Sante Messe in rito antico in Puglia

lunedì 29 febbraio 2016

Perdita di Cristo, perdita della ragione, Occidente morente in un aforisma di Dostoevskij


San Pier Damiani, una voce per il nostro tempo

Pochi giorni fa abbiamo celebrato la memoria liturgica di S. Pier Damiani. Ora, l’attualità dell’insegnamento di quest’insigne Dottore della Chiesa ci è riproposto da un contributo di Cristina Siccardi, che volentieri rilanciamo.

San Pier Damiani, una voce per il nostro tempo

di Cristina Siccardi

«Tutto ciò che è presente, passa; resta invece quel che si avvicina. Come ha ben provveduto chi ti ha lasciato, o mondo malvagio, chi è morto prima col corpo alla carne che non con la carne al mondo!», questi sono alcuni versi dello scritto poetico che san Pier Damiani (1007-1072), la cui memoria liturgica è stata lo scorso lunedì 21 febbraio, scrisse per coloro che avessero visitato il suo sepolcro, custodito nella cattedrale di Faenza.
Ricevette l’ordinazione presbiterale intorno al 1034-1035 e in questo periodo entrò anche nella vita monastica di Fonte Avellana (Pesaro-Urbino), eremo fondato dal ravennate san Romualdo, del quale scrisse la biografia. Qui ebbe modo di farsi apprezzare per le sue capacità di docente e dell’eremo diverrà priore per 14 anni, dal 1043 al 1057.
Durante il suo priorato si adoperò nell’organizzazione e nella promozione della vita monastica, stilando anche una fruttuosa Regola. Curò pure l’ampliamento e la ristrutturazione di edifici esistenti e ne costruì di nuovi, come il monastero di San Gregorio in Conca (Rimini), l’eremo di Gamogna sull’Appennino faentino, il monastero di San Bartolomeo in Camporeggiano, presso Gubbio… e intrattenne un nutrito carteggio con i principali monasteri del centro d’Italia. Ma la sua azione, in qualità sia di religioso integro, sia di letterato valente, andò oltre i confini monastici e fu chiamato dai Pontefici per porsi al loro servizio.
Nella nutrita produzione teologica, canonistica, monastica di Pier Damiani (trattati, opuscoli, lettere, sermoni) si possono distinguere due centri di interesse: eremitico-monastico e teologico-ecclesiastico. La Croce è al centro della sua dottrina: «Non ama Cristo, chi non ama la croce di Cristo», affermava (Sermo XVIII, 11) e si qualificava come «Petrus crucis Christi servorum famulus – Pietro servitore dei servitori della croce di Cristo» (Ep 9, 1) e, ancora, «O beata Croce ti venerano, ti predicano e ti onorano la fede dei patriarchi, i vaticini dei profeti, il senato giudicante degli apostoli, l’esercito vittorioso dei martiri e le schiere di tutti i santi» (Sermo XLVIII, 14).
La Chiesa, di quando in quando, ha necessità di coloro che rimettano ordine nella sua dimensione umana, perché errori e peccati deturpano il modus operandi ecclesiale. San Pier Damiani fu assai utile, in questa impresa. La Chiesa, oggi, versa in uno stato di malattia e di vecchiaia a causa di errori che vengono tollerati e spesso vezzeggiati.
Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, la Chiesa non seppe riempire i vuoti ideologici che si erano formati in Europa, come altrove; forse a causa del suo inverno, dopo le illusioni primaverili del Concilio Vaticano II. E il vuoto è stato presto colmato da ideologie eredi del nazismo e del comunismo: pensiamo, per esempio, allo sviluppo derivato dall’eugenetica tedesca (selezione degli individui attraverso sofisticati studi scientifici, fino ad arrivare al programma Aktion T4, nome convenzionale con cui viene identificato il programma nazista di eutanasia). E nonostante la cavalcata del diabolico pensiero filosofico e scientista sia proseguita, la Chiesa attualmente si trova non impreparata – in quanto valenti studiosi contemporanei esistono per contrastarla – ma pavida, indeterminata e svirilizzata. Troppa debole fede? Troppa corruzione morale? Troppa superficialità e ignoranza? Forse tutto insieme…
Bussare alla porta del Buon Pastore con la preghiera, per chi crede, è normale; ma anche bussare alla porta del Papa è doveroso, sia per il clero che per i fedeli. Bussare per chiedere ascolto e attenzione al Padre della cattolicità terrena affinché venga accolto il grido da parte di chi non si arrende alle empietà che oggi vengono perpetrate ai danni degli innocenti: i bambini, prime vittime dei peccati degli adulti; bambini che spesso non trovano neppure più rifugio fra le braccia dei propri genitori, latitanti perché occupati sul lavoro o perché conquistati dai propri divertimenti o perché impegnati con altre storie sentimentali.
Oggi, con la scienza, si pensa di rimediare o tamponare ogni tipo di questione umana. In tal modo si crede che le problematiche psicologiche che sorgono nei minori a causa delle lacerazioni familiari, possano essere risolte attraverso la psicologia o la psichiatria, senza andare alla radice dei problemi, ovvero il padre sia padre e la madre sia madre. Ahimé (come si diceva un tempo) abbiamo non urgente necessità di psicoanalisti, ma di timor di Dio e di piscatores.
L’espressione sancta simplicitas, nel linguaggio di Pier Damiani, designa il coraggio e la forza d’animo propria dei piscatores, uomini che partecipano con salda convinzione alla fede. E proprio a loro si riferisce come modello di virtù nel De sancta semplicitate, lettera indirizzata a un monaco di nome Ariprando. La sete di scienza è per san Pier Damiani, una forma di idolatria, che distoglie l’uomo dal vero bene, che è la contemplazione di Dio. Egli affronta così il tema della vana curiositas: il mondo, egli sostiene, è solo la manifestazione di Dio, una teofania, pertanto indagare troppo il creato è pericoloso poiché la «cupidigia del sapere» è paragonata ad una tentazione diabolica.
Errori, corruzione, superbia… i peccati di sempre c’erano pure allora e si chiamavano simonia, nicolaismo (non rispetto del celibato ecclesiastico), rilassatezza dei costumi religiosi ed egli non temeva di denunciare lo stato di corruzione esistente nei monasteri e tra il clero. Con il pontificato di Leone IX si estese il suo orizzonte d’azione riformatrice e la sua collaborazione proseguì con i successivi papati di Stefano IX, Niccolò II e Alessandro II. Stefano IX lo nominò Cardinale e Vescovo di Ostia, ovvero uno dei sette cardinali vescovi suburbicari a più stretto contatto con il Pontefice.
Determinante e benefico fu il suo operato. Fu presente ai sinodi romani del 1047, 1049, 1050, 1051, 1053. Nel 1049 compose il Liber Gomorrhianus (ricordiamo che è recente la sua pubblicazione, con una introduzione del Professor Roberto de Mattei e la traduzione di Gianandrea de Antonellis, ed è possibile acquistarlo: http://letture.corrispondenzaromana.it/libro/liber-gomorrhianus/) sui peccati contro natura, un trattato di pregnante rilievo contemporaneo che fu necessario scrivere all’epoca poiché la società era da essi devastata. Non solo il Dottore della Chiesa si rivolse ai sacerdoti e ai religiosi, ma anche ai Vescovi, responsabili di non aver imposto il rispetto della disciplina ecclesiastica e aver tralasciato ogni intervento correttivo fra i disordini morali, quali la sodomia.
Anche la Chiesa odierna dovrà, prima o poi, piegarsi umilmente agli insegnamenti divini e pronunciarsi con fermezza sull’antico male che grida vendetta al cospetto di Dio, perché, come scrive il santo di Ravenna, «Se questo vizio assolutamente ignominioso e abominevole non sarà immediatamente fermato con un pugno di ferro, la spada della collera divina calerà su di noi, portando molti alla rovina».

martedì 23 febbraio 2016

“Cardinalátu et episcopáli dignitáte depósitis, nihil de prístina juvándi próximos sedulitáte remísit. Jejúnium sextæ fériæ in honórem sanctæ Crucis Jesu Christi, horárias beátæ Dei Genitrícis preces, ejúsque die Sábbato cultum propagávit. Inferéndæ quoque sibi verberatiónis morem ad patratórum scélerum expiatiónem provéxit” (Lect. VI – II Noct.) - SANCTI PETRI DAMIANI, S.R.E. CARDINALIS EPISCOPI OSTIENSIS, CONFESSORIS ET ECCLESIÆ DOCTORIS

Questo santo vescovo di Ostia, austero riformatore dei costumi cristiani e precursore di san Gregorio VII, nato nel 1007, figlio intrepido e gloria dell’Ordine di san Benedetto, che, nell’XI sec. – periodo molto agitato da antipapi, eresiarchi e da un doloroso indebolimento dello spirito ecclesiastico – fu come una colonna di fuoco indicante ai fedeli la via stretta della Croce di Cristo, che conduce sicuramente al Cielo, passò al Signore il 22 febbraio 1072.
A causa della festa della Cattedra di san Pietro, è oggi soltanto che si celebra la sua commemorazione annuale. Leone XII, nel 1823, lo proclamò Dottore della Chiesa e, nello stesso anno, estese il suo ufficio – prima in uso soltanto presso i monaci benedettini – alla Chiesa universale fissandone odiernamente la festa annuale.
Roma cristiana gli ha dedicato una chiesa, nella piazza omonima, nella zona Acilia sud, nel 1970, poi riconsacrata nel 2002. Essa è titolo cardinalizio (diaconia) dal 1973, San Pier Damiani ai Monti di San Paolo.
La messa è quella del Comune dei dottori In médio, come il 29 gennaio, ma la prima colletta è propria e ricorda la rinuncia di san Pier Damiani alle insegne cardinalizie ed all’episcopato di Ostia.
Di quest’insigne Dottore della Chiesa ricordavamo il celebre Liber Gomorrhianus, vero manifesto cattolico sul tema dell’omosessualità, nel quale si confutava ante litteram il noto motto, per nulla cattolico e contrario alla salvezza delle anime, “chi sono io per giudicare”, oggi, ahimé, molto in auge, assieme alle altre omoeresie, presso le corti ecclesiastiche. In quel testo, si suggeriva, tra l'altro, che tutti gli ecclesiastici, colpevoli di qualsiasi atto omosessuale, dovessero essere immediatamente degradati, a qualunque grado essi fossero appartenuti.  Una misura che se oggi fosse stata applicata, avrebbe evitato alla Chiesa innumerevoli scandali … . Tale opera era la manifestazione profonda, infatti, di un uomo genuinamente interessato a muovere le anime al pentimento e alla speranza, giacché l’Autore si diceva consapevole di suscitare sgomento e rammarico nel lettore. Ma sempre per il suo bene. Il Santo non temeva «gli odi dei cattivi o le lingue dei detrattori»; egli aveva solamente cercato di esprimere, con tutta la cura possibile, l’entusiasmo dettatogli dal Giudice Supremo, che sentiva dentro di sé. E chi ama - si sa - sa pure correggere, somministrando una medicina sì amara, ma che salva la vita, cioè la vita vera, quella eterna, oggi tenuta in alcun conto.




Ercole de' Roberti, Pala di Santa Maria in Porto, ovvero Vergine col Bambino tra le SS. Anna ed Elisabetta, nonché tra i SS. Agostino e Pier Damiani, 1479-81 circa, Pinacoteca di Brera, Milano


Maestro di S. Pier Damiani, S. Pier Damiani, 1430 circa, Pinacoteca comunale, Ravenna

Giuseppe Santini, S. Pier Damiani, 1666, museo diocesano, Arezzo

Ambito romagnolo, S. Pier Damiani, XVII sec., museo diocesano, Ravenna

Ambito veneto, S. Pier Damiani, XVIII sec., museo diocesano, Verona

Autore ravennat, S. Pier Damiani, 1725-49, Biblioteca Classense, Ravenna


Pietro da Cortona, S. Pier Damiani offre alla Vergine che gli appare il libro della regola, 1629 circa, collezione privata



Urna col corpo di S. Pier Damiani, Cattedrale, Faenza

lunedì 22 febbraio 2016

Un brano evangelico misterioso ed il Nome di Dio celato nel Titulus Crucis

Oggi, lunedì della II settimana di Quaresima, viene letto – nella Messa tradizionale – quale brano evangelico una lezione tratta dal Vangelo di Giovanni, 8, 21-29.
Si tratta di uno strano testo, che riferisce le parole di Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono, γώ εμί» (Gv. 8, 28). Parole misteriose. Molti hanno dato a queste un significato puramente teologico, quasi a voler dire che il Signore, con quelle parole, pur esprimendo la maestà della Divinità e la sua origine ed inseparabilità dal Padre, indicasse che molti sarebbero giunti alla fede mediante la sua passione e morte.
Certo, il testo in questione si muove in un contesto di fede. Ma non ci si è interrogati a sufficienza se quelle parole non siano in realtà una profezia di ciò che sarebbe accaduto.
Che intendiamo dire?
Almeno un decennio fa è stata avanzata l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che il famoso Titulus Crucis, che recava il motivo della condanna a morte di Gesù, nella sua parte ebraica, ישוע הנצרי ומלך היהודים (Jeshu[a’] HaNozri WeMelek HaJehudim), Gesù Nazareno e re dei Giudei (con l’inserimento obbligatorio, per ragioni grammaticali, di una congiunzione e), fosse l’acronimo del nome impronunciabile di Dio, Jahwé (JHWH), il famoso tetragramma (יהוה). Per cui, Pilato, forse inconsapevolmente o meglio guidato ed ispirato da Dio, aveva sancito legalmente, cioè in un titolo legale qual era il titulus, che recava il motivo della condanna, la Divinità di quell’Uomo che era appeso alla Croce. Ciò spiegherebbe la reazione stizzita dei sommi sacerdoti (evidentemente Anna e Caifa), come scrive l’attento Giovanni: «I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei”» (Gv. 19, 21). E non a caso i sommi sacerdoti, in quanto il nome di Dio, all’epoca di Gesù, era noto solo al sommo sacerdote, che, una volta l’anno, nel giorno dell’Espiazione, Yom Kippur o Yom haKippurim, accedeva nel Santo dei Santi del Tempio, pronunciando, lontano da orecchie indiscrete, dieci volte, il nome dell’Eterno (essendo solo a lui note, per rivelazione divina, le vocali), sebbene la Mishna dica enfaticamente che la voce del gran sacerdote risuonasse sino a Gerico quando pronunciava il Nome nel giorno delle Espiazioni. Peraltro, probabilmente, lo pronunciava alzando le mani al di sopra dello ziz, cioè al di sopra del suo diadema, come prescritto dal Levitico (Lv. 9, 22). 
Pilato rimase provvidenzialmente fermo nella sua decisione: Quod scripsi, scripsi (Gv. 19, 22).
Proprio sulla Croce, dunque, abbiamo l’attestazione, il titolo legale della divinità di Cristo, accertata e sancita con i crismi della legge e secondo diritto dall’autorità giudiziaria romana.
Ecco realizzate quelle misteriose parole profetizzate dal Cristo: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono»!
Tralasciando la questione circa l’espressione Nazareno o Nazireo, che è stata approfondita dalla studiosa Maria Luisa Rigato, che, in ogni caso, non sposta molto i termini del tema che stiamo affrontando, e dando per buona la tradizionale espressione di Nazareno, si potrebbe obiettare che il risentimento dei sommi sacerdoti fosse dovuto al fatto che Pilato, che odiava il popolo giudaico, avesse voluto con quella scritta, accostando “Nazareno” ai “giudei”, prendersi gioco ed irridere quegli uomini, che detestavano i galilei perché colpevoli di essersi contaminati con i gentili e ritenuti perciò, dagli abitanti della Giudea, come burini e contadini bifolchi ed ignoranti, che avevano una parlata assai caratteristica e buffa (i galilei si “mangiavano” le vocali, facendo cadere le consonanti ed avevano una pronuncia delle gutturali abbastanza ruvida, non liscia come i giudei) e dalle cui terre provenivano spesso demagoghi e sobillatori (si pensi al caso di Giuda il Galileo, fondatore della setta degli zeloti, a cui accenna Gamaliele: At. 5, 37). Per questo, non potevano accettare che dalla Galilea potesse provenire il Messia: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?», domandava Natanaele/Bartolomeo a Filippo di Betsaida (Gv. 1, 46). Figuriamoci addirittura un Re dei giudei!
Questa spiegazione, tuttavia, sebbene possa apparire credibile guardando con gli occhi di un Pilato, il quale probabilmente approfittò dell’occasione per arrecare uno sfregio ai giudei, tuttavia non appare pienamente soddisfacente se si guarda alla vicenda con gli occhi dell’Evangelista Giovanni. Egli annota che chi chiese a Pilato di modificare la scritta non fu il popolo giudaico, che, in fondo, era abituato a questi tiri del Procuratore («Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; …»: Gv. 19, 20). L’Evangelista, in maniera attenta, non annota particolari reazioni da parte dei lettori giudei appartenenti al popolo. Al contrario, furono i sommi sacerdoti a reagire: non l’intera classe sacerdotale dunque, ma solo i sommi sacerdoti. E ben a ragione, visto che il nome di Dio era noto solo a loro. Del resto, si dimentica talora che la classe sadducea – da cui provenivano i sommi sacerdoti – era sostanzialmente collaborazionista e piuttosto ossequiosa verso il Procuratore. Per cui, non v’era motivo di scomodarlo nuovamente, dopo aver ottenuto la condanna di quel Malfattore, per …. il motivo della condanna. Non v’era ragione se non vi avessero visto nulla che toccasse la loro fede così nel profondo: il Nome di Dio appunto. Per i sommi sacerdoti significava che, alla vigilia della loro Pasqua, era stato crocifisso dall’autorità romana, ma su loro richiesta, un Uomo il cui nome era Yahwé, il loro Dio. Si realizzava così pure la prescrizione di Es. 28, 36-38, dove si dice che il Kohèn Gadòl (Sommo Sacerdote) recava inciso sul diadema d’oro, che portava sulla fronte, detto ziz, il nome di Dio (Qodesh le JHWH, cioè Santo a JHWH), per prendere su di sé le colpe commesse dai figli d’Israele e, per loro, ricevere la grazia, il favore di YHWH. Gesù, dunque, era davvero il nuovo Sommo Sacerdote della Nuova ed Eterna Alleanza (Eb 2,17; 3,1; 4,14.15; 5,1.6; ecc.), che, quale Servo di JHWH, secondo Isaia, doveva portare i peccati di molti (Is. 53, 11-12).
In sintesi:
Gesù il Nazareno Re dei Giudei:
(Latino) - Jesus Nazarenus Rex IudaeorumINRI
(Greco) - Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων -ἸηΝβο (INBI)
(Ebraico) - יהוה - ישוע הנוצרי ומלך היהודים (YHWH)
Per riferimenti, Daniele di Luciano, Sopra la croce di Gesù non era scritto solo INRI. Ecco il vero significato dell’iscrizione ebraica, in Il Timone, 5.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 4.2.2016;
don Curzio Nitoglia, Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, ossia JHWH, in blog don Curzio Nitoglia, 25.2.2016, nonché in Radiospada, 7.4.2020;


Ermes Dovico, Non solo INRI. Cosa c’era scritto sulla Croce, in LNBQ, 10.4.2020.



domenica 21 febbraio 2016

Un santo patrono per la conversione dei musulmani. Una riflessione apologetica anticonformista ....

«Damásci sancti Petri Maviméni, qui, cum díceret Arábibus quibúsdam, ad se ægrótum veniéntibus: “Omnis qui fidem Christiánam cathólicam non ampléctitur, damnátus est, sicut et Máhumet, pseudoprophéta vester,” ab illis est necátus»; «A Damàsco san Piétro di Maiùma, il quale, avendo detto ad alcuni Arabi, che erano andati da lui mentre era infermo: “Chiunque non abbraccia la fede cristiana cattolica è dannato, come anche il vostro falso profeta Maométto”, fu da essi ammazzato». Così, oggi, 21 febbraio, commemora il Martirologio romano. Un Santo, insomma, ben lontano dal modello “dialogogista” ed “ecumenista”, che considera l’islam “religione di pace”. Al contrario, un Santo che sarebbe oggi di scandalo per i conformisti-pacifinti; un Santo davvero anticonformista rispetto al pensiero dominante del nostro tempo. Ieri il mondo – almeno in Italia – ha tessuto onorificenze sperticate in morte dello scrittore Umberto Eco, che coerentemente con le sue idee avrà un “funerale laico” (ovvero un “non funerale”); uno scrittore, il quale, come ricorda un editoriale de Il Messaggero, a firma di Mario Ajello, era anticonformista su tutto e sempre; ma sempre, parimenti, conformista sul pensiero dominante, cioè sempre allineato su quelle cose per le quali non c’è un prezzo da pagare, perché sono gratis, sono politicamente (e, perché no?, pure religiosamente e culturalmente) corrette, ed il mondo desidera sentirsi dire (cfr. M. Ajello, Umberto Eco/ Originale in tutto, ma in politica seguiva il pensiero dominante, in Il Messaggero, 20.2.2016); oggi la Chiesa propone, al contrario, la figura di un vero anticonformista (beninteso: anticonformista rispetto al pensiero d’oggi, che è quello maggiormente lontano da Cristo), che ha pagato un prezzo: la sua stessa vita. Strano gioco del destino; strana coincidenza. O forse no. Non esistono le coincidenze. In filigrana, la Chiesa sembra, dunque, quasi affermare che il vero anticonformismo sta non già in ciò che è allineato al pensiero dominante, al pacifismo buonista, lontano dalla Verità, bensì sta in tutto ciò che ha un alto prezzo, vita compresa, che in ultima analisi non sarebbe altro che la Verità di Cristo stesso.
Nella memoria, dunque, del summenzionato Santo “anticonformista” e controcorrente rispetto al pensiero d’oggi, rilanciamo volentieri questo saggio – in inglese.



Francisco Domingo Marqués, Il beato Giovanni de Ribera, viceré e vescovo di Valencia, supervisiona l'espulsione dei Mori, 1864, Museu de Belles Arts de València, Valencia

Tomorrow in Her Martyrology the Church commemorates the martyrdom of Saint Peter Mavimeno at Damascus in the year 743. Some Arabs came to see him while he was ill, and to them he said, ”Whoever does not embrace the Catholic Christian religion will be damned, as your false prophet Mohammed is,” whereupon they killed him.
“There is also the superstition of the Ishmaelites which to this day prevails and keeps people in error, being a forerunner of the Antichrist…. From that time to the present a false prophet named Mohammed has appeared in their midst. This man, after having chanced upon the Old and New Testaments and likewise, it seems, having conversed with an Arian monk, devised his own heresy. Then, having insinuated himself into the good graces of the people by a show of seeming piety, he gave out that a certain book had been sent down to him from heaven. He had set down some ridiculous compositions in this book of his and he gave it to them as an object of veneration.”
-St. John Damascene (d. 749), Syrian Arab Catholic monk and scholar. Quoted from his bookOn Heresies under the section On the Heresy of the Ishmaelites (in The Fathers of the Church. Vol. 37. Translated by the Catholic University of America. CUA Press. 1958. Pages 153-160.)
“We profess Christ to be truly God and your prophet to be a precursor of the Antichrist and other profane doctrine.”
-Sts. Habenitus, Jeremiah, Peter, Sabinian, Walabonsus, and Wistremundus (d. 851), martyrs of Cordoba, Spain. Reported in the Memoriale Sanctorum in response to Spanish Umayyad Caliph ‘Abd Ar-Rahman II’s ministers that they convert to Islam on pain of death.
“Any cult which denies the divinity of Christ, does not profess the existence of the Holy Trinity, refutes baptism, defames Christians, and derogates the priesthood, we consider to be damned.”
-Sts. Aurelius, Felix, George, Liliosa, and Natalia (d. 852), martyrs of Cordoba, Spain. Reported in the Memoriale Sanctorum in response to Spanish Umayyad Caliph ‘Abd Ar-Rahman II’s ministers that they convert to Islam on pain of death.
“On the other hand, those who founded sects committed to erroneous doctrines proceeded in a way that is opposite to this, the point is clear in the case of Muhammad. He seduced the people by promises of carnal pleasure to which the concupiscence of the flesh goads us. His teaching also contained precepts that were in conformity with his promises, and he gave free rein to carnal pleasure. In all this, as is not unexpected, he was obeyed by carnal men. As for proofs of the truth of his doctrine, he brought forward only such as could be grasped by the natural ability of anyone with a very modest wisdom. Indeed, the truths that he taught he mingled with many fables and with doctrines of the greatest falsity. He did not bring forth any signs produced in a supernatural way, which alone fittingly gives witness to divine inspiration; for a visible action that can be only divine reveals an invisibly inspired teacher of truth. On the contrary, Muhammad said that he was sent in the power of his arms—which are signs not lacking even to robbers and tyrants.”
-St. Thomas Aquinas (d. 1274), Theologian and Doctor of the Church. Quoted from his De Rationibus Fidei Contra Saracenos, Graecos, et Armenos and translated from Fr. Damian Fehlner’s Aquinas on Reasons for the Faith: Against the Muslims, Greeks, and Armenians(Franciscans of the Immaculate. 2002.).
“As we have seen, Muhammed had neither supernatural miracles nor natural motives of reason to persuade those of his sect. As he lacked in everything, he took to bestial and barbaric means, which is the force of arms. Thus he introduced and promulgated his message with robberies, murders, and bloodshedding, destroying those who did not want to receive it, and with the same means his ministers conserve this today, until God placates his anger and destroys this pestilence from the earth...
“(Muhammad) can also be figured for the dragon in the same Apocalypse which says that the dragon swept up a third of the stars and hurled down a third to earth. Although this line is more appropriately understood concerning the Antichrist, Mohammed was his precursor – the prophet of Satan, father of the sons of haughtiness...
“Even if all the things contained in his law were fables in philosophy and errors in theology, even for those who do not possess the light of reason, the very manners (Islam) teaches are from a school of vicious bestialities. (Muhammad) did not prove his new sect with any motive, having neither supernatural miracles nor natural reasons, but solely the force of arms, violence, fictions, lies, and carnal license. It remains an impious, blasphemous, vicious cult, an innovention of the devil, and the direct way into the fires of hell. It does not even merit the name of being called a religion.”
-St. Juan de Ribera (d.1611), Archbishop of Valencia, missionary to Spanish Muslims, and organizer of the Muslim expulsions of 1609 from Spain. Quoted in several locations from his 1599 Catechismo para la Instruccion de los Nuevos Convertidos de los Moros (1P5 translation).
“The Mahometan paradise, however, is only fit for beasts; for filthy sensual pleasure is all the believer has to expect there.”
St. Alfonsus Liguori (d. 1787). Quoted from his book, The History of Heresies and their Refutation.

Fonte: blog Plinthos, Feb. 20th, 2016

Cristianesimo dichiarato morto? in un aforisma di Chesterton


sabato 20 febbraio 2016

venerdì 19 febbraio 2016

Un incontro storico tra l'Antica Roma e la "Terza Roma"? Il punto di vista dello storico prof. De Mattei

Abbiamo già avuto modo di offrire il nostro punto di vista, in una presentazione semiseria (o forse più seria di quanto si creda), dello “storico” incontro tra il vescovo di Roma ed il patriarca della Terza Roma (v. qui). Molti i commenti susseguitisi. Alcuni, al di là delle tinte eminentemente politiche (v. anche le dichiarazioni del patriarca Kirill), hanno posto in rilievo come lo stesso entourage ed i laudatores del vescovo di Roma tentino di “smorzare” la portata dell’incontro (v. Giuseppe Rusconi, Dichiarazione Kirill-Francesco: quanto vale la firma del papa?, in Rossoporpora, 15.2.2016, nonché in Chiesa e postconcilio, 16.2.2016. Cfr. pure ivi); altri hanno evidenziato il rammarico della Chiesa cattolica ucraina (cfr. La protesta dei cattolici ucraini: L'arcivescovo di Kiev dà voce all'amarezza dei suoi fedeli, ivi, 17.2.2016); altri ancora, infine, hanno tenuto a sottolineare come, nonostante alcune affermazioni decisamente cattoliche contenute nella dichiarazione comune, di un cattolicesimo che forse non siamo più abituati a sentire (v. Ortodossi più....ortodossi dei cattolici?, in MiL, 20.2.2016), la c.d. ortodossia ha, tuttavia, profonde differenze, non solo liturgiche e disciplinari, con la Chiesa cattolica (cfr. Corrado Gnerre, Cattolicesimo e ortodossia: lo stesso cristianesimo?, in Civiltà cristiana, 15.2.2016).
Nel seguente contributo, offriamo il punto di vista del prof. De Mattei. L’articolo, già rilanciato anche da Chiesa e postconcilio, è tradotto in inglese dall’immancabile Rorate caeli.

Lo “storico” incontro tra Francesco e Kirill

di Roberto de Mattei

Tra i tanti successi attribuiti dai mass-media a papa Francesco, c’è quello dello “storico incontro”, avvenuto il 12 febbraio a L’Avana, con il patriarca di Mosca Kirill. Un avvenimento, si è scritto, che ha visto cadere il muro che da mille anni divideva la Chiesa di Roma da quella di Oriente.
L’importanza dell’incontro, secondo le parole dello stesso Francesco, non sta nel documento, di carattere meramente “pastorale”, ma nel fatto di una convergenza verso una meta comune, non politica o morale, ma religiosa. Al Magistero tradizionale della Chiesa, espresso da documenti, papa Francesco sembra dunque voler sostituire un neo-magistero, veicolato da eventi simbolici. Il messaggio che il Papa intende dare è quello di una svolta nella storia della Chiesa. Ma è proprio dalla storia della Chiesa che occorre partire per comprendere il significato dell’avvenimento. Le inesattezze storiche sono infatti molte e vanno corrette perché è proprio sui falsi storici che spesso si costruiscono le deviazioni dottrinali.
Innanzitutto non è vero che mille anni di storia dividono la Chiesa di Roma dal Patriarcato di Mosca, visto che questo è nato solo nel 1589. Nei cinque secoli precedenti, e prima ancora, l’interlocutore orientale di Roma era il Patriarcato di Costantinopoli. Nel corso del Concilio Vaticano II, il 6 gennaio 1964, Paolo VI incontrò a Gerusalemme il patriarca Atenagora per avviare un “dialogo ecumenico” tra il mondo cattolico e il mondo ortodosso. Questo dialogo non è riuscito ad andare avanti a causa della millenaria opposizione degli ortodossi al Primato di Roma. Lo stesso Paolo VI lo ammise in un discorso al Segretariato dell’Unità per i cristiani del 28 aprile 1967, affermando: «Il Papa, noi lo sappiamo bene, è senza dubbio l’ostacolo più grande sul cammino dell’ecumenismo» (Paolo VI, Insegnamenti, VI, pp. 192-193).
Il patriarcato di Costantinopoli costituiva una delle cinque sedi principali della cristianità stabilite dal Concilio di Calcedonia del 451. I patriarchi bizantini sostenevano però che dopo la caduta dell’Impero romano, Costantinopoli, sede del rinato Impero romano d’Oriente, sarebbe dovuta divenire la “capitale” religiosa del mondo. Il canone 28 del Concilio di Calcedonia, abrogato da san Leone Magno, contiene in germe tutto lo scisma bizantino, perché attribuisce alla supremazia del Romano Pontefice un fondamento politico e non divino. Per questo nel 515, papa Ormisda (514-523) fece sottoscrivere ai vescovi orientali una Formula di Unione, con cui essi riconoscevano la loro sottomissione alla Cattedra di Pietro (Denz-H, n. 363).
Tra il V e il X secolo, mentre in Occidente si affermava la distinzione tra l’autorità spirituale e il potere temporale, in Oriente nasceva intanto il cosiddetto “cesaropapismo”, in cui la Chiesa viene di fatto subordinata all’Imperatore che se ne ritiene il capo, in quanto delegato di Dio, sia nel campo ecclesiastico che in quello secolare. I patriarchi di Costantinopoli erano di fatto ridotti a funzionari dell’Impero bizantino e continuavano ad alimentare un’avversione radicale per la Chiesa di Roma.
Dopo una prima rottura, provocata dal patriarca Fozio nel IX secolo, lo scisma ufficiale avvenne il 16 luglio 1054, quando il patriarca Michele Cerulario dichiarò Roma caduta nell’eresia per motivo del “Filioque” ed altri pretesti. I legati romani deposero allora contro di lui la sentenza di scomunica sull’altare della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. I principi di Kiev e di Mosca, convertiti al Cristianesimo nel 988 da san Vladimiro, seguirono nello scisma i patriarchi di Costantinopoli, di cui riconoscevano la giurisdizione religiosa. Le discordie sembravano insormontabili ma un fatto straordinario avvenne il 6 luglio 1439 nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, quando il Papa Eugenio IV, annunciò solennemente, con la bollaLaetentur Coeli (“che i cieli si rallegrino”), l’avvenuta ricomposizione dello scisma fra le Chiese di Oriente e di Occidente.
Nel corso del Concilio di Firenze (1439), al quale avevano partecipato l’imperatore d’Oriente Giovanni VIII Paleologo e il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II, si era trovato l’accordo su tutti i problemi, dal Filioque al Primato Romano. La Bolla pontificia si concludeva con questa solenne definizione dogmatica, sottoscritta dai Padri greci: «Definiamo che la santa Sede apostolica e il Romano pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice è il successore del beato Pietro principe degli apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che Nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili ecumenici e nei sacri canoni» (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pp. 523-528).
Fu questo l’unico vero storico abbraccio tra le due chiese nel corso dell’ultimo millennio. Tra i più attivi partecipanti al Concilio di Firenze, c’era il metropolita di Kiev e di tutta la Russia, Isidoro. Appena tornato a Mosca egli diede pubblico annuncio della avvenuta riconciliazione sotto l’autorità del Romano pontefice, ma il principe di Mosca, Vasilij il Cieco, lo dichiarò eretico e lo sostituì con un vescovo a lui sottomesso. Questo gesto segnò l’inizio dell’autocefalia della chiesa moscovita, indipendente non solo da Roma ma anche da Costantinopoli. Poco dopo, nel 1453, l’Impero bizantino fu conquistato dai Turchi e travolse nel suo crollo il patriarcato di Costantinopoli. Nacque allora l’idea che Mosca dovesse raccogliere l’eredità di Bisanzio e divenire il nuovo centro della Chiesa cristiana ortodossa. Dopo il matrimonio con Zoe Paleologo, nipote dell’ultimo Imperatore d’Oriente, il Principe di Mosca Ivan III si diede il titolo di Zar e introdusse il simbolo dell’aquila bicefala. Nel 1589 fu costituito il Patriarcato di Mosca e di tutta la Russia. I Russi diventavano i nuovi difensori dell’“ortodossia”, annunciando l’avvento di una “Terza Roma”, dopo quella cattolica e quella bizantina.
Di fronte a questi eventi, i vescovi di quella zona che allora si chiamava Rutenia e che oggi corrisponde all’Ucraina, e a una parte della Bielorussia, si riunirono, nell’ottobre 1596, nel Sinodo di Brest e proclamarono l’unione con la sede romana. Essi sono conosciuti come, Uniati, a motivo della loro unione con Roma, o Greco-cattolici, perché, pur sottomettendosi al Primato romano, conservavano la liturgia bizantina.
Gli zar russi intrapresero una persecuzione sistematica della Chiesa uniate che, tra i tanti martiri, annoverò il monaco Giovanni (Giosafat) Kuncevitz (1580-1623), arcivescovo di Polotzk, e il gesuita Andrea Bobola (1592-1657), apostolo della Lituania. Entrambi furono torturati e uccisi in odio alla fede cattolica e oggi sono venerati come santi. La persecuzione si fece ancora più aspra sotto l’impero sovietico. Il cardinale Josyp Slipyj (1892-1984), deportato per 18 anni nei lager comunisti, fu l’ultimo intrepido difensore della Chiesa cattolica ucraina.
Oggi gli Uniati costituiscono il più numeroso gruppo di cattolici di rito orientale e costituiscono una testimonianza vivente dell’universalità della Chiesa cattolica. È ingeneroso affermare, come fa il documento di Francesco e Kirill, che il «metodo dell’uniatismo», inteso «come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa», «non è un modo che permette di ristabilire l’unità» e che «non si può quindi accettare l’uso di mezzi sleali per incitare i credenti a passare da una Chiesa ad un’altra, negando la loro libertà religiosa o le loro tradizioni».
Il prezzo che papa Francesco ha dovuto pagare per queste parole richieste da Kirill è molto alto: l’accusa di “tradimento” che ora gli viene rivolta dai cattolici uniati, da sempre fedelissimi a Roma. Ma l’incontro di Francesco con il patriarca di Mosca va ben oltre quello di Paolo VI con Atenagora. L’abbraccio a Kirill tende soprattutto ad accogliere il principio ortodosso della sinodalità, necessario per “democratizzare” la Chiesa romana. Per quanto riguarda non la struttura della Chiesa, ma la sostanza della sua fede, l’evento simbolico più importante dell’anno sarà forse la commemorazione da parte di Francesco dei 500 anni della Rivoluzione protestante, prevista per il prossimo ottobre a Lund, in Svezia.

Un maestro per la Quaresima e per i nostri tempi: S. Alfonso Maria de' Liguori

In questo venerdì delle Quattro Tempora di Quaresima, nel quale si fa particolare memoria della lancia e dei chiodi di N.S.G. Cristo rilancio questo contributo su S. Alfonso M. de’ Liguori di Cristina Siccardi.


Carlo Saraceni, Ostensione del Sacro Chiodo da parte di San Carlo Borromeo, 1610-20 circa, Chiesa di San Lorenzo in Lucina, Roma

Giovanni Baglione, S. Carlo in preghiera dinanzi al Sacro Chiodo invoca la cessazione della peste, XVII sec., Chiesa di S. Pietro, Pogno


Gian Battista della Rovere detto Il Fiammenghino, Processione di S. Carlo del Sacro Chiodo durante la peste, 1602, Duomo, Milano





Reliquia del Sacro Chiodo, Duomo, Milano.
La reliquia è oggetto a Milano, in occasione della festa dell'Esaltazione della Santa Croce, del c.d. rito della Nivola. Cfr. anche Gregory Di Pippo, A Relic of the Passion in Milan Cathedral, in New Liturgical Movement, Sept. 10th, 2015

Sant’Alfonso, un grande maestro per il nostro tempo

di Cristina Siccardi

Il tempo di Quaresima è quello in cui le persone dovrebbero profittare con maggior determinazione per ordinare gli scompigli della propria anima. Viviamo immersi in una cultura di massa dove peccati e tentazioni non solo vengono considerati leciti, ma sono sponsorizzati continuamente e sono considerati “diritti”.
Si è disposti, per esempio, a fare mille sacrifici per essere fisicamente prestanti come vuole lo stereotipo proposto dalla pubblicità, dalla cinematografia, dalle riviste… ma poco o nulla si fa per la dieta dai peccati. La palestra e i centri benessere sono diventati luoghi di grande business “per il bene delle persone”. E mentre ogni attenzione e culto vengono prestati al proprio corpo, l’anima si separa sempre più dal Creatore, l’Unico a volere il vero bene della sua creatura. Eppure i grandi moralisti della Chiesa lo hanno sempre detto: offrire sacrifici, digiuni materiali, piccole penitenze (i misericordiosi «fioretti» insegnati dalle buone mamme ai loro figli) è assai vantaggioso non solo per esprimere in maniera manifesta il proprio Credo, ma per svincolarsi, con maggior forza e facilità, dalle schiavitù del mondo, dando così spazio alla vera libertà dell’anima. Sant’Alfonso Maria de’Liguori (1696-1787) è fra questi grandi moralisti.
Un tempo, quando nei Seminari si insegnava Teologia morale secondo gli orientamenti di quest’ultimo, i cattolici vivevano, pur nelle tribolazioni e peccati quotidiani, con maggiore serenità e il tessuto sociale cattolico seguiva coordinate serie e in armonia con le coscienze di ciascuno, costituite dalla legge divina inscritta in ogni individuo, perciò l’onestà e il senso del dovere tenevano più distanti le varie facce della corruzione. La teologia morale è la medicina più salutare di ogni altra, compresa quella farmaceutica, perché quando l’anima sta bene anche il corpo ne beneficia. Straordinario vedere come la Teologia morale di sant’Alfonso abbia connotazioni ferme, ma allo stesso tempo di immensa e prodigiosa misericordia.
Ai suoi tempi molti confessori erano portati ad avere una rigidità oltremisura nei confronti dei loro penitenti ed ecco che il vescovo di sant’Agata de’ Goti mise sulla direzione corretta la situazione che si era andata creando. Oggi siamo nella situazione opposta: misericordia, profusa dalla maggior parte dei confessori, senza il senso della giustizia divina e senza la pretesa dell’essenziale pentimento. Occorre ricordare che Padre Pio da Pietrelcina, portato a modello di confessore nell’attuale Giubileo, era un paladino della estrema serietà del sacramento della confessione.
Con sant’Alfonso Maria de’ Liguori siamo di fronte all’equilibrio della Tradizione: facile è per gli uomini (non ne sono esenti quelli di Chiesa) condurre idee e dottrine in accelerazione. Più difficile stare nei canoni della proporzione. Ebbene, Sant’Alfonso fu un sapiente equilibratore.
L’ordine morale, per sant’Alfonso, è costituito da un rapporto di conformità tra la volontà e la norma oggettiva, cioè la legge. Tale rapporto è dato dalla conoscenza che ha il soggetto della legge come norma obbligatoria. Da ciò egli è condotto a respingere la probabilità isolata come regola universale di condotta, perché essa, almeno nei gradi inferiori, non è conoscenza; lo è invece la certezza morale in quanto rapporto conoscitivo. Questo genio della teologia morale lavorò in maniera folgorante per contrastare le eresie sue contemporanee e la «Norma universale» divenne «certezza morale». Così si staccò dal facilismo dei probabilisti, accogliendo il lato migliore del probabiliorismo e stabilendo una posizione di netto contrasto di fronte a tutte le gradazioni del rigorismo e del giansenismo.
I suoi formidabili scritti e la sua infaticabile predicazione portarono sulla retta via gli insegnamenti nei Seminari, che erano diventati fucine di errori a causa di teologi fuori equilibrio: l’Europa prese contatto con la nuova Morale, alla quale si riconobbe a mano a mano il merito di aver consumato le sorti del giansenismo e le tendenze più discusse del probabilismo. Tutto il pensiero antecedente fu da sant’Alfonso riassunto: più di 70.000 citazioni da 800 autori attestano da sole il sovrumano lavoro di revisione, di critica, di vagliatura compiuto da quest’uomo di Dio.
La mentalità di sant’Alfonso, un po’ avversa alle discussioni astratte, riappare identica nella Morale come nella Dogmatica, nella Predicazione, nella Missione, nella Pastorale. Nella sua complessa ed articolata opera rientrano le nuove preoccupazioni, ispirate dalla lotta contro il materialismo, l’indifferentismo religioso e l’incredulità, come dimostrano la Breve Dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli oggidì nominati materialisti e deisti e gli analoghi scritti successivi, con i quali il teologo si pone, primeggiando fra tutti, fra le tendenze controversistiche, antirazionalistiche, antilluministiche e apologetiche della seconda metà del XVIII secolo.
È un teologo libero da sé (esente dalla vanagloria) e dai pregiudizi (più facili da assumere rispetto all’affrancatura del saggio); scevro da influenze di indirizzi dell’una o dell’altra scuola di moda, ma fedelissimo alla Tradizione della Chiesa. Se si eccettuano alcuni autori prediletti, come santa Teresa d’Avila o san Francesco di Sales, la sua dottrina scorre fra i vari temi offerti dalla Tradizione con indipendenza di giudizio. Ama veleggiare nella Tradizione, quella libera e realista, e in questa sceglie e discerne per il bene delle anime, guardando sempre all’aspetto efficace, pratico, salutare. Ci sono poi temi sui quali non transige e sui quali insiste senza mai stancarsi: preghiera, uniformità alla volontà di Dio (che costituisce il termine dell’esercizio di perfezione), meditazione sui Novissimi e sulla Passione di Nostro Signore, Eucarestia, devozione alla Vergine Maria.
Scrive Giuseppe Cacciatore nel Dizionario biografico degli italiani dell’Enciclopedia Treccani (Vol. 2 – 1960): «Non si esagera dicendo che si deve a lui principalmente se le grandi teorie della mistica e dell’ascesi, le quali con san Francesco di Sales erano uscite dalla scuola ed entrate nella cosiddetta buona società, uscirono anche da questa e si riversarono tra il popolo. Alfonso, nell’ultima storia del pensiero cattolico, senza parere, è stato colui che ha ritrovato le vene dell’antica concezione eroica del cristiano ed ha, nella sua vita e nella dottrina – umile soltanto nella veste -, rinnovato i grandi teorici dell’amore di Dio, come li aveva conosciuti il Medioevo».
La sua Morale ruppe con facilità la resistenza del giansenismo e sorsero i suoi eminenti propagatori: Pio Brunone Lanteri, Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco in Italia; Gousset e Mazenod in Francia; Diesbach in Svizzera e in Baviera; Hennequin nelle Fiandre; Waibel in Germania. I suoi libri corsero il mondo in tutte le lingue.
Il filosofo Kierkegaard notava, nel sentimento religioso di questo Dottore della Chiesa, rispondenze d’anima che personalmente lo staccavano senza pentimenti dal pietismo protestante; mentre Gioberti e Döllinger, provando acceso fastidio nei suoi confronti, lo snobbavano dalle loro tronfie ed erronee cattedre. L’originalità di Sant’Alfonso è quella dei pensatori cattolici equilibrati, che si radica nel Pensiero Eterno di Dio; quella senza tempo, che trova dimora nella «Bellezza così antica e così nuova», per usare la sublime espressione di Sant’Agostino; quella in grado di sgomberare il giardino dai rovi e che si propone di raddrizzare il cammino verso Dio, distorto da taluni per ingenuità o per malafede.

Fonte: Corrispondenza romana, 17.2.2016