giovedì 31 maggio 2012

Burke: "La cultura secolare ha intaccato anche la liturgia latina, la sua sacralità, la sua dimensione cattolica"


Omelia pronunciata dal card. Raymond Leo Burke durante la S. Messa celebrata nel Santuario di Santa Maria de finibus terrae a Leuca il primo maggio 2012. 

Dopo la statio liturgica presso queste coste luminose – donde il significato di Leuca in greco – dove l'apostolo Pietro approdò, secondo la tradizione, siamo saliti in pellegrinaggio qui dove la Santa Madre di Dio gode di una plurisecolare venerazione. Tra il carisma petrino, presente nel Papa, successore dell'Apostolo, e il carisma mariano c'è piena corrispondenza. Infatti, siamo venuti sulle orme di Benedetto XVI, il Papa che il Signore ha scelto per questo inizio del terzo millennio cristiano. La nostra fede, trasmessaci attraverso l’ufficio petrino, per la Tradizione, è guardata con gratitudine ed è illuminata tramite la devozione più antica del pellegrinaggio. Siamo rinnovati e cresciamo fino alla misura di Gesù Cristo che, nell'immagine venerata sull'altare, la Vergine Maria ci mostra, ma, anche nella quale il suo Figlio Divino ci indica la Madre come via sicura per arrivare a Lui. 
Siamo venuti qui nel giorno che la Chiesa dedica a San Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria e artigiano. San Giuseppe era un costruttore – nell’originale greco del Vangelo che è stato appena proclamato, tèkton1 – termine che significa non un semplice artigiano o falegname, ma un lavoratore dell'edilizia, in grado di lavorare anche la pietra. San Giuseppe fu perciò costruttore di edifici, cioè preparato e capace nelle attività specializzate necessarie per costruire una casa. 
Nella liturgia odierna, all'antifona d'introito abbiamo pregato con le parole del Salmista: “Se il Signore non edifica la casa, invano si affaticano quelli che la costruiscono”2. La parola ispirata del Salmo 126 ci fa ricordare la verità che oggi frequentemente dimentichiamo, cioè che Dio ha stabilito la legge umana del lavoro – come pure ricorda la preghiera colletta3 – pertanto, il nostro lavoro può essere espressione dell'amore, se ogni giorno per Cristo, con Cristo e in Cristo è offerto a Dio Padre con umiltà. Proprio così ha fatto San Giuseppe. Nella Lettera ai Colossesi di San Paolo, troviamo la descrizione della dignità e del fine del nostro lavoro umano, che vediamo manifestato in modo eroico nella vita di San Giuseppe: “Qualunque sia il vostro lavoro, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete in ricompensa l'eredità4
Fu il Venerabile Papa Pio XII, ad istituire la Festa di San Giuseppe Lavoratore, affinché nel giorno che il mondo secolare dedicava alla festa del lavoro, fosse dalla Chiesa richiamata la verità sul lavoro umano e cioè il suo nesso essenziale con Dio Padre e Creatore. Oggi, seguendo l’ispirazione del Venerabile Pontefice, ci accorgiamo che un'economia – che dalla sua radice greca significa “legge per il mondo abitato” – non basata sulla dignità degli uomini che abitano la terra e la corrispondente dignità del lavoro umano, ma sulla speculazione finanziaria, entra in grave crisi. La dignità dell'uomo che lavora, come ha testimoniato il Beato Giovanni Paolo II, non può essere rettamente riconosciuta se, prima di tutto, Dio non è riconosciuto. 
La fede, che costituisce la vera conoscenza che noi abbiamo di noi stessi, la nostra vera autocoscienza, ci fa comprendere che apparteniamo a Dio. Ne scaturisce un percorso che porta a guardare a Gesù Cristo non come un devoto ricordo, ma come vita della nostra vita che nessun errore e nessun potere può strappare. È il percorso dei cuori attratti al Sacro Cuore di Gesù sempre aperto a riceverci, a purificarci e a rafforzarci con l’amore inesauribile che scaturisce in abbondanza dal Suo Cuore glorioso trafitto. Ciò riguarda tutti, vecchi e giovani, e spalanca un orizzonte e una direzione sicura, specie in questo tempo segnato da relativismo, materialismo e individualismo.
Eusebio, vescovo di Cesarea di Palestina, primo storico della Chiesa, vissuto al tempo dell'imperatore Costantino, a proposito di Giuseppe, figlio del patriarca Giacobbe, scrive: "In lui v'era un esimio pudore, una modestia e una prudenza somma; eccellente nella pietà verso Dio, splendeva di una meravigliosa bellezza anche nel sembiante"5. Queste parole, San Giovanni Bosco, nella sua Vita di San Giuseppe, le attribuisce allo Sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Abbiamo bisogno di ricorrere al suo esempio e alla sua protezione perché il Signore ci conceda di vivere così la nostra vita, in unione con il Cuore Divino, specialmente in ogni aspetto del nostro lavoro. 
San Paolo ci ha esortato nell'Epistola di oggi: “Servite a Cristo Signore6. Riflettendo sulla verità del nostro lavoro, come non pensare al primato del nostro più perfetto lavoro, la Sacra Liturgia che giustamente si chiama opus Dei, ”opera di Dio”, a cui non anteporre null'altro, come dice San Benedetto7? Come non riscoprire la verità e la bellezza della liturgia come servizio di Dio, servizio all'altare? Sebbene i termini ministro e ministrante stiano ad attestarlo, nella cultura relativista, materialista e individualista di oggi, facilmente si dimentica che la liturgia va servita e non ci si deve servire di essa per mettere al centro noi stessi. 
Gesù, come ci ricorda il vangelo odierno e l'antifona di comunione8, era conosciuto come figlio del falegname: San Giuseppe è stato per Gesù l'immagine vivente dell'operosità del Padre, il Quale, come dice Gesù, opera sempre9. Se la liturgia è l'opera di Dio in quanto richiede la fede – la fede è l'opera di Dio – noi dobbiamo fare della liturgia la nostra opera più importante, sia per servire il Signore in terra, sia per essere trasformati da Lui e trovare in Lui il vero senso del nostro lavoro quotidiano. L'antifona d'offertorio10 inneggia al Signore che porta a buon fine il nostro lavoro: egli lo fa dal suo tempio santo, quel tempio ove presentiamo le offerte del pane e del vino, frutto del lavoro delle nostre mani. Infatti, sono i santi Misteri che riceviamo – ricorda la preghiera dopo la Comunione – che perfezionano il nostro operato e ci assicurano il loro premio11. Così, ci prepariamo alla liturgia celeste ove opereremo per sempre a lode e gloria della Trinità Santissima. 
Siamo venuti qui, sulle orme di Papa Benedetto XVI che sta incoraggiando e sostenendo un nuovo movimento verso la liturgia e la sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore12. Nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis il Santo Padre ci ricorda che il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio contiene ricchezze non pienamente esplorate13. L’esplorazione si è interrotta o è rimasta in superficie, perché la cultura secolare fortemente marcata dal relativismo, materialismo e individualismo, ha intaccato anche la liturgia latina specialmente la sua sacralità e la sua dimensione cattolica. 
Così si è sviluppato un conflitto tra innovatori e conservatori, in gran parte emotivo: per superarlo razionalmente bisognerebbe quasi riprendere in mano la Memoria sulla riforma liturgica14, redatta nel 1949 sotto il Venerabile Papa Pio XII, che già prima del Concilio Ecumenico Vaticano II promuoveva il restauro della liturgia. In quella Memoria sono enunciati le necessità, i principi fondamentali, il programma organico e l'attuazione pratica. Vi si trovano anche le ragioni - all’epoca - della riforma liturgica: lo stato della liturgia, della scienza liturgica, del movimento liturgico mondiale, la situazione del clero, le promesse e iniziative della Santa Sede per la riforma liturgica definitiva. Alla luce di tali presupposti, si può rileggere la Costituzione Sacrosanctum Concilium nei suoi punti fondamentali: la natura della liturgia e la sua importanza nella Chiesa, l’educazione liturgica del clero - a partire dalla formazione nei seminari - e dei fedeli, la riforma liturgica e spirituale, e i suoi criteri. 
Per distinguere la riforma dalle “deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile15, per adoperare la loro descrizione da parte di Papa Benedetto XVI, basterebbe verificare se siano state osservate due condizioni irrinunciabili: “probe servata eorum [rituum] substantia” e “restituantur vero ad pristinam sanctorum Patrum normam16, “conservata fedelmente la loro [dei riti] sostanza” e “siano riportati alla primitiva tradizione dei Padri”. Si deve tenere in conto anche quanto abbia pesato nell'impostazione e, di conseguenza, nell'applicazione della riforma, per esempio, lo spirito di critica e di insofferenza verso la Santa Sede, un certo razionalismo nella liturgia senza nessuna preoccupazione per la vera pietà, il fatto che i liturgisti non sempre fossero teologi, malgrado nella liturgia, ogni gesto e parola esprima una realtà teologica. Poiché tutta la teologia già da allora era in discussione, le teorie correnti cadevano sulla formula e sul rito, con una gravissima conseguenza: mentre la discussione teologica rimane nell’ambito degli specialisti, la formula e il rito si diffondono nel popolo. Se ne riscontra una eco nella Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Vicesimus Quintus Annus del 1988 ove si parla apertamente di “[a]pplicazioni errate17
Un altro tema importante è la desacralizzazione della liturgia già intravista da Paolo VI in alcune tendenze e sperimentazioni18: la legge liturgica che fino al Concilio era una cosa sacra, per molti dopo il Concilio non esisteva e non esiste più. Non vi è alcun amore per ciò che è stato tramandato; ciascuno si ritiene autorizzato a fare quello che vuole. 
In occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum si è sostenuta l’incompatibilità dei due Messali Romani, quasi supponessero due ecclesiologie. L’intervento pontificio va letto, invece, come continuazione della riforma liturgica in linea con la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Giova ricordare le parole di Papa Benedetto XVI sulla riforma liturgica: “Si tratta in concreto di leggere i cambiamenti voluti dal Concilio all’interno dell’unità che caratterizza lo sviluppo storico del rito stesso, senza introdurre artificiose rotture19. Basandosi sulla realtà dell’unità organica della Sacra Liturgia, specialmente dopo la pubblicazione dell’Istruzione Universae Ecclesiae dello scorso anno, dobbiamo tutti, specialmente negli Istituti e nelle cattedre di Sacra Liturgia nei Seminari e Facoltà, favorire una discussione onesta e perseverante, affinché vi sia l’arricchimento vicendevole tra la forma ordinaria e quella straordinaria del Rito della Messa, per il quale il Santo Padre insistentemente lavora. Soprattutto tutte nostre chiese e cappelle devono essere luoghi dove la sacra liturgia è celebrata in modo esemplare come l’opera di Dio, affidata a noi e perciò la più alta e perfetta espressione della Sua santa Chiesa. 
Preghiamo Santa Maria di Leuca e San Giuseppe, suo sposo, “fidelis servus ac prudens, super Familiam tuam ... constitutus20 – “servo fedele e prudente messo a capo della Santa Famiglia” – affinché protegga il Santo Padre Benedetto XVI, ottenga la riconciliazione della Fraternità San Pio X con la Chiesa universale di cui tutti siamo parte, sostenga il lavoro che la Scuola Ecclesia Mater compie per la promozione della Sacra Liturgia, della musica, arte ed architettura sacre, e ispiri in tutti noi l’obbedienza alla disciplina della Sacra Liturgia, opera di Dio affidata a noi per la salvezza del mondo. 
Cuore di Gesù, fonte di vita e di santità, abbi pietà di noi. 
Santa Maria di Leuca, prega per noi. 
San Giuseppe, il Lavoratore, Sposo di Maria e Fedele Custode della Santa Famiglia, prega per noi. 

1 Mt 13, 55; cf. Mc 6, 3. 
2 Sal 127 [126]: 1. 
3 Cf. “Rerum conditor Deus, qui legem laboris humano generi statuisti:…” Missale Romanum ex decreto Ss. Concilii Tridentini restitutum Summorum Pontificum cura recognitum, Editio Typica 1962 [Missale Romanum 1962], ed. Manlio Sodi e Alessandro Toniolo, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2007, p. 600, “Oratio”. 
4 Col 17, 23-24. 
5 Eusebio, Praeparatio Evangelica, libro VII, 32-34. 
6 Col 17, 24. 
7 Benedicti Regula, Cap. XLIII, 7. 
8 Cf. Mt 13: 55; “Nonne hic est fabri filius”? Missale Romanum 1962, p. 601, “Ant. ad Communionem”. 
9 Cf. Gv 5: 17. 
10 Cf. “Bonitas Domini Dei nostri sit super nos, et opus manuum nostrarum secunda nobis, et opus manuum nostrarum secunda”. Missale Romanum 1962, p. 601, “Ant. ad Offertorium”. 
11 Cf. “Haec sancta quae sumpsimus, Domine: per intercessionem beati Ioseph; et operationem nostram compleant, et praemia confirment”. Missale Romanum 1962, p. 601, “Postcommunio”. 
12 Cf. Joseph Ratzinger, Teologia della liturgia. La fondazione sacramentale dell’esistenza cristiana [Opera omnia, Vol. XI], Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 201, p. 26. 
13 Cf. n. 3. 
14 Cf. Carlo Braga, C.M., ed., La riforma liturgica di Pio XII: Documenti, I. La «Memoria sulla riforma liturgica», Roma: Centro Liturgico Vincenziano, 2003. 
15 Benedictus PP. XVI, Epistula “Ad Episcopos Catholicae Ecclesiae Ritus Romani”, die 7 Iulii 2007, Acta Apostolicae Sedis [AAS] 99 (2007), p. 796. 
16 Sacrosanctum Concilium Oecumenicum Vaticanum II, Constitutio Sacrosanctum Concilium, “De Sacra Liturgia”, AAS 56 (1964), p. 114, n. 50. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 1, p. 51, n. 87. 
17 “[u]sus vitiosi”. Ioannes Paulus PP. II, Litterae apostolicae Vicesimus quintus annus, “Quinto iam lustro expleto conciliari ab promulgata de Sacra Liturgia Constitutione Sacrosanctum Concilium”, 4 Novembris 1988, AAS 81 (1989), p. 910, c, n. 13. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 11, p. 999, n. 1586. 
18 Cf. “Resistite fortes in fide”, 29 giugno 1972, Insegnamenti di Paolo VI, Vol. 10 (1972), Città del Vaticano: Tipografia Poliglotta Vaticana, 1973, pp. 705-708. 
19 “Agitur reapse de immutationibus percipiendis, quas intra unitatem voluit Concilium, quae historicum ipsius ritus progressum, absque inductis facticiis fractionibus, designat”. Benedictus PP. XVI, Adhortatio Apostolica Post-Synodalis Sacramentum caritatis, “De Eucharistia vitae missionisque Ecclesiae fonte et culmine”, die 22 Februarii 2007, AAS 99 (2007), p. 107, n. 3. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum, Vol. 24, p. 91, n. 107. 
20 Missale Romanum 1962, p. 1071, “Praefatio de S. Ioseph, Sponso B.M.V.”.

sabato 26 maggio 2012

La danza vuota intorno al vitello d'oro


Raymond Leo Burke
Nicola Bux 
Raffaele Coppola

Liturgie secolarizzate e diritto

I contributi raccolti nel volume affrontano sotto varie angolature il tema, assai caro alla teologia di Benedetto XVI, della "tentazione costante nel cammino della fede" di eludere il profondo mistero di Dio, "costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi e ai propri progetti". Questa deviazione si è verificata pure in campo liturgico: dopo il Vaticano II e sino ai nostri giorni vi sono stati non rari abusi, i quali risultano censurabili nella misura in cui si traducono in atti di culto che, secondo il pensiero del Santo Padre, non sono più teocentrici ma piuttosto antropocentrici, vale a dire protesi ad un'auto-esaltazione dell'uomo e delle sue esigenze. È per questo che il recupero, compiuto da Benedetto XVI, della cosiddetta "Messa di San Pio V" ovvero della Forma extraordinaria del rito della Messa potrà svolgere un utile compito, spingendo ad arginare quelle non isolate deviazioni, onde riportare sempre più al centro dell'attenzione il vero Protagonista anche nelle modalità di svolgimento della Messa secondo la Forma ordinaria o "di Paolo VI" e dei riti adottati a seguito delle riforme conciliari. Va ricordato che, secondo la dottrina tradizionale, tutti i riti sono offerti per adorare, propiziare, ringraziare Dio ed impetrare da Lui le grazie necessarie alla salvezza eterna dell'uomo.

mercoledì 23 maggio 2012

Il canto gregoriano: un estraneo in casa sua

di Fulvio Rampi* 

Il titolo che ho voluto dare al mio intervento è l’amara sintesi conclusiva della riflessione ecclesiale – sarebbe più corretto dire “mancata riflessione” – post-conciliare in merito al canto gregoriano. Mi sono detto molte volte che sarebbe molto più facile parlare del canto gregoriano se la "Sacrosanctum Concilium", al famoso art. 116, si fosse espressa più o meno così: 
“La Chiesa, pur apprezzando da sempre le alte qualità artistiche ed espressive del canto gregoriano, non lo riconosce come canto proprio della Liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, pur senza escluderlo, non gli si riservi il posto principale”. 

Tutti si sarebbero affrettati a dargli una bella medaglia, ad apprezzarne il valore musicale in quanto fondamento della musica occidentale; insomma, pressocché tutti sarebbero ancora oggi concordi nel considerarlo una grande figura culturale del passato, insigne testimone della liturgia della Chiesa, ma irrimediabilmente superato da nuove istanze liturgiche alle quali non sarebbe più in grado di rispondere in modo appropriato. Nel riconoscergli gli onori meritati con un servizio di tanti secoli, sarebbe la Chiesa stessa ad assegnargli un nuovo posto conveniente – ma non più il principale – nella sua liturgia. Sarebbe ragionevole, più semplice, certamente più comodo. 

La prassi liturgico-musicale post-conciliare, sappiamo, ha perfino ampiamente superato nella realtà la triste fantasia del falso articolo 116 che mi sono permesso di inventare. Già stupirebbero le spaventose aridità liturgico-musicali in risposta al suddetto ipotetico dettato conciliare. Ma il tutto assume connotati scandalosi – in senso etimologico – alla luce del vero articolo conciliare: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò, nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale”

La Chiesa, nella sapienza della sua Tradizione, non ha mai avuto dubbi sul canto gregoriano: il testo della SC non fa che porre il sigillo su una realtà indiscutibile, su una consegna definitiva, dunque su un impegno di ricomprensione che non può mai venir meno. Una ricomprensione che, proprio perché fondata su una consegna definitiva, non può più permettersi domande sbagliate. La domanda: “gregoriano sì o no?” è sbagliata e non esige risposta, già data in modo definitivo dalla Chiesa. Nell’articolo conciliare che ho citato, la Chiesa, in fondo, ribadisce sostanzialmente un’ovvietà: faccio notare che si pone l’accento sul fatto che il canto gregoriano appartiene alla Liturgia della Chiesa, dunque gli viene assegnata una categoria di giudizio che trascende il puro fatto artistico. La Chiesa non si è mai identificata in un’opera d’arte, in uno stile architettonico o in un repertorio musicale. Con il canto gregoriano non ha fatto un’eccezione (anche se così potrebbe sembrare), nel senso che non ha mai giudicato il gregoriano dal punto di vista artistico, ma lo ha associato intimamente al suo vero tesoro: la Parola di Dio. Questa solo è sua, nel senso che alla Chiesa ne spetta l’interpretazione. 

Dunque, parlando di canto gregoriano, c’è innanzitutto in discussione non tanto un dato musicale, quanto piuttosto un elemento ecclesiale fondativo, che è precisamente il rapporto fra Chiesa e Parola. È su questo concetto, funzionale alla comprensione del complesso fenomeno che va sotto il nome generico di canto gregoriano, che sosteremo nella nostra riflessione. 

Dal documento conciliare emerge l’invito non alla rimozione, ma alla ricomprensione del canto liturgico e innanzitutto del canto gregoriano. Ciò significa promuovere finalmente una nuova riflessione ecclesiale forti non solo di un sicuro deposito della Tradizione, ma di sempre nuove acquisizioni provenienti da vari ambiti di studio e di ricerca (la paleografia e la semiologia gregoriana, la modalità; e poi la patristica, la liturgia, la teologia, la storia dell’arte...) che concorrono senza preconcetti, in modo serio e non ideologico a dar corpo e concretezza al principio vitale del "Nova et vetera", che è il respiro della Tradizione della Chiesa. Continuità e rottura non vanno riferite all’oggetto (nella fattispecie il gregoriano), bensì alla sua rinnovata comprensione, a sua volta frutto di nuove modalità di accostamento, maturate in modo particolare nell’arco dell’ultimo secolo. Alla luce dell’ultimo Concilio, si impone davvero un ripensamento del canto gregoriano – dunque, a partire da questo, di tutta la musica liturgica – secondo un rapporto complementare e non antitetico fra continuità e rottura, dove l’una (la continuità) garantisce l’efficacia e la retta intenzione dell’altra (la rottura). 

La vera continuità, data dal suo essere per sempre il canto proprio della liturgia, impone la rottura, il superamento, la "ablatio" di prassi magari consolidate e di tutto ciò che, col tempo, ha finito per coprirne ed offuscarne la vera natura e la forza espressiva. Se per continuità si intendesse il puro ripristino di una prassi preconciliare o la difesa di comprensioni e concezioni cristallizzate nonché impermeabili a qualsiasi “provocazione” proveniente dai molti ambiti accademici della ricerca musicale, anche la rottura seguirebbe la medesima logica, limitandosi ad una opposizione uguale e contraria, orientata a far coincidere il ripensamento con la rimozione. Di fatto, il dibattito post-conciliare si è sostanzialmente appiattito e impoverito nella contrapposizione – dai contorni fatalmente ideologici – fra un gregoriano comunque indiscutibile e un gregoriano da eliminare tout-court.

La domanda malposta, di cui si è appena detto, ha prodotto vari disastri e ha suscitato altre domande altrettanto false e non meno devastanti che hanno interessato concetti alti e principi sacrosanti quali, ad esempio, la "participatio actuosa", miseramente ridotta ad amara barzelletta. Si è via via prodotta e consolidata una situazione paradossale, in ordine alla quale perfino la normale esecuzione di una normale antifona gregoriana, da sempre auspicabile e raccomandata, si è fatta di colpo pericolo per la liturgia. Da dato oggettivo di canto "proprio" (ufficiale, per capirci) della Chiesa, la presenza del gregoriano nella liturgia è passata ad essere regolata dalla più aleatoria soggettività, ossia dalla benevolenza o dall’avversione del celebrante, del liturgista, del parroco, del vescovo di turno. Ciò che sorprende è la disinvoltura ecclesiale con la quale viene normalmente accolto e assecondato tale grave malinteso. Mi pare che in nome del tanto invocato “spirito del Concilio” si sia di fatto semplicemente capovolta la “lettera”. Tutto ciò è stato prodotto a partire da una domanda sbagliata. 

Per tornare a far domande giuste – e, come si è detto, necessarie – sul gregoriano e su tutta la musica liturgica con le sue nuove prospettive, bisogna innanzitutto fare un passo indietro, nel senso cioè di tornare a riaffermare, come prima cosa, ciò che, in verità, è da sempre scontato. Nell’attuale situazione, riaffermare un’ovvietà è già una grande novità, ma è un primo passo vero – anche se triste e imbarazzante – per recuperare un’infinità di terreno perduto. 

Allora chiediamoci quale sia questo terreno perduto, dove stia, in sostanza, la motivazione profonda che fa del gregoriano una vera “perla preziosa”. Al di là di semplificazioni mortificanti o di preconcetti di vario tipo, andiamo per una volta al sodo e facciamoci la domanda al tempo stesso più semplice e più impegnativa: cos’è il canto gregoriano? Vi sono vari livelli di risposta, ciascuno dei quali definisce gradualmente il percorso di conoscenza della sua vera identità. 

1. La risposta più semplice sta in ciò che abbiamo detto finora: il canto gregoriano è il canto proprio della liturgia della Chiesa Cattolica. Conviene tenere sempre presente questo punto di partenza: la prima qualità del gregoriano è di ordine ecclesiale e conferisce a questo repertorio (chiamiamolo così) una categoria di giudizio che trascende la pura dimensione artistica e rimanda direttamente al rapporto speciale fra Chiesa e Parola di Dio. La Chiesa ha posto in una relazione unica il canto gregoriano con la Parola, al punto di identificare in esso il proprio pensiero su quella Parola, la propria riflessione, la propria interpretazione, la propria esegesi. La Chiesa ci dice, insomma, che quando cantiamo il gregoriano esprimiamo precisamente il suo pensiero su quei testi. Ci dice innanzitutto questo. Non solo questo, ma innanzitutto questo. C’è molto di più, si intende, ma intanto abbiamo la garanzia di “respirare” con la Chiesa e di farci ammaestrare dalla sua interpretazione della Scrittura. Basterebbe questo a definire il canto gregoriano un vero simbolo della Chiesa Cattolica. 

2. Un secondo livello di risposta è questo: il gregoriano è – aggiungiamo qualcosa – la versione sonora dell’interpretazione della Parola. Spunta il dato sonoro del gregoriano: l’interpretazione della Parola si fa suono, prende vita come evento musicale, si fa suono della Parola. Comprendiamo bene quale conseguente responsabilità venga affidata al suono, concepito essenzialmente come veicolo di senso, di significato. Ecco l’ulteriore passaggio: l’interpretazione della Parola diventa suono. Dunque: la Chiesa accoglie il suono “consacrandolo” a parte integrante dell’evento liturgico e ne fa “veicolo di senso”, ovvero molto di più che semplice “abbellimento” di un testo”. Questo è un passaggio decisivo. Il testo cantato deve coincidere con il testo spiegato; la spiegazione del testo sta in quella precisa organizzazione di suoni. Il canto gregoriano diventa dunque la spiegazione della Parola come vuole la Chiesa attraverso un preciso progetto sonoro. 

3. Una risposta ancor più completa alla nostra domanda iniziale è la seguente: il gregoriano è la contestualizzazione liturgica dell’interpretazione sonora della Parola. Significa che la Parola non va soltanto interpretata e cantata, ma va soprattutto contestualizzata: la Parola diventa cioè evento liturgico, collocandosi per questo al cuore dell’esperienza ecclesiale. Attenzione: la Parola non è posta semplicemente all’interno della liturgia, ma diventa essa stessa liturgia. Il “canto proprio della liturgia” è davvero “liturgia propria in canto”. 

Fermiamoci un istante e guardiamo il percorso che molto brevemente abbiamo seguito. Siamo partiti dalla Parola, ossia da una consegna alla Chiesa; un dono o, se si vuole, un talento da non sotterrare, ma da trafficare, da far fruttare, da rielaborare e infine da riconsegnare. La riconsegna è un evento sonoro che ne comunica il senso e che assurge a liturgia. Il dato musicale, la componente artistica è funzionale, anzi, coincide con questo progetto esegetico. In altre parole, il gregoriano trasmette il pensiero della Chiesa su quel testo e soprattutto mostra non solo come lo stesso testo è stato compreso, ma come conviene celebrarlo. Su quel testo viene solennemente pronunciato l’amen, ne viene in sostanza riconosciuta la verità. 

4. A questo punto occorre aggiungere subito un’altra considerazione in questo nostro cammino di comprensione e in risposta alla domanda iniziale: la natura liturgica del gregoriano sta nella sua capacità di strutturarsi in stili e forme precise. Questo ulteriore passaggio merita una premessa, così sintetizzabile: non si dà liturgia senza forma. La liturgia è l’esatto contrario dell’improvvisazione. La forma non è apparenza, ma, al contrario, rivela la sostanza, ne è il segno, la prova, la garanzia. Possiamo perfino spingerci ad affermare che, in verità, non esistono i canti gregoriani, bensì le forme gregoriane proprie di ogni canto. Ciascuna forma si presenta, pur nella varietà delle movenze melodico-ritmiche, secondo una precisa natura strutturale: addirittura la forma stessa – altro passo importante nel nostro cammino – è intimamente associata al momento liturgico. 

Così se mi riferisco, ad esempio, a un introito (canto d’ingresso), definisco automaticamente momento, forma, stile di quel brano. Definisco, nella fattispecie, non solo il canto che apre la celebrazione eucaristica, ma sottintendo che si tratta di una salmodia antifonata (forma) in stile semiornato (stile compositivo). Un introito è questo, è nato così, ha questa forma, questo stile, questo stampo: non può che essere così, altrimenti non è un introito. Se dico graduale, offertorio, responsorio o qualsiasi altra forma gregoriana, identifico sempre strutture precise, non composizioni o canti generici. 

Mi si consenta un inciso personale sulla situazione di oggi. Mi chiedo se è legittimo e che senso può avere disattendere sistematicamente il presupposto, consegnatoci dalla tradizione liturgica attraverso l’antica monodia, che regola da secoli il rapporto fra forma musicale e momento liturgico. Penso, ad esempio, ai canti dell’"Ordinarium Missae", in particolare il Gloria e il Credo che, a causa di una ormai diffusa ed inarrestabile ansia assemblearista, sono divenuti ciò che non sono mai stati, ossia forme responsoriali. Per far cantare l’assemblea, con l’illusione e il grave malinteso di promuoverne la partecipazione attiva, si sono piazzati in modo indiscriminato ritornelli facili (spesso banali) in ogni angolo della celebrazione: il misero risultato finale è un appiattimento su improbabili forme responsoriali totalmente estranee alla natura di momenti liturgico-musicali da sempre pensati dalla Chiesa in altro modo. 

Tornando a noi, abbiamo potuto fin qui osservare come il testo, per farsi liturgia, debba subire passaggi obbligati e ordinati. Questa è la radice del canto liturgico: la Chiesa con il canto gregoriano scolpisce per sempre nella pietra questa necessità; la Chiesa stessa, si badi, non dice che bisogna cantare solo il gregoriano, ma attraverso il gregoriano ci consegna per sempre una necessità di percorso. Dobbiamo essere consapevoli che ignorare o smentire nella prassi un principio ordinatore, significa contraddire di fatto il pensiero della Chiesa in merito al canto liturgico. 

5. A questo punto, come se non bastasse, bisogna, per così dire, “calare l’asso”. Sì, perché sono convinto che la cosa più importante di tutto questo percorso non sia ancora stata detta. La vera forza del canto gregoriano, infatti, sta altrove, ossia – allo stesso modo di ciò che succede per la Sacra Scrittura – nella visione d’assieme. Un brano gregoriano, pur possedendo tutte le caratteristiche stilistico-formali appena ricordate, pur avendo subìto questa sorta di complessa “lavorazione” della quale ho finora parlato, sarebbe poca cosa se non fosse inserito in un progetto globale, di enormi dimensioni, che abbraccia tutto l’anno liturgico e che si nutre di relazioni, di allusioni, di rimandi, in una parola di formule. Non posso cantare il gregoriano senza sapere, o almeno senza mettere in conto che ogni brano è parte viva dell’intero repertorio, col quale è posto in una relazione senza la quale il valore intrinseco del brano stesso ne risulterebbe fortemente sminuito. Solo nel gioco di relazioni, di rimandi, di allusioni più o meno velate posso cogliere, tanto nel Grande Codice della Scrittura quanto negli antichi codici liturgico-musicali, il senso di un episodio, di un’affermazione, di un frammento musicale più o meno esteso. 

Il gregoriano vive di queste relazioni: la sua matrice culturale, che lo colloca nel tempo della tradizione orale, non può che rivelarsi attraverso la prodigiosa tecnica mnemonica. Il gregoriano è davvero il canto della memoria. Ecco un’altra possibile definizione in risposta alla nostra prima domanda. L’intero repertorio, l’intero enorme progetto, così minuziosamente pensato e costruito, è affidato alla memoria. Non è questa la sede per un’analisi del percorso storico del gregoriano, ma giova almeno ricordare che le più antiche testimonianze scritte – risalenti ai secoli X e XI – offrono testimonianza di un repertorio sterminato nel quale è la memoria a determinare le relazioni. Ogni brano gregoriano è un frammento del tutto, e tale frammento si scopre funzionale ad un globale progetto esegetico. Mi pare di poter accostare il gregoriano all’immagine paolina ben nota del corpo umano, in cui nulla vive per sé, ma tutto è in relazione.  

Ci siamo spinti un po’ avanti e abbiamo intravisto prospettive vertiginose nella elaborazione di un testo sacro. Abbiamo dato uno sguardo d’assieme dall’alto e abbiamo visto ciò che personalmente amo paragonare ad una grande cattedrale. Cosa possiamo dire di fronte ad una cattedrale? Certamente è fondamentale conoscerne il materiale, le tecniche di costruzione, come è fondamentale conoscere le caratteristiche del testo nel canto gregoriano, dalla sua provenienza alle sue qualità fonetiche, alla sua pronuncia fondata sul valore sillabico e così via. Cosa sarebbe, tuttavia, una cattedrale privata del suo progetto globale, del suo valore simbolico e allusivo? Il materiale, prima grezzo, poi elaborato, è in ultima analisi funzionale ad una forma creata a sua volta da proporzioni perfette e sorretta dal concetto di ordine, presupposto ineliminabile anche nel canto gregoriano. È l’ordine che crea la forma e offre le chiavi di lettura di un progetto. In fondo, come non pensare alla stessa Creazione che, così come emerge dal racconto della Genesi, ci appare come il risultato di un “fare ordine” con infinita sapienza? 

Il gregoriano, come ho detto, si presenta davanti a noi con le forme di una grande cattedrale ed è al centro della nostra città, della musica liturgica. È così, oggettivamente così. La difficoltà e la complessità di un nuovo inizio nella musica liturgica non possono giustificare giudizi sommari, progetti tanto sconsiderati quanto mediocri che contraddicono in radice la storia della cultura ecclesiale; cultura che si è sempre nutrita dei migliori prodotti del pensiero dell’uomo. Il gregoriano, nella sua qualità saliente di “voce della Chiesa”, non è ancora stato studiato a sufficienza; la Chiesa stessa, dichiarandolo “suo”, ci assicura che esso non ha esaurito le sue potenzialità e che da questo tesoro, che abbiamo scoperto essere eco della Parola di Dio, siamo chiamati a trarre “cose nuove e cose antiche”. 

Se avremo pazienza e desiderio sincero di accostarlo e di ascoltarlo, ci insegnerà a quali altezze può condurre la "lectio divina" sulla Parola. Sì, il gregoriano è la forma musicale della "lectio divina" della Chiesa. Come potremmo infatti definire la “lavorazione” del testo sacro, di cui si è detto finora, se non accostando le sue fasi ai diversi gradi della "lectio divina", a partire dalla "ruminatio" per giungere a vertiginose vette contemplative? Mi chiedo: come cambierebbero le odierne riflessioni sul canto liturgico se partissero da un accostamento serio e libero al canto gregoriano? 

Solo un ingenuo può pensare che il canto sacro sia esclusivamente il canto gregoriano. Ma non accorgersi o togliere di mezzo il canto gregoriano equivale a togliere una cattedrale da una città e da una diocesi. Non solo, equivale piuttosto a togliere di mezzo il presupposto per rendere feconda ogni riflessione sulle nuove proposte di musica liturgica; questo perché la Chiesa col gregoriano ci ha detto una volta per tutte che l’intima natura del canto sacro sta principalmente nel trasformare la Parola di Dio in evento liturgico. Ogni altra prospettiva, anche legittima, è secondaria. È un obiettivo raggiunto con il gregoriano, è una testimonianza che sta lì davanti a noi. 

Il canto gregoriano è tutto questo, ed è stato perfino capace di orientare le forme del canto popolare. L’immenso patrimonio del cosiddetto canto gregoriano popolare è in realtà un frutto maturo di un lungo percorso secolare che si radica nella intima natura ecclesiale della antica monodia liturgica. Con i secoli si può sostituire il gregoriano, ma non si può sostituire il pensiero di fondo che lo ha determinato. Certamente il gregoriano è il prodotto artistico figlio del suo tempo, e come tale superabile, ma senza che per questo ne venga cancellata l’impronta indelebile data per sempre dalla Chiesa. Agostino direbbe, in riferimento al piano di Dio, “Muti il disegno, ma non il progetto”. Una riflessione ecclesiale che in merito alla musica liturgica non affronti seriamente la questione gregoriana è moneta falsa che compra merce falsa. 

Conclusione

Ma, concretamente, cosa si può fare? Cosa possono fare una parrocchia, una cattedrale, una piccola "schola cantorum" o un grande coro? Quali sono le nostre potenzialità, quali sono le nostre risorse, quali sono le nostre energie? Ritorniamo tutti nelle nostre comunità dove ci attendono mille problemi concreti da gestire che, normalmente, tolgono spazio a possibili nuove riflessioni. E poi, anche condividendo queste osservazioni, come le possiamo incarnare in un contesto ecclesiale non disposto, salvo rare eccezioni, a prendere in considerazione simili prospettive liturgico-musicali? Si ha spesso la netta sensazione che dove non domina l’ideologia regni comunque l’indifferenza, per certi versi un male ancora peggiore. In un panorama complessivamente desolante, che fare? Da dove iniziare? Che atteggiamento adottare? 

Ecco, c’è un atteggiamento che mi pare possa valere per tutte le realtà, indipendentemente dalle loro potenzialità e dalla situazione specifica: si tratta della fiducia nei confronti del gregoriano. Fidarsi del gregoriano significa confidare innanzitutto nel fatto che la Chiesa ha dichiarato “sua” una cosa buona. Una cosa buona che, come tale, è a nostro vantaggio, è per il nostro bene. 

Il primo passo concreto è la volontà di entrare con fiducia da una porta che si è fatta oggettivamente molto stretta. Certo, il gregoriano è difficile, non regala emozioni facili, non promette risultati immediati e a basso costo. Non si fa conoscere subito, non dà confidenza a chiunque, e a chi lo vuole incontrare suggerisce la pazienza di un incontro vero e profondo: “venite e vedrete”, che potremmo parafrasare in “studiate e capirete”. Non giudichiamolo fuori dalla realtà di oggi: siamo noi fuori dal pensiero della Chiesa. Non consideriamolo irraggiungibile: per chi lo vuole incontrare, i mezzi e gli strumenti ci sono, basta cercarli; esso si mostra poco a poco e regala emozioni che nulla hanno a che fare col vago senso di spiritualismo, di misticismo o di atmosfere rarefatte, troppo spesso associate impropriamente al canto gregoriano. Ci vorrà tempo, i risultati tarderanno ad arrivare, a causa di una fatica che, nell’attuale situazione di diffuso “sospetto”, si è fatta doppiamente pesante. 

Detto questo, perché non accettare, nella Chiesa, questa sfida impossibile? Avere fiducia nel gregoriano significa volergli riservare il posto principale, prima ancora che nella liturgia, nel nostro cuore. È il cuore della Chiesa che lo deve riconoscere come dono, come grazia, come suo tesoro e non come ingombro. È lo sguardo che deve cambiare, e alla Chiesa è chiesto di più che al mondo della cultura. 

Nei Conservatori e negli ambienti musicali – posso testimoniarlo personalmente – il gregoriano è molto apprezzato: è riconosciuto come linguaggio musicale che ha dato origine alla cultura musicale dell’Occidente. Il canto gregoriano non ha difficoltà ad “affermarsi” nel mondo musicale, segno che anche dal punto di vista squisitamente artistico – che ci siamo proposti addirittura di non considerare in questa riflessione – il canto proprio della liturgia romana non ha mai avuto complessi di inferiorità e sa farsi rispettare. Ma, lo ripeto, alla Chiesa – ed è precisamente lì il vero problema – oggi è richiesto molto di più. La Chiesa non può nascondere il canto gregoriano, ma non può neppure solamente apprezzarlo per ciò che ha rappresentato in passato: essa è chiamata soprattutto ad amarlo. Ad amarlo oggi, a ritrovare oggi le vere motivazioni per ritenerlo nuovamente suo, a stupirsi e a ringraziare con gioia per tanta autentica bellezza, a riconoscerlo nuovamente come forma ottimale della propria fede, a riportarlo per questo al centro della santa liturgia, culmine e fonte della vita in Cristo. 

Ho iniziato questa mia riflessione citando un articolo del magistero che, per fortuna, non esiste. Vorrei concludere allo stesso modo, ma con una sostanziale differenza. Da un documento di fantasia che, pur fotografando una situazione reale, non vorremmo mai nella realtà, passo a suggerirne un altro che, al contrario, non fotografa affatto la situazione attuale e vorremmo invece leggere. Eccolo: 

“È fatto obbligo ad ogni chiesa cattedrale, basilica o santuario di dotarsi di una 'schola gregoriana' stabile, anche di pochi elementi, a voci maschili o femminili, in grado di eseguire le parti proprie in canto gregoriano almeno nelle principali solennità e festività dell’anno liturgico. La direzione della 'schola gregoriana' è da affidarsi unicamente ad un maestro che abbia conseguito un titolo specifico nell’ambito del canto gregoriano, che gli studi più recenti hanno felicemente restituito alla sua integrità e purezza”. 

Quest’ultima riga non è mia, ma è copiata dal motu proprio di Pio X "Tra le sollecitudini" (1903). A più di un secolo di distanza, possiamo parlare di una nuova "ablatio" che, lungo tutto il secolo XX, ha continuato a restituire nuova integrità e nuova purezza al canto gregoriano. L’auspicio è che la Chiesa si accorga, finalmente, di ciò che è stato fatto. Con il motu proprio di Pio X si era data concretezza ad un nuovo percorso e ad una nuova stagione. Ora, per i vertici istituzionali della Chiesa, come per tutti noi, è il tempo dei fatti. 


* Relazione tenuta il 19 maggio 2012 a Lecce nel convegno: "Colloqui sulla musica sacra. Cinquant'anni dal Concilio Vaticano II alla luce del magistero di Benedetto XVI". L'autore è gregorianista e docente al conservatorio di musica di Torino 

venerdì 18 maggio 2012

Miserachs: "Non siamo riusciti a conservare la grande ricchezza del canto gregoriano"

di Linda Cappello

Cinquant'anni sono trascorsi dall'inizio delle riforme volute dal Concilio Vaticano II. In campo musicale, quale può essere il bilancio di questo cinquantennio?
Il bilancio è purtroppo negativo. Il Concilio Vaticano II ha espresso una volontà di rinnovamento, ma nella continuità della tradizione che veniva dall'opera di San Pio X, il quale nella sua riforma della musica liturgica si rifece alla polifonia classica e dette nuovo vigore al canto gregoriano . Il filo di questa continuità si è spezzato, non siamo stati in grado di conservare la ricchezza della tradizione del canto gregoriano. Per non parlare del latino. Sono stati messi al bando questi tesori della tradizione, ai quali il concilio non voleva assolutamente rinunciare. Nè siamo stati in grado di creare dei lavori nuovi, nonostante la presenza di musicisti ben preparati, sulla scia della grande tradizione musicale della chiesa. Parlo di opere moderne che che in connessione con quelle antiche avrebbero potuto avere una validità artistica, liturgica e spirituale. Il bilancio dunque è doppiamente negativo: in primo luogo perchè è stato archiviato ciò che non doveva essere archiviato, e poi per non aver saputo produrre opere di valore in armonia con la tradizione.

A suo avviso quali possono essere i rimedi?
E' passato molto tempo, e certe cattive abitudini si sono ormai incancrenite, anche per una mancanza di substrato culturale. L'insegnamento della musica, del canto gregoriano nei seminari è stato ormai abbandonato. Quindi il nuovo clero, parlo anche di vescovi, ha sentito maggiormente il distacco col passato. Al contrario, invece, vedo nelle nuovissime generazioni un desiderio di recuperare la Tradizione, sviluppando una coscienza di quello che si è perso. Non si deve promuovere un ritorno al passato, sia chiaro: si deve sempre guardare avanti, ma facendo tesoro dei valori del passato.

Il convegno promosso a Lecce dalla Scuola Ecclesia Mater può dare un contributo a definire nuove strategie di intervento, nel solco del Magistero ecclesiastico e delle indicazioni di Benedetto XVI?
E' bene che si facciano questo genere di convegni, sono certo che susciterà adesioni così come contestazioni. Ma certamente è bene che si faccia: può essere uno stimolo per la Chiesa locale.

Il convegno sarà concluso da una celebrazione in canto gregoriano, presso la chiesa di S. Chiara: ritiene che l'uso del latino e del gregoriano possa essere benefico per la spiritualità dei nostri tempi?Assolutamente sì.Il canto gregoriano è inscindibile dalla lingua latina. Il latino si pratica nella liturgia, e con il suo uso si rinsalda la coscienza di appartenere alla chiesa cattolica . Tutti i testi più importanti della Tradizione sono scritti in lingua latina: è impensabile archiviare tutto.

tratto da La Gazzetta del Mezzogiorno del 18.5.2012



mercoledì 16 maggio 2012

don Nicola Bux a Perugia il 17 maggio

Don Nicola Bux, teologo e consultore dell'Ufficio per le celebrazioni liturgiche del Santo Padre, sarà a Perugia il 17 maggio:


- ore 18,00 Santa Messa nella Forma Straordinaria del Rito Romano nella chiesa di San Filippo Neri, via dei Priori (centro storico);



- ore 21,00 conferenza dal titolo "Le variazioni nel rito romano dopo il concilio Vaticano II: continuità o rottura? Questioni teologiche e liturgiche", presso l'oratorio di Santa Cecilia in via della Stella.

domenica 13 maggio 2012

In memoriam


La Scuola Ecclesia Mater è vicina con l'affetto all' Avv. Emilio Artiglieri, nostro grande amico, nel momento doloroso della dipartita della cara Mamma Pierina, ed eleva preghiere per la sua anima eletta, affinchè il Signore la ricompensi con la beatitudine eterna.

venerdì 11 maggio 2012

Colloqui sulla Musica Sacra: a Lecce il 19 maggio

Sabato 19 maggio alle 9,30, nel Seminario arcivescovile in Piazza Duomo a Lecce, si terrà il primo degli incontri nazionali promossi dalla Scuola Ecclesia Mater, dal titolo "Colloqui sulla Musica sacra: cinquant'anni dal Concilio Vaticano II alla luce del Magistero di Benedetto XVI".

La giornata di studi, con il patrocinio dell'Arcidiocesi di Lecce, del  Conservatorio "T. Schipa" e del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, sarà un momento di riflessione sull'applicazione della riforma liturgica in campo musicale e contemporaneamente sulla corretta interpretazione della normativa in materia.

Dopo i saluti delle Autorità, interverranno il card. Walter Brandmueller, presidente del Pont. Comitato di Scienze storiche, mons. Juan Miguel Ferrer, segretario della Congr. per il Culto Divino, mons. Valentin Miserachs, preside del Pont. Ist. di Musica Sacra, il M° Fulvio Rampi, gregorianista e docente del Cons. di Torino, p. Alessandro Ratti docente presso la facoltà teologica del Triveneto, la prof. Elsa Martinelli organologa e docente del  Conservatorio leccese, il M° Simone Baiocchi compositore e consigliere nazionale dell'AISC. I lavori saranno moderati e chiusi dal M° Giannicola D'Amico, responsabile per la musica in seno alla Scuola Ecclesia Mater.

Nel pomeriggio alle 17 nella chiesa di S. Chiara sarà celebrata dal card. Brandmueller la S. Messa nel rito romano antico, con il servizio dei ministranti della Scuola Ecclesia Mater e la partecipazione del Coro Novum  Gaudium dell'abbazia di Noci, diretto da p. Anselmo Susca.

Il successivo incontro nazionale si terrà in Veneto agli inizi dell'autunno, mentre a Roma è previsto a fine anno un momento conclusivo di confronto, a chiusura di questa programmazione "giubilare" che vuole essenzialmente essere di aiuto per i musicisti ed il clero, nel ricalibrare il giusto rapporto fra musica e liturgia, alquanto compromesso negli ultimi decenni.

Non è un caso che l'incontro si svolga a Lecce, in Puglia, una delle regioni in questo momento più attive sul fronte della riscoperta e della difesa della liturgia, dell'arte e della musica sacra alla luce del Magistero della Chiesa e del costante esempio di Benedetto XVI.




lunedì 7 maggio 2012

Responsabilità e promessa per tutti

Traduzione italiana della lettera che Benedetto XVI ha inviato a monsignor Robert Zollitsch, arcivescovo di Friburgo e presidente della Conferenza episcopale tedesca, a proposito della traduzione in tedesco delle parole «pro multis» nelle preghiere eucaristiche della messa.

Dal Vaticano, 14 aprile 2012

Eccellenza,
Venerato, caro Arcivescovo,
            In occasione della Sua visita del 15 marzo 2012, Lei mi ha fatto sapere che per quanto riguarda la traduzione delle parole «pro multis» nelle Preghiere Eucaristiche della Santa Messa ancora non c’è unità tra i Vescovi dell’area di lingua tedesca. Incombe, a quanto pare, il pericolo che per la pubblicazione della nuova edizione del  «Gotteslob» [libro dei canti e preghiere], attesa in tempi brevi, alcune parti dell’area di lingua tedesca vogliano mantenere la traduzione «per tutti», anche qualora la Conferenza episcopale tedesca convenisse a scrivere «per molti», così come richiesto dalla Santa Sede. Le avevo promesso che mi sarei espresso per iscritto riguardo a questa importante questione, al fine di prevenire una tale divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera. La lettera che qui, per Suo tramite, indirizzo ai membri della Conferenza Episcopale Tedesca, sarà inviata anche agli altri Vescovi dell’area di lingua tedesca.
            Anzitutto, mi lasci spendere brevemente una parola sulle origini del problema. Negli anni sessanta, quando bisognava tradurre in tedesco, sotto la responsabilità dei Vescovi, il Messale Romano, esisteva un consenso esegetico sul fatto che la parola «i molti», «molti» in Isaia 53, 11s, fosse una forma di espressione ebraica per indicare la totalità, «tutti». La parola «molti» nei racconti dell’istituzione di Matteo e di Marco, sarebbe stata quindi un «semitismo» e avrebbe dovuto essere tradotta con «tutti». Questo concetto si applicò anche al testo latino direttamente da tradurre, in cui il «pro multis» avrebbe rimandato, attraverso i racconti evangelici, a  Isaia 53 e perciò sarebbe stato da tradurre con «per tutti». Questo consenso esegetico, nel frattempo, si è sgretolato; esso non esiste più. Nella traduzione ecumenica tedesca della Sacra Scrittura, nel racconto dell’Ultima Cena, si legge: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc  14, 24; cfr.  Mt 26, 28). Con questo si evidenzia una cosa molto importante: la resa di «pro multis» con «per tutti» non era affatto una semplice traduzione, bensì un’interpretazione, che sicuramente era e rimane fondata, ma tuttavia è già un’interpretazione ed è più di una traduzione.
            Questa fusione di traduzione e interpretazione appartiene, in un certo senso, ai principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei libri liturgici nelle lingue moderne. Si era consapevoli di quanto la Bibbia ed i testi liturgici fossero lontani dal mondo del parlare e del pensare dell’uomo d’oggi, così che anche tradotti essi sarebbero rimasti ampiamente incomprensibili ai partecipanti alla liturgia. Era un’i m p re - sa nuova che i testi sacri fossero resi accessibili, in traduzione, ai partecipanti alla liturgia, pur rimanendo, tuttavia, a una grande distanza dal loro mondo; anzi, in questo modo, i testi sacri apparivano proprio nella loro grande distanza. Così, ci si sentì non solo autorizzati, ma addirittura in obbligo di fondere già nella traduzione l’interpretazione, e di accorciare in questo modo la strada verso gli uomini, il cui cuore ed intelletto si voleva fossero raggiunti appunto da queste parole.
            Fino ad un certo punto, il principio di una traduzione contenutistica e non necessariamente letterale del testo di base rimane giustificato. Dal momento che devo recitare le preghiere liturgiche continuamente in lingue diverse, noto che, talora, tra le diverse traduzioni, non è possibile trovare quasi niente in comune e che il testo unico che ne è alla base, spesso è riconoscibile soltanto da lontano. Vi sono state poi delle banalizzazioni che rappresentano delle vere perdite. Così, nel corso degli anni, anche a me personalmente, è diventato sempre più chiaro che il principio della corrispondenza non letterale, ma strutturale, come linea guida nella traduzione, ha i suoi limiti. Seguendo considerazioni di questo genere, l’Istruzione sulle traduzioni  «Liturgiam authenticam», emanata dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti il 28 marzo 2001, ha posto di nuovo in primo piano il principio della corrispondenza letterale, senza ovviamente prescrivere un verbalismo unilaterale. L’acquisizione importante che è alla base di questa Istruzione consiste nella distinzione, a cui ho già accennato all’inizio, fra traduzione e interpretazione. Essa è necessaria sia nei confronti della parola della Scrittura, sia nei confronti dei testi liturgici. Da un lato, la parola sacra deve presentarsi il più possibile come essa è, anche nella sua estraneità e con le domande che porta in sé; dall’altro lato, è alla Chiesa che è affidato il compito dell’interpretazione, affinché — nei limiti della nostra attuale comprensione — ci raggiunga quel messaggio che il Signore ci ha destinato. Neppure la traduzione più accurata può sostituire l’interpretazione: rientra nella struttura della rivelazione il fatto che la Parola di Dio sia letta nella comunità interpretante della Chiesa, e che fedeltà e attualizzazione siano legate reciprocamente. La Parola deve essere presente quale essa è, nella sua propria forma, forse a noi estranea; l’interpretazione deve misurarsi con la fedeltà alla Parola stessa, ma al tempo stesso deve renderla accessibile all’ascoltatore di oggi.
            In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione «pro multis» debba essere  tradotta come tale e non insieme già interpretata. Al posto della versione interpretativa «per tutti» deve andare la semplice traduzione «per molti». Vorrei qui far notare che né in Matteo, né in Marco c’è l’articolo, quindi non «per i molti», ma «per molti». Se questa decisione è, come spero, assolutamente comprensibile alla luce della fondamentale correlazione tra traduzione e interpretazione, sono tuttavia consapevole che essa rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa. Infatti, per coloro che abitualmente partecipano alla Santa Messa questo appare quasi inevitabilmente come una rottura proprio nel cuore del Sacro. Essi chiederanno: ma Cristo non è morto per tutti? La Chiesa ha modificato la sua dottrina? Può ed è autorizzata a farlo? È qui in atto una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio? Per l’esperienza degli ultimi 50 anni, tutti sappiamo quanto profondamente i cambiamenti di forme e testi liturgici colpiscono le persone nell’animo; quanto fortemente possa inquietare le persone una modifica del testo in un punto così centrale. Per questo motivo, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione «molti», si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione. Per quanto ne so, una tale catechesi finora non è stata fatta nell’area linguistica tedesca. L’intento della mia lettera è chiedere con la più grande urgenza a Voi tutti, cari confratelli, di elaborare ora una tale catechesi, per parlarne poi con i sacerdoti e renderla contemporaneamente accessibile ai fedeli.
            In una tale CATECHESI si dovrà forse, in primo luogo, spiegare brevemente perché nella traduzione del Messale dopo il Concilio, la parola «molti» venne resa con «tutti»: per esprimere in modo inequivocabile, nel senso voluto da Gesù, l’universalità della salvezza che proviene da Lui. Ma poi sorge subito la domanda: se Gesù è morto per tutti, perché nelle parole dell’Ultima Cena Egli ha detto «per molti»? E perché allora noi ci atteniamo a queste parole di istituzione di Gesù? A questo punto bisogna anzitutto aggiungere ancora che, secondo Matteo e Marco, Gesù ha detto «per molti», mentre secondo Luca e Paolo ha detto «per voi». Così il cerchio, apparentemente, si stringe ancora di più. Invece, proprio partendo da questo si può andare verso la soluzione. I discepoli sanno che la missione di Gesù va oltre loro e la loro cerchia; che Egli era venuto per riunire da tutto il mondo i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11, 52). Il «per voi», rende, però, la missione di Gesù assolutamente concreta per i presenti. Essi non sono degli elementi anonimi qualsiasi di un’enorme totalità, bensì ogni singolo sa che il Signore è morto proprio «per me», «per noi». «Per voi» si estende al passato e al futuro, si riferisce a me del tutto personalmente; noi, che siamo qui riuniti, siamo conosciuti ed amati da Gesù in quanto tali. Quindi questo «per voi» non è una restrizione, bensì una concretizzazione, che vale per ogni comunità che celebra l’Eucaristia e che la unisce concretamente all’amore di Gesù. Il Canone Romano ha unito tra loro, nelle parole della consacrazione, le due letture bibliche e, conformemente a ciò, dice: «per voi e per molti». Questa formula è stata poi ripresa, nella riforma liturgica, in tutte le Preghiere Eucaristiche.
            Ma, ancora una volta: perché «per molti»? Il Signore non è forse morto per tutti? Il fatto che Gesù Cristo, in quanto Figlio di Dio fatto uomo, sia l’uomo per tutti gli uomini, sia il nuovo Adamo, fa parte delle certezze fondamentali della nostra fede.  Su questo punto vorrei solamente ricordare tre testi della Scrittura: Dio ha consegnato suo Figlio «per tutti», afferma Paolo nella Lettera ai Romani (Rm 8, 32). «Uno è morto per tutti», dice nella Seconda Lettera ai Corinzi, parlando della morte di Gesù (2 Cor 5, 14). Gesù «ha dato se stesso in riscatto per tutti», è scritto nella Prima Lettera a Timoteo (1 Tm 2, 6). Ma allora, a maggior ragione ci si deve chiedere, ancora una volta: se questo è così chiaro, perché nella Preghiera Eucaristica è scritto «per molti»? Ora, la Chiesa ha ripreso questa formulazione dai racconti dell’istituzione nel Nuovo Testamento. Essa dice così per rispetto verso la parola di Gesù, per mantenersi fedele a Lui fin dentro la parola. Il rispetto reverenziale per la parola stessa di Gesù è la ragione della formulazione della Preghiera Eucaristica. Ma allora noi ci chiediamo: perché mai Gesù stesso ha detto così? La ragione vera e propria consiste nel fatto che, con questo, Gesù si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53, ha dimostrato di essere quella figura che la parola del profeta stava aspettando. Rispetto reverenziale della Chiesa per la parola di Gesù, fedeltà di Gesù alla parola della «Scrittura»: questa doppia fedeltà è la ragione concreta della formulazione «per molti». In questa catena di fedeltà reverenziale, noi ci inseriamo con la traduzione letterale delle parole della Scrittura.
            Come abbiamo visto anteriormente che il «per voi» della traduzione lucano-paolina non restringe, ma concretizza; così ora possiamo riconoscere che la dialettica «molti» — «tutti» ha il suo proprio significato. «Tutti» si muove sul piano ontologico — l’essere ed operare di Gesù comprende tutta l’umanità, il passato, il presente e il futuro. Ma di fatto, storicamente, nella comunità concreta di coloro che celebrano l’Eucaristia, Egli giunge solo a «molti». Allora è possibile riconoscere un triplice significato della correlazione di «molti» e «tutti». Innanzitutto, per noi, che possiamo sedere alla sua mensa, dovrebbe significare sorpresa, gioia e gratitudine perché Egli mi ha chiamato, perché posso stare con Lui e posso conoscerlo. «Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa ...» [canto religioso «Fest soll mein Taufbund immer stehen», strofa 1]. Poi, però, in secondo luogo questo significa anche responsabilità. Come il Signore, a modo suo, raggiunga gli altri — «tutti» — resta, alla fine, un mistero suo. Senza dubbio, però, costituisce una responsabilità il fatto di essere chiamato da Lui direttamente alla sua mensa, così che posso udire: «per voi», «per me», Egli ha patito. I molti portano responsabilità per tutti. La comunità dei molti deve essere luce sul candelabro, città sul monte, lievito per tutti. Questa è una vocazione che riguarda ciascuno, in modo del tutto personale. I molti, che siamo noi, devono sostenere la responsabilità per il tutto, consapevoli della propria missione. Infine, si può aggiungere un terzo aspetto. Nella società attuale abbiamo la sensazione di non essere affatto «molti», ma molto pochi — una piccola schiera, che continuamente si riduce. Invece no — noi siamo «molti»: «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua», dice l’Apocalisse di Giovanni (Ap  7, 9). Noi siamo molti e rappresentiamo tutti. Così ambedue le parole «molti» e «tutti» vanno insieme e si relazionano l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa.
            Eccellenza, cari confratelli nell’Episcopato! Con tutto questo, ho voluto indicare le linee fondamentali di contenuto della catechesi per mezzo della quale sacerdoti e laici dovranno essere preparati il più presto possibile alla nuova traduzione. Auspico che tutto questo possa servire, allo stesso tempo, ad una più profonda partecipazione alla Santa Eucaristia, inserendosi così nel grande compito che ci aspetta con «l’Anno della fede». Posso sperare che la catechesi venga presentata presto e diventi così parte di quel rinnovamento liturgico, per il quale il Concilio si è impegnato fin dalla sua prima sessione.
            Con la benedizione e i saluti pasquali,
            Mi confermo Suo nel Signore

            BENEDICTUS P P. XVI