo scopo. Ma tutto questo è piuttosto frammentario. Primo obiettivo del dicastero, dunque, è conoscere le realtà in campo per armonizzare e sostenere gli sforzi di tutti,superando la frammentarietà e promuovendo una grande unità. L'intento è quello di favorire la complementarità di ogni gruppo. Il mondo di oggi ha bisogno di segni, e di segni unitari: segno di unità è proprio la testimonianza di una Chiesa che procede nel cammino della nuova evangelizzazione. Dunque lavorare insieme, pur nel rispetto e nella valorizzazione del carisma di ciascuno.

Come farà a realizzare questo lavoro di conoscenza capillare?

Ho intenzione di andare a conoscere questi organismi nella realtà in cui operano. Ho già visitato tantissimi Paesi, ho avuto importanti riunioni con diversi vescovi. Abbiamo cominciato a lavorare quando ancora non avevamo fisicamente una sede. La mia agenda per il 2011 è già piena sino a tutto giugno. Sarò in viaggio continuamente per il mondo, allo scopo di incontrare i protagonisti della nuova evangelizzazione e di affrontare con loro discussioni di lavoro e pubblici dibattiti.

Ha potuto riscontrare interesse e aspettative per i primi passi di questo dicastero?

Direi di sì. Ho raccolto molte voci positive intorno a questo avvenimento. C'è molta attesa, non solo nella Chiesa,e tanta curiosità, non solo nel mondo.

C'è un'immagine simbolica che rappresenta l'attività del nuovo organismo?

Ho scelto la Sagrada Familia di Anton Gaudí, rappresentata nel suo raffronto con la metropoli spagnola. Svetta nel cuore della città secolarizzata e vuole rappresentare un messaggio molto concreto. È un invito a usare un linguaggio nuovo per riempire l'enorme spazio che, senza la Chiesa, resterebbe come un vuoto nel cuore stesso della città. Ma deve essere un linguaggio in continuità con tutto quello che ci ha preceduto, con ciò che costituisce il ricco patrimonio della nostra fede. La Sagrada Familia è di fatto una cattedrale moderna. Tutti però la riconoscono come chiesa perché ha conservato in sé le caratteristiche essenziali che da quasi duemila anni trovano espressione nell'arte sacra. Sono convinto che una città senza il segno della presenza di chi annuncia il Vangelo, invitandogli uomini a non fermarsi alla dimensione orizzontale dell'esistenza ma a spingere lo sguardo verso l'alto, sia una città che ha dentro di sé un profondo vuoto. Perché non è aperta alla speranza. Non vogliamo che i nostri contemporanei avvertano questo vuoto. Per questo siamo convinti che non debba mai mancare chi annuncia all'uomo il senso profondo della vita, testimoniandola novità di Gesù Cristo.

È un vuoto che si avverte sempre più distintamente nel vecchio continente.

Nell'era della globalizzazione è difficile parlare di vecchi e nuovi continenti. Certamente il riferimento è all'Europa; ed è evidente che essa avrà da parte nostra un'attenzione particolare, non fosse altro perché fisicamente è più vicina. In Europa avvertiamo drammaticamente una crescente cristianofobia che si manifesta anche in Paesi di antica tradizione cristiana. Ci preoccupa molto. Dunque sentiamo maggiormente il bisogno di essere presenti e di far riconoscere la missione della Chiesa per quella che è realmente, non per come viene spesso presentata in maniera distorta.

State pensando anche a modi nuovi di diffondere il Vangelo?

Certo. Ecco qui un altro terreno di collaborazione e di corresponsabilità con i dicasteri della Curia, in questo caso con il Pontificio Consiglio delle Comunicazione Sociali. Dovremo procedere insieme. Ci stiamo lavorando e le idee non mancano.


tratto dall'Osservatore Romano del 12 gennaio 2011

lunedì 10 gennaio 2011

La Messa strapazzata

di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

Non mai alcun sacerdote dirà la messa colla divozione dovuta, se non ha la stima che merita un tanto sacrificio. È certo che non può un uomo fare un'azione più sublime e più santa, che celebrare una messa: Nullum aliud opus, dice il concilio di Trento, adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse, quam hoc tremendum mysterium. Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un'azione più grande, che del celebrarsi una messa.
Tutti i sacrificj antichi, con cui fu tanto onorato Iddio, non furono che un'ombra e figura del nostro sacrificio dell'altare. Tutti gli onori che han dati giammai e daranno a Dio gli angeli co' loro ossequj, e gli uomini colle loro opere, penitenze e martirj, non han potuto né potranno giungere a dar tanta gloria al Signore, quanta glie ne dà una sola messa; mentre tutti gli onori delle creature sono onori finiti; ma l'onore che riceve Iddio nel sacrificio dell'altare, venendogli ivi offerta una vittima d'infinito valore, è un onore infinito. La messa dunque è un'azione che reca a Dio il maggior onore che può darsegli: è l'opera che più abbatte le forze dell'inferno; che apporta maggior suffragio all'anime del purgatorio; che maggiormente placa l'ira divina contro i peccatori, e che apporta maggior bene agli uomini in questa terra.
Se sta promesso che quanto chiederemo a Dio in nome di Gesù, tutto otterremo: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis: quanto più dobbiamo ciò sperare, offerendogli Gesù medesimo? Questo nostro amoroso Redentore continuamente in cielo sta intercedendo per noi: Qui etiam interpellat pro nobis. Ma ciò specialmente lo fa in tempo della messa, nella quale egli, anche a questo fine di ottenerci le grazie, presenta se stesso al Padre per mano del sacerdote. Se noi sapessimo che tutti i Santi colla divina Madre pregassero per noi, qual confidenza non concepiremmo per li nostri vantaggi? ma è certo che una sola preghiera di Gesù Cristo può infinitamente più che tutte le preghiere de' santi. Poveri noi peccatori, se non vi fosse questo sacrificio che placa il Signore! Huius quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum pœnitentiæ concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit, dice il Tridentino. In somma, siccome la passione di Gesù Cristo bastò a salvare tutto il mondo, così basta a salvarlo una sola messa; che però il sacerdote nell'oblazione del calice dice: Offerimus tibi, Domine, calicem salutaris...pro nostra et totius mundi salute.
La messa è il più buono e più bello della chiesa, secondo predisse il profeta: Quid enim bonum eius est, et quid pulchrum eius, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? Poiché nella messa il Verbo incarnato si sacrifica all'eterno Padre e si dona a noi nel sagramento dell'eucaristia, il quale è il fine e lo scopo di quasi tutti gli altri sacramenti, come insegna l'angelico: Fere omnia sacramenta in eucharistia consummantur. Onde dice s. Bonaventura, che la messa è l'opera in cui Iddio ci mette avanti gli occhi tutto l'amore che ci ha portato, ed è un certo compendio di tutti i beneficj che ci ha fatti: Est memoriale totius dilectionis suæ, et quasi compendium quoddam omnium beneficiorum suorum. E perciò il demonio ha procurato sempre di toglier dal mondo la messa per mezzo degli eretici, costituendoli precursori dell'Anticristo, il quale, prima d'ogni altra cosa, procurerà d'abolire, ed in fatti gli riuscirà d'abolire, in pena de' peccati degli uomini, il santo sacrificio dell'altare, giusta quel che predisse Daniele: Robur autem datum est ei contra iuge sacrificium propter peccata.

Dice lo stesso s. Bonaventura che Dio in ogni messa non fa minor beneficio al mondo di quello che fece allora che s'incarnò: Non minus videtur facere Deus in hoc quod quotidie dignatur descendere super altare, quam cum naturam humani generis assumpsit. Sicché, come dicono i dottori, se mai non vi fosse stato ancora nel mondo Gesù Cristo, il sacerdote ve lo porrebbe con proferire la forma della consagrazione; secondo la celebre sentenza di s. Agostino, che scrisse: O veneranda sacerdotum dignitas, in quorum manibus velut in utero Virginis Filius Dei incarnatur!
Inoltre, non essendo altro il sacrificio dell'altare, che l'applicazione e la rinnovazione del sacrificio della croce, insegna l'angelico, che una messa apporta agli uomini tutti gli stessi beni e salute che apportò il sacrificio della croce: In qualibet missa invenitur omnis fructus, quem Christus operatus est in cruce. Quiquid est effectus dominicæ passionis, est effectus huius sacrificii. Lo stesso scrisse il Grisostomo: Tantum valet celebratio missæ, quantum valet mors Christi in cruce. E di ciò maggiormente ce ne assicura la s. Chiesa, dicendo: Quoties huius hostiæ commemoratio recolitur, toties opus nostræ redemptionis exercetur. Giacché il medesimo Salvatore che si offerì per noi sulla croce si sagrifica sull'altare per mezzo de' sacerdoti, come ci dichiara il Tridentino: Una enim ædemque est hostia, idem nunc offerens sacerdotis ministerio, qui se ipsum in cruce obtulit, sola ratione offerendi diversa. Ond'è che per lo sagrificio dell'altare s'applica a noi il sagrificio della croce. La passione di Gesù Cristo ci fe' capaci della redenzione; la messa ce ne mette in possesso e fa che godiamo ne' suoi meriti.
Posto dunque che la messa è l'opera più santa e divina che possa da noi trattarsi, bene apparisce, dice il concilio di Trento, che dee impiegarsi ogni diligenza, acciocché un tal sagrificio si celebri colla maggior purità interna e divozione esterna che sia possibile: Satis etiam apparet omnem operam in eo ponendam esse, ut quanta maxima fieri potest interiori cordis munditia, atque exteriori devotione ac pietatis specie peragatur. E dice che la maledizione fulminata da Geremia contro coloro che negligentemente esercitano le funzioni ordinate al culto divino, Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter, precisamente s'appartiene, a' sacerdoti che con irriverenza celebrano la messa, la quale, fra tutte le azioni che può fare l'uomo per onorare il suo Creatore, è la più grande ed eccelsa, soggiungendo che una tale irriverenza difficilmente può essere scompagnata dall'empietà: Quæ ab impietate vix seiuncta esse potest, sono appunto le parole del concilio.
Acciocché dunque il sacerdote eviti sì grave irriverenza, ed insieme la divina maledizione, vediam che ha da fare prima di celebrare, che ha da fare nel celebrare, e che dopo aver celebrato. Prima di celebrare gli è necessario l'apparecchio. Nel celebrare dee usare la riverenza dovuta. Dopo aver celebrato, dee fare il ringraziamento.

OPERE ASCETICHE, in «Opere di S. Alfonso Maria de Liguori», Pier Giacinto Marietti, Vol. III, pp. 832 - 864, Torino 1880

venerdì 7 gennaio 2011

La Santa Messa in EF a Bari



Dalla prossima domenica, 9 gennaio, la Santa Messa festiva nella forma latino-gregoriana a Bari torna ad essere celebrata la mattina di ogni domenica e feste di precetto alle ore 10,00 nella Chiesa di San Giuseppe nel borgo antico.  











martedì 4 gennaio 2011

Lettera al Parroco

Pubblichiamo qui di seguito una lettera scritta al proprio parroco da un nostro lettore che pone la questione del “novus ordo ben celebrato”. Abbiamo poi chiesto al prof. Vito Abbruzzi un breve commento.

Caro Parroco,
ti giuro, senza alcun intento provocatorio, ma – proprio in virtù del fatto che tengo in considerazione ciò che mi dici – vorrei davvero un consiglio sincero rispetto a quanto mi hai detto a proposito della preferenza che dobbiamo avere nel partecipare ai Santi Misteri nella comunità parrocchiale cui apparteniamo (senza essere “apolidi”).
Allora, ti porto l’esempio di oggi.
Il coro di infanti con (solo) chitarre e canzoni che di tutto parlano fuorché del mistero, compresi “Alleluia” e “Santo” da stadio con i gesti da evangelici pentecostali, non lo considero giacché capisco che quello è e me lo devo tenere.
Però – cavolo! – oggi era la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria e la Messa tutto ha avuto per oggetto fuorché questo! (il sacrificio eucaristico, infatti, è già scomparso dall'orizzonte della maggior parte dei fedeli, considerato che non si inginocchiano nemmeno e continuano a masticare chewing-gum e spegnere cellulari come se nulla fosse, ignari di essere al cospetto del Logos fattosi pane da mangiare per le loro bocche… sempre se non lo prendono con le mani per farne chissà che...).
Infatti hanno avuto la priorità, nell’ordine:
- la giornata diocesana delle vocazioni e del seminario;
- la giornata del tesseramento dell’azione cattolica;
- la presentazione dei cresimandi (della parrocchia in cui mi trovavo)...
Ergo, nell’omelia di tutto si è parlato fuorché della Solennità che tutta la Chiesa universale oggi festeggia! (per giunta dopo qualche minuto di Omelia – sul seminario, le vocazioni e l’azione cattolica - il celebrante ha lasciato il microfono a due seminaristi per due testimonianze... cosa che, peraltro, reputo assolutamente vietata).
Insomma, un disastro. Davvero della serie “Come andare a Messa e non perdere la fede” (come il titolo dell’ultimo libro di Nicola Bux).
Davanti a queste cose come non comprendere (anzi, peggio, condannare) coloro che “scappano” (e ti assicuro che in tutto il mondo sono sempre di più) al rito antico (pur consapevoli che in realtà il novus ordo ben celebrato non è quello che hanno appena visto)?
E ti assicuro, per conoscenza diretta, che non sono stato sfortunato: questo “spettacolo” è andato in onda in tantissime parrocchie mercoledì e tanti fedeli, nella Chiesa dove ero così come nelle altre, hanno vissuto lo stesso disagio.
In disparte la scellerata scelta del parroco di concentrare tutti questi “eventi” in una Messa (e solenne), rendendola così una sorta di varietà del sabato sera televisivo italiano, dove tanti artisti si succedono sulla scena (e all'unico Artista si lascia alla fine, nel tempo residuo, prima che ti tolgano la linea, qualche scampolo di attenzione), mi chiedo se davvero “l’agenda” della Chiesa locale, anzi super-locale, delle associazioni, può avere così tanta supremazia sulla “agenda” della Chiesa universale. In tutta sincerità credo di no. Considerato anche che la Solennità odierna è per la Chiesa cattolica una delle più importanti dell’anno per svariate ragioni.
Ti confesso che ad un certo punto dell’omelia (precisamente alla seconda delle testimonianze dei seminaristi che testimonianza non era giacché parlava a vanvera di tutt'altro) ho pensato di alzarmi e di andarmene per partecipare ad un’altra Messa nel prosieguo della giornata. Non l’ho fatto solo per non dare eventualmente “scandalo” ad altri fedeli.
Ora, io non voglio chiederti di parlar male del tale confratello o della tale parrocchia o della tale associazione; quello che ti voglio chiedere è: perché dovrei sottopormi, secondo te, a queste vere e proprie “torture”? Perché sarebbe scorretto che io ad esempio partecipi alla Messa che celebra qualche altro sacerdote in un’altra parrocchia, compresa quella in rito antico, se in esse trovo maggior nutrimento spirituale? Non è forse una delle prime regole del discernimento spirituale quella che ci chiede di verificare la presenza di consolazione e desolazione spirituali, giacché solo la prima in senso autentico viene certamente da Dio?
Come vedi io non disprezzo ciò che mi dici, anzi, continuo a pensarci. Tuttavia, continuo a non capirlo. O meglio, lo comprendo nella sua assiomaticità, astrattezza (in teoria ciascuno di noi dovrebbe vivere nella propria comunità), ma ai conti con la realtà lo schema non tiene. Perché mi devo inaridire spiritualmente e fare ”sangue acido” (moti che con maggiore probabilità non sono ispirati da Dio) partecipando a questo genere Messe?
In Jesu et Maria
Francesco



Una domanda legittima
di Vito Abbruzzi

Francesco chiede quale sia la “preferenza che dobbiamo avere nel partecipare ai SS. Misteri nella comunità parrocchiale cui apparteniamo (senza essere ‘apolidi’)”.
La sua è una domanda legittima, posta “senza alcun intento provocatorio”. Legittima perché non vuole nuocere alla “comunione con la Chiesa”; comunione che, secondo quanto stabilisce lo stesso Codice di Diritto Canonico (CIC), “i fedeli sono tenuti all’obbligo (obligatione adstringuntur) di conservare sempre, anche nel loro modo di agire” (can. 209, §1). È in nome di questa legittimità che “i fedeli hanno il diritto di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri” (can. 212, §2). Si tratta qui di “necessità” e “desideri” che non possono essere disattesi, dal momento che “i fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla dottrina della Chiesa” (can. 214).
Ergo, Francesco – come ogni altro fedele – potrebbe scegliersi molto liberamente una chiesa dove sa che andare a Messa non solo non gli fa correre il rischio di perdere la fede, ma gliela fa addirittura acquistare. Ma è giusto che egli faccia presente “le proprie necessità, soprattutto spirituali, e i propri desideri” – come dice il CIC – in primis al suo parroco, il quale, valutandole con intelligenza, si renderà conto della bontà di esse. In fin dei conti, ciò che serve ai nostri preti è una buona scuola di marketing (oltre che di omiletica): si renderebbero conto da soli che la vera carta vincente – anche in termini economici – sta proprio nell’offrire una più ampia offerta liturgica, compresa la celebrazione della Messa e degli altri Sacramenti nella forma straordinaria del Rito Romano. Batterebbero, così, la concorrenza degli altri confratelli, che di buon grado accolgono “coloro che – nelle parole di Francesco – ‘scappano’ […] al rito antico”.